Una valle di nome Giulia

Arrivato a Roma, ragazzo spaesato, staccato da casa, dimenticai l’acqua salata, il mare. Abitai la mia prima città di fiume, la cui corrente permette allo straniero di orientarsi. Venivo da un Sud scarso di acque, il fiume invece sprecava nel mare la sua quantità e le fontane di Roma esibivano la loro abbondanza.

Dell’antica storia imparata a scuola mi piaceva la perizia idraulica della civiltà romana, la sapienza dell’acquedotto sulle arcate. Da spaesato venuto da un Sud di cisterne vuote, amai la ricchezza d’acqua della città nuova. Poi l’amai per i parchi, i giardini, la tenuta del colore verde che da noi sbiadiva in fretta, seccava giallo per più di mezzo anno. Mi spalancavo gli occhi dentro Villa Borghese, distesa per viali e vallette, i pini marittimi altissimi, un lago, il giardino zoologico.

Sul bordo di un avvallamento, detto Valle Giulia, gli studenti di Roma avevano inaugurato l’anno politico 1968, mese di marzo, con buon anticipo sul celebre Maggio francese. Nella vallata Giulia sotto l’elegante facoltà di Architettura, gli studenti non erano scappati davanti alle cariche della polizia. Nel campo aperto di scalinate e pendii l’inverno finiva in mezzo ai fischi delle sirene, i sassi in volo, gli arresti, il fumo, il corpo a corpo tra i singoli e le truppe.

Non ero ancora lì, quel marzo, ero a smaltire nella città di origine l’ultimo anno di liceo. Ci sarei arrivato poco dopo. Nessuno mi aspettava, ma avevo la certezza di essere aspettato dal seguito di quella storia cominciata con gli scontri di marzo a Valle Giulia. Quella storia mi arruolò subito tra i suoi.

A Valle Giulia ho visto la più buffa delle mosse politiche di una generazione nuova. La facoltà di Architettura si alzava su una spalla della valle. Tra gli alberi, in faccia a Villa Borghese, aveva l’aria di un sanatorio di lusso, i bidelli eleganti come infermieri in camice.

Un mattino arrivò su quei prati un gregge, un centinaio di pecore, guidate dal pastore e dal suo cane. Salirono il pendio, fino allo spiazzo davanti all’ingresso della facoltà, e insieme agli studenti che scortavano il gregge entrarono nel tempio dell’Architettura, da scrivere con la maiuscola. Il trambusto, i bidelli, i belati e le rime baciate degli slogan fermarono le lezioni e produssero una delle più belle assemblee della storia politica d’Italia. Che mossa era? La fine della docilità, da allora in poi la classe studentesca smetteva la sua condizione di branco di pecore. Se i docenti volevano, c’erano a disposizione solo quelle.