Nel cielo di una piccola città basca, alle 16.30 del 26 aprile 1937 si presentarono gli aerei tedeschi della legione Condor. Alle 19.45, poco più di tre ore dopo, era finito il primo atto di terrorismo della storia moderna, la distruzione di Guernica. Era lunedì, giorno di mercato, l’allarme fu dato da una campana cinque minuti prima dell’incursione. Morirono in duemila.
Chiamo terrorismo il bombardamento di una città. Terrorista è chi si pone come obiettivo militare la vita della popolazione civile.
Ho avuto nelle orecchie della mia infanzia napoletana di dopoguerra i racconti dei bombardamenti su Napoli, più di cento. Più di cento volte, a qualunque ora, i napoletani furono scaraventati in strada dalla sirena d’allarme. I racconti ascoltati avevano voci di donne. Gli uomini erano al fronte o in prigionia. Le donne, i vecchi, i bambini sopportarono le stragi che piovevano a casaccio.
I vecchi tacquero e i bambini dimenticarono. Restarono le donne a custodire da inesorabili il terrore. Le loro voci salivano su una nota acuta, scendevano in un sospiro, s’inceppavano sotto un ricordo atroce, trovavano lo scappamento di una risata per un episodio comico nella tarantola di una fuga. Risate all’improvviso: servivano a smaltire.
Un bambino in ascolto dietro una porta spalancava le orecchie e s’immedesimava col suo corpo grazie alla modulazione di frequenza delle voci: la polvere dei crolli ardeva in gola e agli occhi, il tanfo dei cadaveri incastrati sotto le macerie, il fumo degli incendi, il fischio di nave e di miniera della sirena di allarme, che s’impennava in alto e teneva sospesa la nota acuta dell’allarme aereo. Era l’annunciazione che spettava alle ragazze, donne della guerra.
Quando scappava dalle voci una risata di risarcimento, il bambino dietro la porta tremava di più, quel ridere faceva venire la pelle di pollo spennato.
Avevano patito il terrore di esplodere, di crollare insieme all’edificio, terrore dello spostamento d’aria di un’esplosione che aveva forza d’urto per uccidere più del crollo e del fuoco. Alzare gli occhi al cielo era terrore di vedere le sagome a croce dei bombardieri. Ne vennero anche senza l’avviso della sirena.
Sono stato a Belgrado nella primavera dei bombardamenti del ’99, arrivando di notte dall’Ungheria con un furgone. Mi assegnavo il compito di disertare dal mio paese che faceva decollare dalle sue piste i bombardamenti aerei. Il 1900 si chiudeva con il suono della sirena d’allarme. La sentii arrivare quella notte, la riconobbi, ascoltata dalle voci delle donne di Napoli. La tonalità, l’estensione, l’acuto: era la stessa. La sirena d’allarme di Belgrado in quella notte di aprile senza una luce accesa imitava le voci delle donne di Napoli, incise in alta fedeltà nei loro incubi. Se la raccontavano per ridurla a episodio. La voce umana è la sola terapia capace di farlo.
Guernica non aveva nessuna importanza militare, come non l’aveva Belgrado. La guerra moderna cerca lo sterminio dei civili. Picasso ha reso gigantesca una delle sue stragi. Napoli, Belgrado e le città sorelle di Guernica non hanno avuto dediche di illustri. Allora il loro lutto resta inciso nelle voci delle donne che hanno ripetuto la cantilena della sirena d’allarme.