A piedi

È bello entrare a piedi in una città sconosciuta, andare con la misura dei passi tra gli abitanti, sotto le loro case. Sturare il naso per fiutare il luogo, intendere le voci di una lingua straniera, bere da una fontana l’acqua che è diversa in ogni posto della terra. Sulla pelle si posa la miscela di vapori, cotture, sudori, panni stesi.

È giusto entrare a piedi in una città sconosciuta. Non è bello farlo passando per un tunnel, scavato per non farsi tirare addosso dall’artiglieria. Lo ricordo lungo circa un chilometro, ci si stava curvi, in fila indiana a lume di una lampada frontale. Si entrava a Sarajevo come in una miniera, negli anni del suo assedio, il più lungo del 1900.

I volontari venuti dall’Italia, dopo le curve del Monte Igman, caricavano in spalla i sacchi di provviste e medicine. Facevamo i contrabbandieri di pace. Dove la guerra è legge, le mosse di pace sono clandestine, da banditi. È bello uscire all’aperto da una galleria, una notte d’inverno, alzare gli occhi e trovare illuminato l’arcipelago delle stelle. Non era bello spuntare dentro Sarajevo, buia per il taglio della corrente elettrica.

Le stelle erano le stesse, ma sbucarci sotto era ficcarsi in una trappola. Izet Sarajli|, poeta della città, diceva: “Benvenuti nel più grande carcere di Europa”. Le stelle sopra Sarajevo erano cani da guardia.

Oggi so che il viaggio è una parola nobile e si riferisce solo a chi lo fa a piedi. I nostri biglietti andata/ritorno verso località più o meno remote sono da chiamarsi spostamenti. Viaggio è cammino senza biglietteria e data di ritorno. Viaggiano i migratori che traversano a piedi Africa e Asia, per togliersi il bagaglio dalle spalle in faccia al Mediterraneo.

Viaggio era la salita annuale verso Gerusalemme per la pasqua ebraica, pronunciando lungo il pendio i quindici salmi detti delle salite.

Gesù/Iéshu si spostava a piedi. Salì sopra la nobile cavalcatura dell’asina solo per consegnarsi all’ultima stazione. La sua solitudine dentro Gerusalemme gremita per la pasqua fu completa: nessuno dei suoi si denunciò per stargli accanto. Nessuno fece il passo avanti che interrompe il silenzio dei ranghi. Nel minimo cammino formato da quel singolo passo in avanti stava lo sbaraglio di essergli fedele. Il passo mancato in avanti di uno di loro fu il passo indietro di tutti.

Il passo di Giuda fu invece di lato, staccandosi dalla lealtà.

Nelle visite a Ovidio Bompressi in prigione ricordo i suoi piedi che perlustravano all’infinito i centimetri del corridoio, del cortile. Gli occhi stavano bassi per segnare loro una via d’uscita. Nei piedi che non possono portare via, si concentra la tristezza di un corpo imprigionato.

“Vai vattene” sono le prime parole che irrompono nell’ascolto di Abramo da parte della divinità. “Vai vattene”, l’ordine è di estirparsi e diventare nomade sotto la traccia indicata dal cielo. I piedi di Abramo obbedirono subito: “Vaièlekh”, e andò.

Come fu che una divinità nomade, che aveva per santuario una tenda e viaggiava beduina per i deserti, finì rinchiusa dentro chiese, moschee, sinagoghe, dentro i recinti delle religioni? Dove smette il cammino, la sua santa deriva, cominciano le mura. Non è servita la dura lezione di due Templi distrutti a Gerusalemme. I monoteismi si sono dati all’edilizia e alla fortificazione.

Il monoteismo di Abramo il vagabondo si praticava all’aria aperta, si spostava su sandali e si accovacciava di sera intorno a un fuoco. Nell’ostilità verso gli zingari c’è anche il sospetto che essi conoscano le vie del cielo meglio dei cittadini. Nessuno zingaro è diventato astronomo, ma ognuno dei loro bambini chiama per nome le stelle. Da loro proviene la musica, creata nei bivacchi e poi racchiusa dentro gli spartiti e nelle sale da concerto.

La notte d’aprile del ’99, entrando a Belgrado buia sotto gli attacchi della Nato, scesi dal furgone che veniva dall’Ungheria e sentii la sirena di allarme aereo che urlava contro il branco di lupi in arrivo dall’alto dei cieli. Mentre la contraerea iniziava a frugare la notte coi proiettili traccianti, m’incamminai verso il ponte sulla Sava. Passeggiai su e giù tra le due rive nella città deserta. Nessuna macchina, nessun passante incrociò lo straniero venuto per stare esattamente lì, a spasso di notte in una città scalzata dalle fondamenta. Il suolo tremava e l’acqua scorreva indifferente come una preghiera verso il grandioso innesto nel Danubio.

La vita di ognuno può starsene descritta dentro qualche cammino fatto a piedi.