La scoperta del nome

Nelle scritture sacre i nomi dei figli provengono dalle madri. Da loro scaturisce anche l’appartenenza: sono ebrei solo i nati da madre ebrea. Eva inaugura i nomi di Caino e Abele.

Adamo è meno di un nome, è il resto della parola “adamà”, suolo: è Adàm per caduta della lettera/vocale tipica del femminile ebraico. Il maschile è genere difettivo di femminile.

I nomi nella scrittura sacra sono sigle, previsioni, auguri. Per la stragrande maggioranza dei casi sono coniati nuovi, nascita per nascita: non ci sono due Mosè, due Abramo, due Davide. Il nome sta all’ombra della vita, non lo prendevano dai morti, anche se grandi.

Da noi il sistema onomastico si serve di precedenti familiari, oppure del calendario. Di recente si ispira ai giornali, attori, attrici e varie celebrità.

Porto un nome impiantato nella mia famiglia napoletana da una nonna americana, sbarcata a Napoli al molo Beverello dal porto di New York all’inizio del secolo scorso dopo un viaggio cominciato a Birmingham, Alabama.

Harry era il nome di suo padre, lo girò a suo figlio, mio zio. Nell’infanzia l’acca e l’ipsilon di quell’eredità mi ingombravano assai. Il nome straniero mi denunciava continuamente, senza che provassi attaccamento. Ho a lungo portato con fatica un nome altrui. Scrivo storie con un sé narrante privo di quel dettaglio anagrafico, alleggerito dall’identità.

Leggo una frase di Kierkegaard: “Non mi viene mai in mente, in verità, di tracciare il nome sul vetro di una finestra né di inciderlo sul tavolo d’una bettola o su un albero o una panchina del parco di Frederiksberg”.

La ricopio volentieri, neanche a me è venuta voglia di sbavare firme, iniziali, tracce di un passaggio cifrato. Io non sono il mio nome, sono uno che lo porta, che si chiama così per desiderio e comodità altrui.

Un giorno trovai un biglietto indirizzato a me, appeso alla mia porta: per Erri.

Per la prima volta vidi il mio nome scritto in quel modo, come si pronuncia.

Fu un battesimo, il secondo, a secco stavolta. Era quello il mio nome, mi sarei servito di quel formato. Quel nome, Erri, mi staccava da quello di prima. Declinava un’altra generalità, per tempi sbrigativi, un mezzo soprannome di battaglia. Allora molti di noi erano conosciuti con nomignoli vari e ancora oggi non conosco le generalità di molti con cui ho condiviso molto. Era una buona usanza, oltre che il contrassegno di appartenenza a una comunità che pretendeva di riscrivere il vocabolario dando a persone e cose un altro nome, per volontà di trasformazione.

Ogni nuova persona ammessa in un monastero depone il nome precedente sulla soglia per assumerne un altro. Io ho trovato il mio in un’età di semplificazioni. Non è la mia bandiera, non la mia copertina, ma l’ombra che mi sta appiccicata addosso da quando ho esposto la mia vita all’attrito del 1900.