Lo spazio di nessuno

Se fossero state armi appese alle pareti, sarei diventato un cacciatore, ma erano libri, impilati fino al soffitto. Avevo quelli intorno e addosso. Sono stato bambino e poi ragazzo dentro una stanza di carta. Mio padre ne comprava a chili, erano il suo altrove, la distanza da pomodori e frutta sciroppata, merci del suo lavoro. Rientrava la sera, si metteva in poltrona disteso sotto un libro. Stava così all’aperto.

Quella mossa quotidiana, il silenzio di noi figli per lasciarlo al suo tempo migliore, le finestre chiuse anche d’estate per non ascoltare altro che pagine: quella mossa mi ha avviato.

“Un giorno non dovrai comprarli, te li regalerò io, scaffali interi scritti da me stesso. Se il tuo tempo perfetto è stare con i libri, allora ti verranno da me senza pagarli. Io ti rimborserò di libri.”

Come fa un bambino a credere alle proprie parole? Facile: non sono ancora sue. Vengono da un’altra parte della vita e si affacciano con un anticipo improvviso. I bambini trafficano in profezie con se stessi e non tremano quando sono atroci.

“Te li regalerò io, costringerò la vita a stare dentro i libri, prima la mia, di forza, poi le altre per invito.”

Metto mie frasi dentro virgolette, ma non le ho dette. Come il pesce preso all’amo che si sgancia proprio sotto la barca e torna giù, così è la profezia, la vedi, senti il peso sulla mano, ma non la tiri a bordo, nell’asciutto. Non la devi costringere alla voce, la devi lasciare al suo ritorno, da dove è venuta, dall’oltre dei giorni e degli anni. Solo così si compie. Se la pronunci, la soffochi. Perciò dei libri non dissi: te li regalerò io.

È accaduto, perché così doveva. Nessun’altra scelta né variante, ma un ordine venuto dal futuro di un bambino eseguiva semplicemente il suo mandato. Non un figlio, ma un libro gli ho messo in grembo in tempo per vederglielo aprire, annusarlo in mezzo, sfiorare il liscio della copertina, informarsi sul prezzo: “Il libro di mio figlio”. Era cieco. Glielo lesse mamma.

Sono affezionato al primo pubblicato perché lui l’ha avuto. Sulla copertina c’era una stanza con tre di noi dentro, molti anni fa, e lui c’era perché stava dietro una macchina fotografica Ferrania e illuminava noi. Questo è l’innesco della mia vocazione, una stanza di carta, un padre che l’arreda e che la sfoglia. I libri non raddoppiano lo spessore dei muri, invece l’annullano. Attraverso le pagine si vede fuori.

Secondo uno scrittore francese, leggere letteratura è vita risparmiata, puoi fare a meno di viverla. Per me è stata vita avvisata, da riconoscere prima ancora di conoscerla, come avviene in amore, quando la novità della figura amata sorprende perché impressa già da tempo. I libri erano vita che mi avvisava: come comportarmi al posto di Vronskij, Myškin, Gulliver, Ronzinante, Tom Sawyer, Billy Budd. Vita d’altri, creduta e perciò posseduta, mi addestrava a reagire, a rasentare altezze e bassezze sconosciute.

Se leggere è un morbo, si contrae da altri e si trasmette, è infettivo, non difettivo. Difettivo è il mondo, a libro chiuso. Il recinto dei libri, piccolo come il cesto di una mongolfiera, era affacciato su tutto.

Così mi sono avviato a ficcare la vita nello stretto delle parole.

Hrabal ha inchiodato nel titolo di un libro la notizia che mi definisce: Una solitudine troppo rumorosa. Così è il cranio che mi ritrovo, preso d’infilata da sciami di storie che fanno l’alveare nel mio vuoto. Ho saputo da me che per scrivere bisogna stare sgomberi, sfrattati, come alloggi in cui arrivano le storie, a carovane zingare in cerca dello spazio di nessuno.