Il mio piede è un animale preistorico.
Sta incatenato al calcagno, se no andrebbe leggero
senza l’obbligo da facchino di portare il peso
di un corpo sessanta volte superiore al suo.
Si nutrirebbe di polvere, di alghe,
può starsene sott’acqua per le ore
ma nei calzini e nelle scarpe soffre.
Di notte sogna di sfiorare un piede femminile,
sogna pure di scrivere.
Nei tuffi di testa sorride di stare
nel punto più alto del corpo.
Di notte sbuca dalle coperte, anche d’inverno.
Poi lo ricopro gelato.
Dopo un poco che scrivo è impaziente,
sbatacchia, tamburella.
Al corpo assegna la più esatta definizione:
bipede, la parte che rappresenta il tutto.
Mio piede salvatore, prima di me si accorse
della vipera pronta accartocciata
e deviò il passo in tempo fulminato.
Quando si solleva sulle punte a piedistallo
mi fa raggiungere qualunque altezza,
ma quando s’impunta non lo sposta
nemmeno la sirena dei bombardamenti.
Mentre scrivo di lui imbrigliato nei sandali,
ironico mi guarda e scuote tarso e metatarso,
se fosse una mano significherebbe: “Che vuoi?”.