Neanche lo guardava, il pescatore, il mare. Sistemava le cose in barca mentre andava, un occhio a prua per governare la barra del timone. Preparava le esche, spezzettava il totano pescato nella notte. Svuotava la sentina, in quello potevo aiutarlo, tenendomi in ginocchio per reggere l’equilibrio con una mano sul bordo e l’altra al secchio. Il diesel fragoroso non permetteva le parole, bastavano i gesti.
Anche quando smetteva, restavano quelli. Mi portava, figlio di villeggianti, perché stavo zitto, facevo e basta, più spesso ero invisibile. La barca era scoperta, senza cabina, ingombra di nasse e di reti. Riuscivo a scomparire lo stesso. Mi nascondeva il mare, il largo, la foschia che cancellava i bordi della costa. Il perimetro di pesca era lontano abbastanza per togliere le terre dalla vista. Il diesel sbatteva nelle orecchie, vibrava ogni centimetro di legno della barca.
Oggi so che era di faggio, albero di collina che smette dove iniziano gli abeti. Scendevano al mare tronchi lavorati che neanche l’avevano fiutata, la salsedine. Miracolo del legno è galleggiare.
Il pescatore era un mestiere vasto. S’intendeva di falegnameria e di motori, di ferro e di vernici. Non c’era radio a bordo, non c’era il salvagente e nessuno di loro sapeva nuotare. Mi vergognavo della mia capacità. In mezzo al mare, un figlio di villeggianti ancora moccioso sapeva stare a galla e loro no. Andavano per mare senza guardarlo, senza una mossa di intimità e affetto.
L’avrei imparato in fabbrica quel modo di stare in piedi. A svolgere un lavoro, tra macchinari docili e violenti che non perdonano una leggerezza. Il mare da quieto diventava agguato con una distrazione. Non era natura, per loro era officina.
Imparare era un inghiottire, buttavo giù tutto alla rinfusa, da digerire dopo. Se mi ferivo, facevo un nodo al nervo e mi tenevo chiuso in gola il soffio del dolore. Il sangue lo sciacquavo di nascosto, il pescatore guardava da un’altra parte, faceva di non avere visto. Aveva una cinquantina d’anni, mi sembrava vecchio, allora non distinguevo il tempo. Non distinguevo neanche gli alberi, che sono una buona unità di misura. Oggi alla sua età capisco i cerchi concentrici del tronco che segnano il tempo e ogni anno aggiungono un anello al diametro. Oggi so che la distanza tra gli anelli si assottiglia verso la fine.
Il diesel scatarrava fumo nero, il pescatore copriva le esche con un panno. Imparavo che i pesci sentono gli odori, non abboccano all’esca impregnata di nafta, di tabacco. La barca offre per sbaglio radice al verbo barcollare. La barca non barcolla, invece infila le onde con la prua, risale in alto come fa l’ago dopo che ha bucato la stoffa e poi riscende a fare il seguito della cucitura. La barca fa la mossa dell’ago, il filo è la sua scia, la barca non barcolla. Ci vuole mano morbida alla barra per infilare l’onda, accoglierla o aggirarla. Mi affidava la rotta per sistemare qualcosa, me la toglieva se sbagliavo l’onda e mandavo la chiglia a sbatterci sopra.
Era estate, toglievo la maglietta, restando in costume da bagno. Il pescatore portava la canottiera pure a mezzogiorno, i pantaloni arrotolati al ginocchio, un basco ben ficcato per non farselo scippare dal vento. Sul collo si vedeva il confine del sole, dove non aveva diritto. Era il contrario dei corpi da villeggiatura, il suo, tenuto sotto i panni, difeso come un territorio dall’aggressione di mare, vento e sole.
Da adulto, svolgendo mestieri manuali ho saputo che razza di carico aggiunge il sole sulla schiena di chi ci lavora sotto e quanto pesa sullo sforzo e la durata il suo passaggio da mattino a sera. Il sole è una zavorra sul corpo di un operaio curvo sopra la terra e il mare.
Allora non capivo la difesa del pescatore, la scambiavo per pudore. Era invece protezione contro l’usura del giorno lavorato sotto le più potenti forze di natura.
Oggi benedico il silenzio sulla barca, che rimandava a un’altra età le parole da dire.
Oggi il tempo è una pagina per scrivere di un pescatore dell’adolescenza. Attraverso il mio corpo lavorato posso risalire al suo. Rimastico la sua lezione muta, senza speranza e forza di poterla trasmettere come fece lui a me.