Persi la vista da bambino. Del mondo non ricordavo niente, però la luce sì. Quando sento caldo sulle palpebre spente, so che in alto viaggia la stella rovente che noi chiamiamo “shèmesh”. Faccio il mendicante fuori la porta di Gerico, la mia città. Sono nato qui, vicino al fiume Giordano.
Stendo la mano della carità sul bordo della via che va a Gerusalemme.
Avevo già sentito parlare di lui, i ciechi hanno orecchie che afferrano voci, bisbigli e, se si sforzano, pure i pensieri. Da noi non era ancora venuto. Ho saputo che era in città, ma non sono andato da lui, ho aspettato invece il suo passaggio.
Quando ho sentito il fracasso di gente che l’accompagnava, mi sono messo a strillare più forte di loro: “Signore, figlio di Davide, abbi pietà”. Mi è venuto vicino e mi ha fatto ombra con il corpo, perché non ho sentito più il peso della luce sulle palpebre. Mi ha domandato, ho risposto, mi ha toccato gli occhi vuoti con la punta delle dita.
Nel corpo è arrivata la scarica di sassi di una fionda, sono saltato in piedi con il collo teso in alto e si è sciolto il buio degli occhi sotto uno scroscio di lacrime.
La prima cosa vista sono state le cicogne nel cielo di Gerico, che passano in aprile per andare a nord. Un cielo imbandito di cicogne: tra pochi giorni è Pesah, potrò vedere le azzime bianche sparse sulla tavola quando s’intona: “Ma nishtannà hallàila hazè” (quanto è diversa questa notte), dirò che quella notte sarà la pasqua di libertà per i miei occhi che hanno passato quarant’anni nel deserto e finalmente hanno attraversato il Giordano per abitare nella terra promessa.
Potrò chiedere in moglie una donna, avere figli, guardare in faccia la morte. Questi pensieri e cento ancora sono durati il tempo di abbassare la testa dal cielo. Lui si era già incamminato.
Intorno a me c’erano i compaesani che si congratulavano, uno mi abbracciava e si presentava: “Ecco, adesso mi vedi, sono il taldeitali”, un altro mi metteva la sua mano davanti alla faccia e mi chiedeva quante sono queste dita e io gliele stringevo al volo e le baciavo, e un altro mi diceva: “Bartimeo, hai finito di fare lo scroccone, adesso ti tocca lavorare”.
Ho abbracciato tutti, ho scosso la polvere dai panni e l’ho seguito.
Un cieco non può pedinare nessuno, perciò la mia gratitudine è stata di seguirlo, anche se era più giovane di me. Per la strada ho saputo che stava salendo a Gerusalemme. Bene, non ci sono mai stato, la vedrò e farò lì la pasqua, adempirò così per la prima volta al precetto del pellegrinaggio. C’erano altre comitive in cammino per la salita annuale. Sapendo di lui si aggregavano dietro. Diventammo numerosi, una strana folla in cui nessuno litigava per un piede pestato, per un urto all’asino carico, i bambini giocavano e non si lamentavano per la fatica.
Eravamo una folla lieta e commossa, i nostri passi non alzavano polvere. Se è vero che veniamo da lì e ci torneremo, in quel punto del viaggio eravamo noi stessi polvere vivente.
Arrivammo da est. La città di Davide alla luce del primo mattino aveva mura di colore carne. Il verde degli ulivi brulicava di passeri.
I colori mi spellavano gli occhi. Cantavamo i salmi delle salite, secondo l’uso dei pellegrinaggi.
Eravamo come quelli che sognano, recita il canto. Era la verità. Entravamo in Gerusalemme come l’esercito della gioia, incolonnato dietro di lui che montava un’asina bianca.
Incontro a noi si affollava la gente della città. I soldati di Roma, l’esercito di occupazione, non sapevano che fare di fronte alla nostra quantità chiassosa e disarmante. Spalancarono le porte, tolsero i posti di controllo. In quel momento non erano i nemici che ci avevano vinto e annesso al loro impero, ma solo degli intrusi. Vengono giorni in cui gli inermi, i deboli, gli sconfitti dimostrano una felicità che nessun vincitore ha conosciuto. I Romani si ritiravano confusi dalle vie gremite, lasciavano per un giorno la città santa ai suoi abitanti ebrei. Era una festa, ma pure una libertà ottenuta senza una sola spinta.
Al suo passaggio il popolo gridava: “Hoshiannà”, vieni a fare salvezza. Agitavano i rami tagliati dalle palme, dai sicomori e dagli ulivi, sicché la città stormiva come una foresta e un solo vento univa voci e foglie.
Lui andò dritto al Tempio, scese dall’asina, s’avviò tra i banchi dei venditori, li buttò in terra, liberò dalle gabbie le colombe che la gente compra per offrirle in sacrificio. Scombinò tutto il mercato che nei giorni di festa si accampa nei dintorni del Tempio e anche nel cortile interno. Fece uno sconquasso, i mercanti scappavano davanti a lui e alla nostra folla che cantava i salmi.
Al loro posto arrivavano gruppi di ciechi, di storpi, di sciancati e lui li risanava con la scarica delle sue dita di figlio di Davide, maestro della fionda. I risanati saltavano di gioia e di guarigione come grilli, i bambini facevano un chiasso scalmanato. Dev’essere così una rivoluzione.
I sacerdoti del Tempio uscivano dalle loro stanze e protestavano, lui li rimbeccava coi versi di un salmo. In quel momento non era solo il figlio di Davide, ma Davide in persona, il re tornato a casa sua. Se voleva, poteva scrollare Gerusalemme e proclamarsi sovrano senza spargere una stilla di sangue. I Romani avrebbero trattato con lui una resa onorevole. Non volle. Non volle vincere, non volle quel potere a portata di mano. Lui voleva incendiare le anime dell’intera specie umana, pure quelle delle generazioni future. Voleva fare di Gerusalemme il suo roveto ardente. Della sua vita non gl’importava. Uscì dalla città al tramonto, i Romani chiusero le porte con sollievo.
Mi venne da piangere seguendolo a Betania: l’ora della rivoluzione era trascorsa. Quella sera mi ubriacai insieme ai molti ciechi risanati da lui. Bevemmo all’aperto chiedendoci l’un l’altro i nomi delle stelle. Quando ci svegliammo, lui e i suoi erano tornati in città. Non li seguii, celebrai la pasqua con i guariti gridando a tutta forza il canto rituale: “daiènu” (ci basta). Venimmo a sapere ch’era stato preso e condannato a morte. Andammo fingendoci ciechi, coi bastoni in mano. Lo stavano portando su di un’altura spelacchiata detta Cranio. Al passaggio gli chiesi: “Vuoi la forza delle nostre braccia?”. Potevamo attaccare la scorta, liberarlo: che colpo per l’esercito di Roma, sbaragliato dai ciechi! Grondava sangue, gli spuntò uno sforzo di sorriso, tirò diritto.
Ahi uomo, hai aperto gli occhi a tanti di noi e nessuno potrà chiudere i tuoi quando li sbarrerai ciechi sopra il patibolo dei Romani. Lo appesero alla trave a braccia spalancate. Restai fino all’ultimo respiro. “Nella tua mano sto per affidare il mio vento,” gridò col verso del salmo di Davide. Fu di colpo notte in pieno giorno, un catrame di buio sopra Gerusalemme. Solo noi ciechi trovammo la via del ritorno senza inciampo.