Appostata all’angolo di via degli Schioppettieri, la zà Maria aspettava di veder passare gli Olivares. Uno scialle scuro le copriva i capelli arruffati come un nido di ciaula. Le mani, consumate a forza di lavare panni, le teneva intrecciate sotto al sedere di una picciridda di quasi sei anni, così secca da sembrare più piccola della sua età. Dormiva tra le sue braccia, la testina ricciuta abbandonata sulla spalla della madre, un filo di saliva colava dalla boccuccia semiaperta. Non si fidava a lasciarla sola a casa quella figlietta, perciò la vestiva nel sonno e se la portava dietro come un pacco.

Abitavano in una di quelle misere case sotto il livello della strada, a vicolo Brugnò, un budello stretto e lungo di fronte alla cattedrale, dove il sole non batteva mai. Le case del vicolo consistevano in una sola stanza in cui si accalcavano marito, moglie e tutti i figli che venivano. Lo spazio era così angusto che la vita in qualunque periodo dell’anno si svolgeva all’aperto.

D’inverno quei cristiani stavano seduti davanti alle porte, con la testa incassata nelle spalle e le mani gonfie di geloni nelle tasche sudice. D’estate i letti li conzavano direttamente fuori, ma lo stesso la gente non prendeva sonno. Avevano perciò tutti un’espressione fissa e allalata che li rendeva unici e riconoscibili. Qualche volta, quando l’afa era insopportabile, sfollavano sul sagrato della cattedrale dove, all’alba, una luce dorata tingeva di rosa il merletto delle guglie e i delicati fregi del portale. L’arcivescovo non protestava: era una questione di carità, ma anche di ordine pubblico. Erano tanti, ci sarebbe voluto un reggimento per mandarli via.

A vicolo Brugnò erano tutti una famiglia e ci si prendeva cura dei bambini senza preoccuparsi di sapere a chi appartenessero, come succede nelle tribù delle scimmie, che spidocchiano lo scimmiotto vicino senza chiedersi di chi sia figlio.

Per via della promiscuità, la rissa era sempre nell’aria. Scoppiava improvvisa e si trasformava lesta in una battaglia, cui tutti prendevano parte. Ma poi facevano pace, si sedevano davanti a un unico tavolo e mangiavano insieme, perché se non si aiutavano tra di loro...

Appena Viola rimaneva da sola in casa, la zà Maria imboccava le scale e saliva fino all’ultimo piano. Certe volte la picciridda si lamentava nel sonno: «Non piangere» sussurrava lei dentro allo scialle, e si fermava a consolarla con una tenerezza di cui si vergognava. Ecco perché se la concedeva solo quando era certa che nessuno la vedesse. Capitava che la bambina si svegliasse e pretendesse di camminare da sola. La donna la poggiava con delicatezza per terra, le aggiustava il vestitino, le tirava su i calzini che erano scivolati fin dentro le scarpe e riprendevano ad arrampicarsi lentamente.

«Me lo dà il biscotto la principessa?» chiedeva la bambina.

La madre le accarezzava i ricci lunghi, così fitti che non si bagnavano neanche con la pioggia: «Certo che te lo dà, ma tu non ti azzardare a chiederlo, perché sta male domandare le cose».

Fatti altri quattro gradini, la piccola ricominciava: «Magari pure una caramella, eh, mamma?».

Alla zà Maria si stringeva il cuore: a crescere da sola i figli si era consumata la forza e la salute.

La porta di casa era aperta, Viola avvolta nella vestaglia rossa aspettava i clienti del mattino. I piedi nudi si muovevano avanti e indietro sul pavimento freddo. Detestava le scarpe, diceva che erano un ostacolo tra lei e l’energia della terra. La picciridda si divincolò e corse ad afferrare le caviglie di Viola. La zà Maria fu lesta a riacchiapparla e la tirò per i capelli con tanta violenza che la figlia cominciò a piangere.

«Mari’, ma perché fai ste cose?» chiese Viola dispiaciuta, lei che una mano non l’aveva mai alzata su nessuno.

«Per insegnarci l’educazione!» rispose la donna allargando le braccia. «E sennò perché?»

La principessa prese in braccio la bambina, non pesava niente. Il suo cuoricino batteva leggero, le sembrò di tenere tra le braccia Mimosa. Il respiro però era fluido, senza quelle pause livide che le fermavano i polmoni. Le asciugò gli occhi e la portò davanti alla vetrinetta.

«Shhh, cunottati» le disse con dolcezza, tirò fuori dalla burnia una manciata di caramelle alla cannella e gliele mise nelle mani. «Ti piacciono i cannellini?» Poi, rivolta alla madre: «Mari’, è una picciridda!».

«’U ligno s’avi addrizzari quannu è teneru. Se non lo faccio ora fa la fine di suo fratello.»

Era esasperata la zà Maria da quel figlio maschio che ne combinava una al giorno. A scuola non c’era voluto andare, un lavoro vero non l’aveva, faceva lo spicciafacenne per il barone Riso. “Ma che è travagghiu?” si domandava preoccupata.

Viola si aggiustò la vestaglia, che con tutto quel trambusto si era aperta liberando il seno bianco, strinse forte la cintura attorno alla vita e si mise seduta.

«Principessa, me la legge la vita oggi?» domandò la zà Maria fissando con insistenza il bricco del caffè.

«Mari’, ma non è che le cose cambiano dalla mattina alla sera. Sei venuta ieri, oggi che vuoi che ci sia di nuovo?»

Viola non ce la faceva a dare cattive notizie, qualche volta si era anche ripromessa di non leggerli più i fondi del caffè. Ma poi la gente si presentava con il cuore e il cappello in mano e lei si sforzava di trovare le parole giuste per regalare una speranza. Quel suo talento più che un dono certi giorni era una maledizione.

«Dài, siediti. Hai mangiato?»

«Nzù» rispose Maria con un movimento deciso del capo. Un leggero rossore per quella ammissione di miseria passò sul suo viso duro. Viola le offrì dei biscotti, una tazza di latte.

«Non c’è bisogno, mi basta il caffè, così poi mi leggete la vita.»

«Mangia» insistette Viola, «e sbrigati.»

La donna assaporò il latte goccia a goccia, poi si ricordò della figlia e le porse un biscotto. Provvidenza ringraziò con un sorriso. Era dolce e assennata la bambina, così diversa dal fratello, ribelle e pieno di spine come un rovo di campagna. Viola provò pena per lei, nella sua mitezza le sembrò già vinta e, per risarcirla delle ingiustizie della vita, mise il barattolo con i savoiardi sul tavolo.

«Come sta Medoro?» domandò. Conosceva bene il tormento di quella famiglia.

«E che ne so io!» rispose la zà Maria, la voce piena di rabbia. «Per i maschi ci vuole il padre, solo un altro maschio li può addrizzare.»

Lei il marito l’aveva perso presto e suo figlio stava crescendo imprevedibile e riottoso.

«Voi lo sapete quant’è complicata la vita. Lui, poi! Tosto è sempre stato, ma da piccolo bastavano un paio di timpulate e tutto tornava a posto. Ora c’ha diciotto anni e le cose si sono fatte gruppa gruppa. All’adunata non ci va, la camicia nera non se la vuole mettere, il catechismo fascista non lo conosce...»

Viola le versò il caffè: «Te ne devi fare una ragione: quello sta diventando uomo e gli uomini fanno delle scelte, che ti piaccia o no».

«Seee, voi non potete capire. Don Roberto vi porta i soldi e voi crescete i figli. Io vado a servizio nelle case e ora che lui è grande sarebbe giusto che lavorasse. Ogni tanto mi dà dei soldi, ma non bastano mai. Mi aiuta l’Opera nazionale maternità e infanzia, se non fosse per loro... perciò debbo stare con due piedi in una scarpa, altrimenti manco il pane a tavola metto.»

«Calmati, che tanto poi le cose vanno come devono andare.»

«Eh no, principessa, noi ci facciamo il nostro destino.»

«Il destino è già scritto, noi gli corriamo incontro.»

«Destino o no, io sono sua madre e lui mi deve aiutare. Sapete che ha combinato?»

Viola mosse la testa in segno di diniego.

«Questo ve lo devo raccontare, così ci prendete le misure a quel farabutto. Sabato scorso, alla riffa, ho vinto una macchina da cucire, una Necchi nuova nuova. “Minchia che fortuna” mi sono detta. “Magari mi metto a fare la sarta, perché le monache m’hanno insegnato a cucire, e se non trovo clienti me la vendo.” Lo sapete quanto vale? 1180 lire! Un anno ci campo con quei soldi. Domenica, prima di agghiurnari, cerco la mia tessera fascista e quella sanitaria: niente. La casa quella è, ammuccia ma non ruba. Ho guardato in tutti i pirtusi, senza tessere il premio non me lo davano. Gira, vota e firria, ho messo fuori pure i materassi, macari che non è stagione. Niente, non ho trovato niente. “Stujati ’u mussu, Maria” mi sono detta, e c’ho messo una pietra sopra. Peccato, la bedda Necchi, 1180 lire!

Ieri sera, prima dell’Ave Maria, Medoro passa a casa, dice che vuole salutare la sorella. Non si arricampa più ormai, la notte ha preso l’abitudine di scurare fuori casa. Mi hanno detto che dorme dal figlio della cunigghia, quella che ha tredici figli. Uno di questi, Peppe, è l’amico di Medoro. A me non piace, è un pazzo senza simenza, scrive i pizzini contro al Duce...»

«Vabbè, Maria, quello sta diventando uomo e frequenta chi gli pare.»

«Sì, uno può pensarsela come vuole se è solo, ma Medoro ha una madre, una sorella. A vogghia il parrino che mi dice: “Tanto ci pensa la provvidenza”. Seee, Provvidenza c’avi a pinsari, quella una picciridda è!»

Viola sorrise, divertita dal gioco di parole.

«E comu finì?»

«Era arrabbiato! Nivuru, iddu che è già scuro, non per niente lo chiamano “’u turcu”? “Medoro, la pigghiasti tu la tessera fascista?” ci spiavi. Ma così, tanto per dire una cosa, che ne poteva sapere lui, che a casa non c’è mai. E invece iddu mi talìa dritto negli occhi: “Sì, l’ho strazzata” mi disse. Assintumai, non avevo manco la forza di arrabbiarmi. “Da sti scravagghi non si può accettare nessuna cosa” mi disse con i pugni davanti alla faccia.»

La zà Maria si fermò, era smarrita, sopraffatta. Per una volta che la vita le offriva un’occasione! La solitudine l’aveva divorata, la responsabilità della famiglia ora pesava troppo sulle sue spalle senza carne. Se solo qualcuno per un momento l’avesse sgravata da quel fardello che era la sua stessa esistenza...

Viola le poggiò una mano sul braccio, le sue dita emanavano un calore tiepido. Il tocco leggero la rincuorò, proprio come le caramelle avevano cunottato Provvidenza.

«La colpa è di Peppe Schiera.»

«Mari’, ma che ha fatto di male? Ce l’hanno tutti con lui, ma è un poveraccio, un morto di fame. ’A fabbrica du pititto lo chiamano.»

«Sì, ma Medoro ha preso pure lui a sconcichiare al Duce e a fare abbu ai fascisti.»

«E vabbè, magari diventa un poeta.»

«Seee, in galera! Ma se ogni volta che cala un federale dal Nord a quello se lo portano alla caserma.»

«Ma poi lo fanno uscire.»

«E se l’ammazzano? Io la notte non dormo più, quello sempre figlio mio è. Ava’, principessa, lo vediamo che gli deve succedere? Così magari ci metto una croce sopra e non ci vado più appresso.»

«Bevi, allora.»

La zà Maria ingollò il caffè tutto d’un fiato, poi le restituì la tazza. Rimase così, con il braccio in aria, per qualche minuto, poi entrambe chiusero gli occhi, l’una per purificare la mente, l’altra per trovare nel buio riparo dalla realtà. Viola afferrò la tazza, la capovolse sul piattino, intrecciò le mani con quelle della zà Maria e insieme aspettarono che la polvere umida scrivesse sulla porcellana bianca le risposte.

«Talè che confusione che c’è dentro a sta tazzina. Non si capisce niente. Aspe’... qua, la vedi questa formica? Lavorerà tanto, povero Medoro, ma avrà fortuna, c’è pure un ferro di cavallo. Mi pare di vedere un viaggio, lungo, la strada è questa linea fatta di puntini uno dietro l’altro. Ma torna, non ti scantare, che l’uccello è nel nido. Salute di ferro, la rosa è bella grossa e spampanata. Talè, talè, talè...»

«Che è, principessa?»

«Te lo dico, ma tu poi te ne stai tranquilla e non torni prima di un mese.»

«Sìssi.»

«Farà grandi cose quel figlio tuo. C’è una corona larga come una padella. E avrà il rispetto di tutti, altro che galera. Ora vai a casa e non ci pensare più a lui, perché quanto prima se ne andrà per i fatti suoi.»