L’attrito della paura

Sulle piazze abbondano statue e monumenti dedicati a singoli testimoni di coraggio. Sono ingombranti, molti di loro sarebbero scesi volentieri dal piedistallo per vivere ancora un poco.

Di quei manufatti preferisco quello al soldato ignoto, che si trovò a fronteggiare l’osceno dovere di una guerra e chinò il capo per obbedienza. Il coraggio appartiene agli anonimi. Non è dell’alpinista che affronta la sua parete verticale. Lassù lui compie l’esercizio festivo di una volontaria esposizione al rischio.

Conosco invece il coraggio obbligatorio e quotidiano di chi va al lavoro in condizioni d’incerta sicurezza, minacciato dai più vari agguati, ridotti dalla cronaca a incidenti, dove si conta la decimazione della vita operaia. Dal fondo di miniere alle impalcature dei cantieri, dalle cave di pietra alle lavorazioni di sostanze tossiche, alle fonderie, alle presse: minuti, ore, giornate, settimane, mesi, anni a sporgersi sul rischio per necessità.

Ho conosciuto lì l’odore del coraggio. Non è da raccogliere in essenze e farne profumo. Il coraggio puzza di sudore, di sputo, di sangue, di bestemmia e di supplica, di fogna e di furore. La paura incallita affiora in superficie e chiede aiuto, la paura maledetta e sacrosanta rende quelle ore di lavoro un quotidiano sacrificio d’Isacco. Tutti i giorni feriali si sale al Monte Morià portando il peso del legname da usare per il sacrificio. E poi si espone la gola al coltello di qualche macchinario che ripete la sagoma di altare e di patibolo. La paura e il coraggio stanno stretti insieme sui nervi della faccia, lottando per tornare a casa, dopo il turno di Isacco.

Conosco la paura di avviarsi ogni giorno prima dell’alba, sbandando sul mezzo di trasporto che scarica alla base del turno, dove si scambia la paga con la giornata al fronte. L’ho conosciuta su di me e addosso agli altri. Stava negli occhi dell’operaio algerino infilato insieme a me in uno sterro profondo e puntellato male che minacciava di crollarci addosso e seppellirci vivi, mentre lo stavamo scavando con piccone e pala. Sudavamo il freddo dell’ansia, degli occhi sbarrati per sbirciare nel buio di quella fossa stretta.

Stava negli occhi alzati al cielo dell’operaio jugoslavo prima di obbedire al caposquadra che gli ordinava di tranciare con il piccone il cavo elettrico, assicurandogli che non portava corrente. E dopo lo sguardo al cielo e il colpo sferrato in terra, l’esplosione dell’alta tensione che lo scaraventava in aria e si mangiava il ferro del suo piccone.

Ho visto il coraggio e so che è imbottito di paura. So che va sottomessa, calpestata, a mascelle serrate, occhi stretti e cuore a martello nelle tempie. So che la paura fa diventare spietati contro se stessi. E in fine di giornata ci si lava la faccia e le mani dalla polvere e dall’attrito della paura, in uno spogliatoio si rientra nei panni lasciati al mattino e ci si sente abbracciati da loro. Si rientra nelle scarpe che portano a casa, si gioca in tasca con la chiave, si crolla di sonno sul sedile di un autobus.

Non è Stachanov l’eroe del lavoro, non chi intensifica il suo ritmo produttivo e così costringe gli altri a uniformarsi alla sua prestazione. Ma chi ha alzato la voce per difendere i propri compagni, rompendo la riga del silenzio. Chi ha preso la parola scavalcando l’abisso del primo passo avanti. E per questo è stato licenziato, schedato, rifiutato, mettendo a repentaglio il sostegno alla sua famiglia.

Ho ritrovato in un cassetto una mia tessera sindacale, iscritto alla CGT, anno 1982. Ero in Francia, operaio su cantieri, il proprietario della ditta non pagava i salari. Occupammo gli uffici, dormimmo sul pavimento, era dicembre, Natale, Capodanno, tagliata fornitura di luce e di riscaldamento. Quaranta operai di tre continenti condivisero tutto. La CGT ci assicurava un pasto al giorno, un tagliando per andare in una mensa, la domenica no perché era chiusa. Eravamo naufraghi in terraferma. Quella tessera sindacale ci dava la dignità di appartenere a una comunità che non lasciava andare i suoi membri alla malora. Quella comunità era stata creata da persone che avevano pagato cara, più di noi, la lotta per avere i diritti sul lavoro.

Quelle persone venute prima ci hanno spianato il cammino battendo come alpinisti un passaggio in neve alta, affrontando il rischio di venire travolti dalla valanga della reazione. Nessuno li costringeva a esporsi, solo il loro sentimento di giustizia che a volte fa di una persona una prua che apre il mare in due. Perché la giustizia non è un codice di leggi, ma un sentimento che scalda e salda le ragioni e il fiato, la dignità e la colonna vertebrale.

A questa temperatura corporea la paura e il coraggio sono componenti della stessa energia e producono la storia del progresso umano.