Bianco

Bianco è il titolo dato al monte, nome di chi lo avvista da lontano. Se t’inoltri nei ghiacciai, è striato di crepacci cupi, come la livrea della tigre. Il granito delle pareti è buccia di melanzana fritta. Il suono di valanghe cadenzate è il respiro ingrandito di un vecchio che russa in pieno giorno e fa pensare al vino che tracanna e poi scarica nei sonni.

Il cielo è una lama sotto la mole di un arrotino che la gira a pedale e ne cava scintille. Sei nel Bianco e niente lo ricorda, neanche il nevaio che pesti e impasti, anzi ti viene in mente l’uva di una vendemmia lontana a piedi nudi.

Ma alla fine sulla via di ritorno da qualunque tua mossa nel massiccio, confermi il nome: è il Bianco, somma generale di tutti i colori che hai visto e che hai passato. Bianco è il totale, in fondo alla giornata e alle energie. Potessi tu lasciarlo così, bianco, lo spazio attraversato, salire come scrivere con l’inchiostro simpatico, potessi tu richiudere ogni impronta, potessi tu tornare così intatto dopo la tempesta. Non puoi, ma un po’ di bianco ti è rimasto nelle maglie della retina e vedi più chiaro nei volti che ami.

Pitagora viene prima di Platone, le regole del triangolo anticipano quelle della democrazia. La prima salita alla cima del Bianco precede la Rivoluzione francese. Era nella stessa generazione, nello stesso snodo, ma un pollice prima. Lo spirito tedesco cercava consistenza nelle formule della Grecia antica, il francese raggruppava lo scibile nell’Encyclopédie, lo svizzero si metteva a tastare montagne. Saussure, non il linguista Ferdinand de, del secolo seguente, ma Horace-Bénédict de, filosofo ginevrino di buone leve, le mosse verso l’alto. Lassù si concentravano gli ultimi vicoli ciechi delle esplorazioni. Le vette sono questo, vicoli ciechi, oltre non si prosegue. Un paio di giorni d’agosto dell’anno 1786 la specie umana seppe che poteva.

La gobba sommitale del Bianco era stata calpestata.

Si poteva: ecco il verbo delle disobbedienze, che aizza lo spirito di contraddizione ai limiti, alle leggi. Salire in cima al corno del continente: si poteva, eccome. Prima che liberté, égalité e fraternité si facessero largo nelle piazze staccando teste da corpi di regnanti e subalterni, prima di diventare citoyen, il bipede pensante s’era seduto sulla cima della sua geografia.

Ulisse anticipava Socrate per una volta ancora. Dall’agosto del 1786 la neve non cade solo per nevicare, per sua sfrenata inventiva di cristalli esagonali, ogni fiocco diverso dall’altro perché la vita ha in odio repliche e clonazioni: da quel giorno la neve cade per cancellare impronte, per togliere le nostre.

Andarono lassù cercando fossili. Nelle rocce era fissato l’Oriente del pianeta: organismi viventi avevano stampato il loro corpo sulla pietra, superficie scelta anche dalla divinità per le sue leggi. Le sommità contenevano pesci, conchiglie incorporate: sopra le cime un tempo non viaggiavano nuvole ma onde. La storia del pianeta era scritta, bisognava soltanto raggiungere le pagine per leggerla. Organismi remoti si erano impressi a secco dentro un minerale. Chi porta al dito la pietra incastonata, a stento arriva a immaginare quanta vita animale e vegetale è stata incastonata nella roccia.

Da un’estate di oltre due secoli fa si è avviata la processione delle alture. Pellegrini di cime hanno esaudito il voto di salire. Un quoziente di vite è stato offerto in sacrificio alle valanghe, ai fulmini, ai ghiacciai perché l’immenso, pure se calpestabile, non è bestia da circo, non si riduce alla docilità. Sull’Aiguille du Midi, ago di mezzogiorno, si arriva in funivia, ma noi restiamo pulci di giganti che una scrollata può spazzare via.

Sono salito sul suo granito seminato a quarzo insieme a un compagno di cordata che anni dopo precipitò da solo.

I nodi sono fatti per essere poi sciolti. Il Bianco me ne ha lasciato uno che in fondo a questa pagina ritrovo stretto, intatto.