Educazione ischitana

Nell’ottava delle elegie duinesi di Rilke ho trovato un verso inestirpabile, come quegli ami da pesca che entrano nella pelle e viaggiano nel corpo: E com’è sbigottito uno che deve volare e ha origine da un grembo.

Venivo da stanze chiuse, difese contro il chiasso e la fermentazione delle vie strette e in ombra. Venivo dai pochi metri di spazio a ostacoli e nello stesso giorno, un solo braccio di mare, mi trovavo sulle spiagge dell’isola, Ischia. Com’era sbigottito uno che veniva da un grembo di vicoli e all’improvviso aveva il mare aperto.

I gesti del nuoto sono i più simili al volo. Il mare dà alle braccia quello che l’aria offre alle ali. Appena arrivato a inizio estate ritornavo nudo; mi staccavo dalla terra che mi aveva trattenuto nove mesi nel guscio e nuotavo sbattendo i piedi remiganti e le braccia alate, posandomi sugli scogli, ripartendo con un tuffo.

L’isola era un campo sconfinato per un bambino, poi ragazzo, ingolfato di reclusioni domestiche. Le ammettevo tutte in città e ne aggiungevo di nuove: come quella di rinunciare ai coetanei e ai loro giochi. Inventavo divieti, scherzavo con le serrature, ammucchiavo limiti. L’isola metteva tutto all’aria, spalancava recinti.

Le prime giornate procuravano in fretta la muta annuale che tocca ai serpenti. Spellavo, cambiando pelle in poche notti. Ne affiorava una che voleva stare nuda, scalza, col sale marino addosso mischiato a quello del sudore secco. E sempre un resto di pesce sulle dita, odore dei vicoli dei pescatori dov’erano le nostre stanze e c’era un rigagnolo d’acqua salmastra e pesce sventrato.

Gli uomini della pesca andavano di notte ai loro posti al largo, ognuno aveva il suo fondale esatto, regolato da due, tre punti d’orizzonte. Al mattino squame, branchie, trippe stavano sulla spiaggia accanto a uomini addormentati all’ombra delle barche tirate in secco. Il maschile aveva quell’odore e lo assorbivo toccando alghe, sugheri, nasse. Allora niente sapone, schiuma ai capelli, ci pensava il mare, la sabbia bollente a sgrassare il corpo, tornato freddo e fradicio dal nuoto. S’ingiallivano le ciglia, sbiadivano in biondo i capelli, la pelle consisteva come la buccia delle carrube.

Libertà era ispessirsi, avere addosso una scorza che brulicava di peluzzi gialli. L’isola insegnava a essere bestia per sé, dava al corpo la forza di un confine. Era immensa, ancora oggi non la conosco tutta. La geografia dei libri di scuola mentiva facendola grande come un’unghia. Conteneva invece le vastità, le esplorazioni e le Oceanie. Non ho saputo desiderare Tropici da adulto, l’isola mi è bastata.

La ciambella di Tirreno che le girava intorno secondo i venti è stata l’Equatore. Ho perlustrato la costa a nuoto, a remi, sono salito sopra ogni scoglio. Una notte feci l’amore in acqua al largo, avevo gambe da nuoto per reggere anche lei e galleggiavamo a spinte. Una volta ho spremuto il seme da solo per pura felicità di solitudine, giù da uno scoglio salito fino in cima. Stanco di nuoto, irrigidito di freddo ero montato lassù dove c’erano spine, lucertole, sterco di gabbiani e la terra scottava. Misi la schiena sull’aspro del suolo e il calore mi prese tra il sole di sopra e il terreno riarso.

Il fiato si allargò profondo, il sesso s’inorgoglì di una sua gioia e il seme rotolò nella polvere alla cieca.

Ho toccato l’immenso in poco spazio, lo stremo del corpo e l’energia assorbita da un frutto crudo di mare. Ero una cosa di natura esposta alla stagione. Davo il nome dell’isola a questa libertà. Se non sono uno strato giallo della sua crosta screpolata, spaccata dalle viti che la trivellano, se non mi crescono cardi dagli occhi, se non sogno di notte come sogna uno scoglio al dondolo dei bradisismi, non potrò imparare.

Era suolo benedetto, le piante di pomodori bisognose di canne per reggere l’offerta pungevano il naso, tanta la furia del profumo, e la pelle sottile dei fichi si squagliava in bocca, lo zucchero sbocciava sotto i denti.

Le formiche viaggiavano sul corpo, le guardavo ma non le sentivo sulla pelle. Sentivo invece un centro in me, una mandorla chiusa, una vertebra madre che rispondeva all’isola.

Non era sesso e nemmeno cervello, ma un pezzo di spina dorsale che si muoveva a onde.

Mangiavo un gelato a morsi con le mani sporche di resina di pino per aver schiacciato pinoli sulla pietra tiepida del pomeriggio. Nella pineta c’era un sasso sbilenco e ardito che conteneva tutte le montagne che avrei scalato dopo. Nessuna è stata così solitaria come quel sasso che salivo a quattro zampe con le tasche piene di pinoli e una pietra per aprirli sulla cima. Da ragazzo raggiunsi l’Epomeo, culmine dell’isola. Da lì guardavo l’angolo giro del mondo.

Ischia aveva un anello lucente che la serrava al largo, in disparte dalla terra. Era prigioniera, ma questo si vedeva solo da lì. Non conoscevo altre libertà all’infuori di lei. Bisogna stabilire in tempo i propri confini e poi dimenticarli. I miei stavano nel colpo d’occhio di una giornata chiara di settembre dalla cima dell’isola.

Lontano dal suo raggio sono un forestiero. E l’ultima stagione intorno ai diciassette prima di staccarmi da tutto, una ragazza scrutava i miei nei al sole e ci vedeva le costellazioni.

Chiamava la mia pelle col nome di un cielo del Sud e una sera dopo molto mare la baciò dicendo più a se stessa che a me: “Come sono salate le tue stelle”.

E con i soldarelli stentati dei primi anni sessanta il babbo e suo fratello comprarono un precipizio a mare, un pezzo di canneto, sotto il salto di una roccia, a Carta Romana, davanti agli scogli di Sant’Anna: uno dei quali rientrava nel possesso. Poi zio ebbe i soldi per tirare su una casa, mio padre no e si fece rimborsare da lui quel primo azzardo di possidente di sassi e lucertole.

A Carta Romana si andava da ragazzi nei pomeriggi del nuoto con Massimo Vitelli a pestare onde nella baia tra il Castello Aragonese e la punta opposta. Nella scia delle sue bracciate piene di mare resistevo solo col gioco furibondo dei miei piedi a palmo di pinna. Battevo un nuoto di coda dietro la sua scia.

Quando Massimo affondò a vent’anni nel Tirreno scendendo in apnea in un abisso cupo come un pozzo, ho smesso di nuotare al largo, di navigare a braccia. Perduta la sua scia, ho cercato da solo altre linee di passaggio. Arranco su pareti di montagna dove comandano le dita sugli appigli e i piedi seguono docili a scarico di peso. Lì non ho bisogno dei suoi piedi guida.

Infine il mio principio d’isola fu San Montano, la perfetta insenatura che faceva del mare una laguna mentre fuori i maestrali arruffavano creste alle onde. Gli anni erano i cinquanta del secolo e i primi miei. Una mucca girava per le vie di ciottoli al mattino al laccio del contadino che spremeva latte in un secchio per i pochi clienti del villaggio. Inghiottivo il bianco da una tazza e profumava di basilico e pomodoro perché bevuto lì, tra le piante di un orto. Primo puro ricordo è la baia di San Montano raggiunta a piedi scalzi, scottati.

C’erano sbocchi d’acqua calda tra gli scogli ai bordi della spiaggia. C’erano gli americani. Venivano alla baia, marinai di qualche nave da guerra alla fonda nel Golfo di Napoli. Sbarcavano dai mezzi anfibi direttamente in spiaggia. Tentavano approccio con mia madre, con le poche donne in villeggiatura, avevano birre e fortuna. Un giorno un marinaio fu forse più insistente o insolente, mia madre reagì male e un giovane pescatore dell’isola intervenne per lei. Il marinaio lo sfidò. Si fece un cerchio d’uomini intorno e cominciò uno scontro di pugni. Ci eravamo allontanati. Si sentivano colpi e voci che aizzavano.

Quando il mucchio si sciolse, il pescatore aveva una faccia gonfia di ferite. Andò a lavarsela a mare, sciacquava il sangue, lo sperdeva alle onde come quello dei pesci che sventrava a riva.

Nel primo ricordo, mischio ancora il mare, l’emorragia e l’onore.

Ho cominciato a scrivere dell’isola con Rilke e posso chiudere con un altro poeta, Brodskij, secondo il quale le onde del Baltico arrivavano alla sua spiaggia a coppie, due per volta, dunque da lì gli vennero le rime.

Il Tirreno dell’isola mandava onde rabbiose di fermarsi. Scalzavano dal fondo alghe, meduse, stelle e monache di mare sbattendole contro scogli e case. Trascinavano indietro sabbia, barche, bambini. Ogni anno ne mancavano. Il Tirreno non faceva rime, solo versi liberi. Le onde portavano a secco le sillabe di funi, tronchi d’albero, sugheri, pietre pomici e reti stracciate.