Chi porta chi?

Il primo si chiamava I tre moschettieri, non letto, invece ascoltato dalla voce di mamma durante le febbri della scarlattina. Tre o quattro moschettieri si battevano dentro di me contro l’ingiustizia, che coincideva con la malattia.

È evidente da allora che i libri fanno mescola con la vita, firmano gemellaggi d’occasione. Si versano nell’imbuto degli occhi e si disperdono nell’ambiente di ognuno. Alla fine di ogni lettura il lettore ha impestato di sé lo scrittore e la scrittura letta. Thomas Mann e la sua Montagna incantata avranno per me la poca luce e l’odore di freddo dell’autobus di Torino che mi portava in fabbrica e poi indietro ott’ore dopo.

Il lettore trascina autore e storia nel suo maltempo o in villeggiatura, lo fa sedere accanto, e mentre legge, anche rimpasta.

Ricevere da un libro è azione attiva quanto quella di scriverlo.

Da lettore so che spetta a me portare a finitura quello che sto leggendo, combinandolo con la mia esistenza. Il libro per me non è un’opera compiuta, ma un semilavorato. Per finirlo ci vuole il dopolavoro di un lettore. Il rapporto tra di loro risponde alla domanda: chi porta chi? La risposta dev’essere che il libro porta il lettore. Nell’autobus di ritorno, tra uomini in piedi dopo ott’ore in piedi, il libro doveva farmi dimenticare il peso del corpo e del turno lavorato.

Sorreggeva anche la mano che lo teneva aperto tra le scosse del viaggio. Benedetto tu, libro, che porti le mie ossa al capolinea. Per buona sorte scendo all’ultima fermata, una intermedia l’avrei saltata.

Ma se il libro si azzarda a chiedermi di portarlo, di aggiungere i suoi miseri grammi ai quintali del giorno, allora vattene alla malora, libro, non sono il tuo facchino. Così è stato e rimane lo scambio disuguale tra la materia scritta e il suo lettore.

Ho visto un mio libro tra le mani di una donna. Era seduta in un vagone della metropolitana, le sue dita stringevano le pagine per tenerle ferme, le voltavano delicatamente.

Ho saputo che i libri hanno una sorte migliore di quella che spetta a chi li scrive. Eccoli tenuti in braccio, portati in viaggio, su un’isola del Sud o in una tenda in montagna, fissati con intensità da un paio di occhi che farebbero subito abbassare i miei. I libri se la passano meglio di chi li fa.

Benedico la sorte di scrivere racconti e non cronache per giornali, perché a fianco della donna c’era un uomo con un quotidiano. Lo girava a colpi bruschi, lo leggeva scontento, poi l’ha ripiegato e l’ha ficcato in tasca. Prima di sera l’avrà spedito in un cestino, al macero.

Fortuna invece le mie pagine in braccio alla donna seduta. Ho avuto voglia di scriverne subito una per aggiungerla in fondo al suo libro.

Non sono più mie le parole che ho scritto, sono diventate sue. Le ha volute, pescando proprio quelle nel gran bazar dei libri. Le ha pagate con soldi tolti da altre spese, per esempio facendo a meno di una bottiglia di vino, di un cinema, di un concerto. Hanno per lei il valore aggiunto di rimpiazzare cose più piacevoli di un libro. E ora stanno là: sopra le sue ginocchia, sfogliate con un tocco di carezza, coi capelli che scendono a sipario.

Prese e tenute così, quelle pagine sono più sue adesso di quanto siano state mie prima.