Disparità

Da qualche parte ho già scritto che al mondo c’è più Sud che Nord. Il pianeta non è diviso in due dal meridiano Equatore, il Sud lo scavalca, risale l’Africa, il Mediterraneo e incorpora Spagna, Italia, Grecia. Da noi qualche frastornato geografico si dichiara abitante del Nord. In Italia non c’è, siamo il Sud del continente Europa. Bizzarro sarebbe un calabrese che si definisse settentrionale perché residente a nord della Sicilia. Il Sud è maggioranza del pianeta, il Nord un’arroccata minoranza.

Il Sud e il Nord stanno pari in cielo, con la Stella del Piccolo Carro a segnale di settentrione nel nostro emisfero, e la Croce del Sud a fare lo stesso servizio per l’emisfero australe. In terra ci si orienta meglio con oriente e occidente.

Salivo sul Monte Epomeo dell’isola d’Ischia di notte per assistere alla nascita del giorno. Sulla sommità c’è un terrazzino di tufo scavato, un posto per starsene accovacciato in attesa. Il primo chiarore rompeva la notte alle spalle del Vesuvio, poi il sole superava la gobba del vulcano e illuminava il mare.

Ho da allora l’impressione di un’energia nascente che sprigiona più forza di quella del tramonto. Mi spiego questo effetto con lo sforzo di salita del sole in mezzo al cielo. In discesa invece l’effetto è quello di energia esaurita, in libera caduta. L’amico alpinista Romano Benet usa dire che in discesa sanno andare anche i sassi.

Anche il nome Oriente ha fascino maggiore, di cosa che sorge, secondo la lingua latina, mentre Occidente è nome di cosa che cade.

Dopo quelle albe festive, ho conosciuto quelle obbligatorie. In officina, al turno che iniziava alle sei si stava alla luce bianca dei neon. Dalla pedana delle lavorazioni alzavo gli occhi ai finestroni per un saluto al giorno. L’alba ai vetri era una tinta pallida, sciupata, un neon in mezzo agli altri. Non era luce del giorno, era luce del turno.

Di quegli anni mi resta l’orario, la sveglia prima del giorno. Ho l’alba incorporata. Quando ero di turno secondo, dalle 14 alle 22, non alzavo le palpebre a congedo del giorno. Mi accorgevo tardi che c’era stato il tramonto. Ero anch’io un pezzo immorsato insieme al blocco di ghisa da smussare. Finito il turno uscivo al buio senza affrettare il passo, superato dagli altri di officina. Guadagnavano secondi dopo le ott’ore chiuse. Non avevo dove precipitarmi, l’uscita di fabbrica era già arrivo.

Il buio covava la città, le case erano uova da schiudere al mattino.

L’ora mi faceva randagio, la schiena indolenzita scioglieva le giunture camminando. Abitavo vicino alla stazione, dove i corpi in offerta aspettavano l’uscita del secondo turno. I vestiti aderenti, colorati facevano sul marciapiede l’effetto di un’aiuola fiorita, da non calpestare. Sfiorarli mi faceva bene. Quello era il Sud nella città subalpina, proprietà privata di un’industria di veicoli. Era il Sud che la faceva girare anche di notte.

Oggi mi siedo a fianco di un tramonto e ritrovo lo stesso effetto ricevuto sopra l’Epomeo, che l’Occidente sia una ricaduta dell’Oriente.

Ammetto così con me stesso una disparità di peso tra i punti cardinali.