L’ultima parola

Apparteneva a un popolo e a una fede nata dalla parola della divinità, che si manifestò a voce diretta. E disse: questo è il suo verbo più frequente nell’Antico Testamento.

Il condannato a morte apparteneva a una tradizione per la quale: “Finché le parole sono nella tua bocca tu sei il loro signore. Quando sono uscite dalla tua bocca tu sei il loro servo”. Perché nessuna parola detta può essere ritirata.

Nessuna delle sue fu da lui ritrattata, né si difese dicendo di essere stato frainteso. Di fronte al tribunale non si contraddisse. Apparteneva a una fede che ammette il sacrificio della vita per offrire la testimonianza.

Fu condannato per quello che aveva detto.

Insieme a lui salirono sul patibolo due colpevoli di reati comuni, responsabili dunque di quello che avevano fatto.

I banditi sono abituati alle prigioni e mettono nel conto anche una fine da condanna a morte. Perciò non capiscono come si possa condividere la loro sorte senza tornaconto, solo per affermare un’idea, una fedeltà. L’uomo in mezzo a loro era un intruso.

La crocifissione era uno strumento di morte importato dai Romani. Non si era visto prima da quelle parti, poi se ne videro troppi. Così punivano le rivolte, i consoli romani. Ecco altri tre ebrei sottoposti alla lenta asfissia dei crocifissi. La posizione forzata delle braccia stese comprime il torace riducendo l’attività polmonare.

Il condannato per le sue parole fu messo in mezzo con la scritta di re dei Giudei. Coincideva con l’incubo di Erode: stava per nascere un bambino che gli avrebbe usurpato il trono. Perciò mandò a scannare tutti i neonati di Betlemme e dintorni. Ora sul patibolo moriva in ritardo il più precoce latitante della storia, con la scritta di re a motivazione di sentenza.

La folla che assisteva all’esecuzione era al corrente dei prodigi compiuti dal condannato. Si aspettava un colpo di teatro, un oplà miracoloso da spalancare di nuovo gli occhi. La folla li spalanca volentieri.

Molto più tardi, un altro ebreo diventò celebre eseguendo scioglimenti impossibili da posizioni critiche. Si chiamava Houdini e morì per incidente sul lavoro. Ma sul Golgota non ci fu nessun colpo di scena e la folla ne restò delusa.

Il condannato si dichiarava figlio di chissachì, perché suo padre non interveniva? Si dichiarava salvatore e non poteva salvare se stesso? Il testimone raramente capisce quello che sta avvenendo innanzi a lui.

Il prodigio stava nelle parole rivolte dal condannato al cielo: di perdonare gli uomini e le loro leggi. “Non sanno quello che fanno.” È così, non lo sanno mai.

Il condannato chiedeva assoluzione per i suoi carnefici, incapaci di intendere le loro stesse azioni. Non esiste formula più esatta a proposito dell’opera umana: ignara di se stessa.

E disse, a ricalco della divinità che aveva fondato la nuova fede del monoteismo. E disse: “Perdona”. Non disse: “Io perdono,” ma lo chiese per loro. Non contava il suo, serviva l’altro. Per chi ha fede di credere, il guasto commesso non si ripara in terra. Spetta alla divinità rimettere i debiti ai debitori. Il prodigio sta che non può farlo da sola, serve la voce e la richiesta dell’offeso. Per questo la parola è il più prezioso arnese degli oppressi.