Una confusione eccellente

Passammo dicembre dormendo sul pavimento degli uffici occupati.

A settembre avevamo ricevuto la busta paga vuota e la promessa di pareggio a ottobre. A fine ottobre arrivò la burla degli assegni a vuoto. Assegni di legno, dicono i francesi, perché eravamo in Francia. Occupammo gli uffici dell’impresa a metà novembre, notte e giorno, quaranta operai di cantiere. Dormimmo coi cappotti addosso, io pure con le scarpe. Da fuori avevano tagliato luce e riscaldamento.

A Nord fa buio prima che da noi, e noi eravamo del Sud Africa, Portogallo, Turchia, qualche jugoslavo, facce assortite e forze da lavoro. Parlavamo tra noi un incrocio di francese, il contrario di un vicolo di Babele: resistevamo contro la dispersione.

Poi ognuno sfogava il proprio spaesamento parlando con i suoi nella sua lingua. Ero senza compatriota, in Francia non c’erano più muratori italiani, tutti già saliti di mestiere. Nell’autunno del 1982 ero l’ultimo aggiunto al tempo dei viaggi senza biglietto di ritorno. Me ne stavo zitto coi pensieri chiusi tra le due orecchie.

Ci davamo il cambio, insieme a cinque altri ci restavo la notte. Senza quattrini avevamo lasciato le stanze in affitto, per dormire negli uffici occupati. Mi lavavo a pezzi nei bagni della stazione Saint-Lazare. Durante il giorno mi aggiravo per Parigi.

Nei mesi precedenti avevo lavorato nei cantieri della periferia, imparavo un po’ di città la domenica. Entravo al museo del Louvre, gratis in certi giorni. Stavo nei trent’anni a guadagnare le prime monete straniere, faceva un bel suono in tasca la parola denaro: argent. Effetti secondari di quello: mani di legno e schiena di tamburo. In Italia intanto si disfacevano in tradimenti e agguati le migliaia dell’ultima generazione rivoluzionaria del 1900, la mia.

Dicembre 1982: giravo a piedi la città straniera, finiti gli ultimi spiccioli del salario. Unico soccorso: a mezzogiorno una mensa sindacale per operai sul lastrico. Un pasto tra uomini che tenevano gli occhi giù nel piatto, un pasto al giorno, la sera niente e niente la domenica. A me bastava, non a quelli che avevano famiglia, affitto, conti da pagare. La sera rientravano a casa a mani vuote. Nello stanzone della mensa, gli uomini in fila e quelli già seduti bisbigliavano le lingue del mondo.

Il capo della più grande rivoluzione del 1900 aveva detto: “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”. In quella mensa la confusione non era grande abbastanza e la situazione non aveva niente di eccellente. Dissimulavano l’appetito mangiando piano, facevano durare il cibo in bocca. Inghiottivano il gratis senza gratitudine.

Da quella tavola non si poteva portare via niente, infilavo un mezzo sfilatino di pane nel cappotto, non di più. Chi aveva famiglia era costretto a domandare a credito nelle botteghe. Se ne vergognavano, peggio che rubare. Molti furti di prima necessità provengono da una vergogna. I ladri di pane non sanno chiedere.

Nelle stanze occupate le collere, i lamenti, i litigi, le canzoni tornavano alle lingue madri. Ai primi strilli e spinte ci si metteva in mezzo a separare. Faceva male vedere il sangue nostro buttato via per niente. A stare stretti, gli uomini fanno attrito, hanno istinto di aiuto ma pure impulso di tagliarsi la gola. Tra uomini cresciuti nel sudore non c’è bisogno di esibire forza. Si sa che c’è e va lasciata in pace. Tra uomini alle strette non c’è bisogno di dimostrare niente.

A Parigi ci torno da scrittore, invitato a parlare in librerie, alla radio. Ricevo sorrisi e aperitivi. In Francia lo scrittore ha il prestigio del prestigiatore.

Ricalco strade battute allora a mosca cieca, per camminare e basta, per riscaldamento. Non torno nella via dove ho passato insieme agli altri cinque le notti di novembre e di dicembre dell’82 dormendo sotto un tavolo, che mi sembrava facesse meno freddo.

Noi del turno di notte arrivavamo alle sei di sera, dopo i saluti e le consegne ci riunivamo in una sola stanza intorno a una candela accesa. Chi non lo sa, può scherzare sopra la caloria di una candela. Noi allungavamo le mani e ce le scaldavamo, proprio così, il moccolo era fiamma sufficiente. Uno ci reggeva sopra un pentolino e riscaldava l’acqua per il tè. Dicevo buonanotte in lingua mia, rispondevano nelle loro. Le ultime parole del giorno erano roba nostra.

Mi stendevo per primo, il berretto sopra palpebre e orecchie, mi addormentavo con pochi respiri dopo il giorno passato a camminare. Poi gli altri si sdraiavano, ognuno per un verso, non vicino né parallelo a un altro. L’ultimo spegneva la candela sopra sei fagotti rannicchiati.

Dicembre in liturgia cristiana è dell’avvento, il tempo di un’attesa stabilita. Anche noi aspettavamo, senza sapere cosa. Insisto con il noi, ma non era un plurale consistente, non trattengo i loro nomi. Uno poteva chiamarsi Kemal, un altro Ugur, ma è facile che tiri a indovinare col ricordo. Uno aveva occhi da neve su una faccia scura, un altro affilava all’infinito un rasoio e si offriva barbiere, due giocavano a scacchi, tutti bevevano tè, io no, tutti erano musulmani, io pieno di no.

Cambiavano di stanza a un’ora della sera, piegavano la fronte e poi la schiena verso oriente. Sapevano dov’era, in tasca portavano una bussola per quando la preghiera li sorprendeva in mezzo alla città. In testa portavano a memoria un libro intero.

Ascoltavo attutita la loro cantilena diretta contro un muro. Chi poteva stare là dietro a meritarsi la loro fiducia di essere ascoltati? Più tardi ho capito che facevano mosse tutte interiori, che la divinità non stava dietro il muro, invece abitava in corpo a loro. Ripiegati a S, inginocchiati scalzi non avevano freddo, pensieri, fame. Seguivano la spinta della voce, le mani si posavano sul bordo del tappeto a benedire un nome. Somigliavano a uomini che insegnavano a un bambino.

Una volta il più giovane mi chiese che ci facevo, bianco in mezzo a loro. Un altro gli disse di non chiedere, e a me di non rispondere.

Non c’era bisogno, non dicevo da che tagliola uscivo. Poi un altro mi chiese se pregavo. Non pregavo. Disse: “Si sta in malinconia senza preghiera”. Ancora mi rimane sottocutaneo il dubbio di quell’uomo. Credo che gli sorrisi, perché sorrise lui. Poi domandò di Natale. “È l’atto di nascita di un bambino disgraziato, che viene al mondo carico di guai. Sua madre lo ha concepito fuori del matrimonio, poi è dovuta partire sulle piste di fango dell’inverno e partorire in una baracca di periferia. Il suo primo miracolo è stato di nascere comunque.”

Ascoltavano da intenditori di storie, sapevano di che notti parlavo. “Certo non poteva nascere a Parigi a rue de Rivoli,” disse uno.

“Neanche a Napoli Mergellina,” aggiunsi.

“Perché no?”

“Non l’avrebbero preso sul serio, ci voleva una notte delle vostre, di Africa, di Asia, dove il cielo ha il suo peso sulla terra.”

“Al mio paese il cielo è un campo di battaglia di aquiloni.”

Chiedevano ancora notizie di Natale. “Si sta con la famiglia, si fabbrica un presepe, s’imbacucca un albero di abete, si scambiano regali.” Con loro facevo la millesima parte del missionario che racconta la sua notizia sacra. Però a me non ridevano in faccia, come succede col sacro degli altri che all’inizio ha sempre un lato comico. E non ci sta neanche male una risata in faccia, indurisce la pelle meglio degli schiaffi.

Non ridevano: la notte intorno, lo stomaco digiuno, le voci basse sopra la candela ci tenevano insieme. Restavo lì mentre la mia folla di rivoluzionari si accampava nelle sezioni speciali del circuito penale. Isole, isolamenti, rivolte, repressioni, pratiche di tortura a estorcere altri nomi, il sentimento di essere finiti in fondo al sacco delle rivoluzioni del 1900. Restavo lì, non c’era un posto di ritorno. Mi faceva sorridere un verso di Rilke, pescato chissà dove: Chi non ha casa adesso, non l’avrà. Chi è solo, a lungo solo dovrà stare.

Fuori dal nostro buio si infittivano le luci e le cornici del Natale. Pure il panettiere agghindava il banco dove si compra quello quotidiano che non deve mancare a nessuno. Camminavo tutta la giornata, entravo nei grandi magazzini a riscaldarmi, senza tentazione di allungare le mani, chiuse in tasca. Non ho saputo chiedere né prendere. Le mani mi servivano a buscare un salario e anche alla scrittura sui quaderni a righe.

Camminai svelto e dritto verso nessun posto anche la giornata del 24. Dopo la mensa di mezzogiorno di nuovo per le strade bagnate, meno insaccate di passanti e ruote. La città si ritirava in casa. Mi metteva allegria lo svuotamento, i miei passi veloci ottenevano un poco di deserto.

Arrivai presto agli uffici spenti, avevo la chiave, entrai nella stanza comune. Si accese una candela, poi due, tre.

I cinque erano lì seduti dietro il chiaro di fiammelle. Davanti, tra me e loro una tavola apparecchiata, piatti di carta e roba impacchettata. “Buonno Natal,” dissero insieme, buonnonatal chissà come imparato. “Che avete combinato?”

Mi abbracciarono con pudore uno dopo l’altro. Come si erano procurati il cibo ancora tiepido? Cose da non chiedere, solo da ringraziare, con i sorrisi, non con i merci. “Voi siete i cinque di una mano sola.” I denti dei loro sorrisi spalancati scintillavano al gran lume delle tre candele. Uno di loro benedisse il cibo, mezzo pollo per uno, aspettarono che fossi io a cominciare. Lo masticammo a respiri profondi, usando le mani, le dita, le unghie.

Mi sono battuto in vita mia per qualche uguaglianza, per qualche libertà, ma la fraternità non si può conquistare. È un dono, spunta all’improvviso, può durare anche mezzo pollo. Però esiste, c’è stata, l’ho assaggiata. Cinque uomini dell’Islam avevano apparecchiato la cena di Natale per uno senza credo. Stavolta la confusione sotto il cielo era abbastanza grande e dunque la situazione era eccellente.