L’angelo dei cani

Ogni anno il caldo rischia di ammazzarmi. La città si svuota e noi cani finiamo per strada. Il primo anno fu il più duro. Non sapevo che fare, ero perduto. Giravo per le strade svuotate, niente da mangiare. La città si era allontanata lasciando solo il suo odore. Difficile digiunare senza allenamento. Già al secondo giorno mi piangevo addosso. Ho aspettato un’altra notte che qualcuno venisse, niente, la casa chiusa e io ero fuori. Ho resistito, ho pianto, ho dormito, poi ho guardato il cielo e ho visto scendere un angelo, ali bianche e larghe. Lo chiamo così ma non sono sicuro, lo avevo già visto altre volte da lontano, faccio poco caso al cielo. Pensai che era un angelo perché si era rivolto a me.

Quando una creatura scende dal cielo e vuole proprio te, dev’essere un angelo. Venne davanti e mi fece con l’ala una carezza bianca. Lo guardai e lui mi disse: “Seguimi”. La sua voce era quella dell’acqua piovana, “Seguimi”, dovette dirmelo ancora, perché non rispondo la prima volta. Penso di avere sognato un comando, un invito, perciò aspetto conferma. Mi drizzai sulle zampe, mi girava la testa. Faceva il caldo vulcanico di queste terre gialle meridionali, tufo e zolfo. L’angelo mi guidò fuori del territorio conosciuto. Sono pigro, senza curiosità per il gran mondo, amo le abitudini. Ma mi trovavo allo sbaraglio. L’angelo mi spalancò le strade, ovunque c’erano cani dispersi che si aggiravano in cerca di un’occasione. Mi trovò un posto e mi portò da mangiare, chiesi perché mi aiutava, rispose che era la sua missione. Aveva ali per questo, per attirare lo sguardo delle creature verso il cielo. Insegnava a rivolgersi in alto quando il basso ci abbandona.

“Tu hai guardato in su e per questo sono sceso. Se restavi a occhi bassi non potevo. Vengo solo da chi ha bisogno del cielo.”

Non sapevo di averne bisogno, però era vero che avevo guardato in su cercando una nuvola di pioggia. Gli uomini si riparano, noi no, per noi è la più bella carezza. Non avevo mangiato pesce prima di quell’estate, lo scoprii buonissimo, me lo portava ancora fresco di mare. Mi diceva che il mare aiuta quando la terra si chiude. Non avevo pensato al mare, al cielo, mi bastava la terra. Gli angeli aiutano a pensare. “Angelo,” dicevo, “tu conosci il mondo, lo sorvegli dall’aria, dimmi qual è la mia colpa.”

“Vedo le montagne ma non distinguo gli appigli, vedo la grandezza ma non riconosco i pezzetti. Sono in esilio quando scendo a terra, abito il cielo. Ho visto da lontano dei cani leccare la mano dell’accalappiacani e altri cani mordere quella del padrone. I torti e i meriti stanno sparsi sulla terra alla rinfusa. Su di te cade la colpa di un altro, a un altro va il merito di una tua opera buona. Solo alla fine tutto ritorna nel conto e si risponde di ogni cosa.”

“Anche dell’abbandono?” chiesi.

“Sì.”

I giorni passavano bollenti, nelle piazze gli sbandati si organizzavano in branchi. La necessità fa diventare pericolosi. La polizia intervenne arrestando molti di noi. Scappavo seguendo in terra l’ombra delle ali davanti alla mia corsa. La città era senza riparo, ma io stavo sotto quello dell’angelo.

Dovevamo difenderci da tutto, un istinto sbagliato ci faceva gridare in piena notte, denunciando i nostri nascondigli. Sotto la luna la città si trasformava in bosco. Dormivo tra gli scogli della diga foranea, il sale mi aveva tolto l’odore, mi svegliavo nella foschia dell’alba, a volte disperato, a volte felice. Vedevo altri cani morire, incapaci di difesa, di uscire dal campo segnato dalle urine. Il cerchio degli odori era spezzato ma non osavano togliersi di lì. Solo pochi giorni prima ero come loro. Si andavano a buttare contro le auto in corsa, si lasciavano sbranare dalla fame degli altri, si abbandonavano perché erano stati abbandonati. Il male di amore ha questa volontà. Nessuno di loro aveva un angelo? “I cani non guardano il cielo,” rispose.

Così fu quella prima estate. Dopo grandi piogge l’angelo mi invitò a tornare a casa. Lasciai il confine dove la terra smette e inizia la misericordia del mare. Tornai nel cerchio delle urine. Mi accolsero come niente fosse. Erano al loro posto, come se mai fossero scomparsi. Non li capisco gli uomini, mettono e smettono i loro posti all’improvviso. Da allora ogni estate si è ripetuta la loro partenza. Il caldo della terra mi spingeva a guardare il cielo, a incontrare l’angelo, abitare gli scogli. Ora sono invecchiato e non aspetto altre piogge. Stanotte il mio angelo mi ha chiesto una grazia. “Mangiami, fammi stare dentro di te. Poi sugli scogli aspettami, verranno i miei fratelli a portarti via.” Ha chiuso le ali sulla mia faccia, è morto. Ho obbedito con i miei denti alla sua volontà. Poi mi sono steso nella tana tra gli scogli e l’annuncio si è compiuto. Il cuore ha dato un colpo di frutto staccato e caduto. Dall’alto sono scesi a divorarmi i gabbiani, fratelli dell’angelo.