A ricalco

Frequento le Dolomiti da bipede e da quadrupede.

Da bipede passeggio, da quadrupede scalo, aggiungendo le mani all’andatura. Ho messo le falangi su molti fianchi di quel calcare pallido alla luna, ruggine al tramonto.

Poco meno di un secolo fa si è svolta lassù la più assurda guerra per il possesso di cime. Fu assurda e inutile: tutte le sorti si decidevano comunque in pianura. La disfatta di Caporetto travolse tutte le stentatissime conquiste di montagne.

D’estate salgo al Monte Lagazuoi e al dirimpettaio Sass di Stria, che sormontano i passi Falzarego e Valparola. La cima del Lagazuoi era tenuta dagli austriaci, ma a metà parete passa una cengia, uno stretto sentiero orizzontale che l’esercito italiano occupò e tenne. Le cenge sono tipiche delle rocce sedimentarie lavorate dal mare. Si svolse così una guerra tra due piani dello stesso condominio montagna.

Gli italiani cercarono di sloggiare gli inquilini di sopra, trivellando dal basso un lungo cunicolo in salita. Non per sbucare di soppiatto in cima, invece per imbottirlo di esplosivo e far saltare in aria il presidio austriaco. Dall’alto si difesero per tempo scavando una contromina in corrispondenza di quella italiana. Questo accorgimento rendeva molto meno efficace l’esplosione. Ci fu lo stesso, ma gli austriaci rimasero indisturbati in alto, mentre la montagna scaricava enormi blocchi a valle. Grandiosa e superflua fu quella mina insieme agli sforzi compiuti lassù dalle due parti nemiche. Oggi la lunga camera di scoppio trivellata in verticale è trasformata in un sentiero attrezzato. Un cavo di ferro corre lungo il cunicolo di roccia che sale per centinaia di metri nel buio. Ogni tanto una finestrella utile alla camera di scoppio rischiara il pozzo e offre vista sul vuoto. Si sale nella galleria a lume di lampada frontale. A me piace andare senza, procedere nel perfetto buio con il fiato che rimbomba nel cunicolo. La galleria finisce con un tratto a spirale. Si esce all’aperto tra vecchie trincee austriache, ben custodite. Era impossibile vincere o anche perdere una guerra là sopra.

La camera di scoppio del Lagazuoi è oggi destinata a un altro sforzo inutile, quello dell’alpinista. Ma stavolta l’aggettivo “inutile” ha un valore. L’alpinismo è il bel rischio festivo, affrancato in partenza dalla partita doppia dare/avere. La sua scalata alla bellezza è senza tornaconto.

Un navigatore arrivava per primo su un’isola, ci piantava la sua bandiera e l’annetteva al suo Paese. L’alpinista che arriva per primo su una cima vergine non esercita alcun possesso, e la bandiera che lascia serve a tenere compagnia al vento. Angelo Dimai, leggendaria guida alpina di Cortina del primo 1900, viene convocato dal comando italiano che ha appena occupato la città. Gli viene chiesto di scalare la Tofana di Rozes per scacciare dalla cima il reparto austriaco. Dimai si rifiuta, lassù ci sono i suoi amici. Viene perciò arrestato.

Lassù ci sono i suoi amici: la guerra che infila casacche diverse alle varie gioventù può governare il fondovalle, non le cime. Lassù non ci sono nemici. I cartografi possono ben tracciare confini lungo le dorsali montuose, stabilire che un versante appartiene a una nazione e un versante a un’altra. L’alpinista che la scala dai due lati dimostra che una montagna unisce e non separa. Lassù calpesta il confine inventato e lo cancella.

Mio padre, napoletano arruolato nella Seconda guerra mondiale col grado di sottufficiale degli Alpini, raggiunse la destinazione in montagna.

Appena arrivato, gli fu assegnato dal tenente uno strano incarico: vegliare quella notte la mula che stava per partorire. Si sa che Alpini e muli hanno vissuto insieme. Mio padre arrossisce, dice “Signorsì”, poi aggiunge: “La ringrazio di farmi assistere al miracolo”. Il tenente sorride e gli dà il benvenuto. I muli sono incroci sterili.

Un canto corale di quella guerra dice: Sui monti della Grecia c’è la Vojussa/ Col sangue degli Alpini s’è fatta rossa. Una conseguenza dello spargimento erano le trote grosse e grasse. Gli Alpini le pescavano con le bombe a mano, integrando così la razione. Mio padre non poteva assaggiarle. A chi gli chiedeva conto dell’astinenza, rispondeva che lui era abituato al pesce di mare e quello di acqua dolce non gli andava.

Di quel tempo maledetto della sua gioventù ha salvato la gratitudine per le montagne. Le ha cercate dopo la guerra, villeggiante nelle Dolomiti. Perdendo la vista mi indicava dal basso con approssimazione le cime raggiunte senza peso di armi. Le ho salite tutte, per desiderio di ricalco.