Un amico mi ha chiesto una pagina che rispondesse alla parola “abbracci”.
“Che ti salta in mente,” gli ho scritto, “abbracci? Ti pare epoca di abbracci, questa?” Gli ho risposto con un verso preso dall’elenco di verbi all’infinito, scritti da Kohèlet/Ecclesiaste all’inizio del terzo capitolo: “Punto per abbracciare e punto per allontanarsi dall’abbracciare”.
L’altra metà di questo verso dice: “Punto per gettare pietre e punto per ammassare pietre”.
In quei giorni facevo proprio quello: estraevo da un campo molte pietre per poterlo lavorare. Raschiavo dalla terra ogni ostacolo e ammassavo in un angolo. Gli ho scritto che accumulavo pietre e non abbracci.
Però mi contagiava il quadro che lui aveva scelto a immagine della sua ricerca: di Egon Schiele, un pittore della Vienna di fine Asburgo, che muore proprio insieme a quella dinastia regnante, nel 1918. Era un abbraccio, una torsione di due in una sola figura, un avvitamento verso il suolo. “Vedo l’albero degli abbracci, un olivo di Puglia accartocciato per resistere al vento. I due corpi si avvinghiano in un nodo perché nessuno possa scioglierlo,” scrivevo ancora nella lettera.
Schiele dipingeva in una capitale in guerra, gli uomini marcivano al fronte, le donne stentavano a casa: contro quella separazione dei corpi, degli affetti, Schiele fabbricava la sua statua degli abbracci.
“Quello era il tempo, non il nostro, per stringersi forte e piantarsi in terra. Noi siamo di carta, uno spiffero ci scioglie e ci disperde.”
Poi una sera è venuta una donna sconosciuta da lontano e in una mia stanza fredda mi ha chiesto per un momento di scaldare le sue mani. Ho districato le mie incrociate in grembo, indolenzite, piene di sonno, e ho messo le sue fredde tra le mie un poco più larghe, un poco più tiepide.
Poi, da quel pacchetto chiuso di due mani tra due, si sono sollevati i primi abbracci. Si alza così anche la nebbia dal chiuso dei campi. Dalle mani si scioglieva il ruvido di pietre trasportate.
La donna era un pezzo di sera di fine dicembre, entrata dalla porta insieme al vento. Nel primo abbraccio odorai un cotto di castagne nei capelli e la sua lana era fina come sfiorare cenere. Aveva freddo e allegria, poi ha usato il mio spazzolino da denti, perché non aveva premeditato il suo. Mi ha riso tra le braccia, il sussulto più bello che un uomo possa contenere.
L’ho accompagnata al treno e non ci siamo detti niente di Natale, Capodanno, neanche per auguri. Sul marciapiede sforzato dal vento restavano fermi piantati in terra solo quelli che si abbracciavano.
Ora sto con le mani intrecciate, appena vuote. Stanno vuote in maniera diversa, sono state un nido che ha ospitato uova. Sono vuote perché sono state colmate fino all’orlo.