Nell’autunno del ’42 la bottega si era vuotata. Dopo più di due anni, eccoli i risultati: i quattro scravagghi, ora che la sarda non la potevano liccari, non si facevano più vedere. Raimondo e Rodolfo erano spariti per evitare l’arruolamento, Giovanni era stato riformato a causa della miopia e si aggirava per la torrefazione senza sapere cosa fare. Orlando aveva smesso di funzionare. Digiuno e inerte, era un’ombra cupa che ammantava di nero le disillusioni della famiglia Olivares.
Giovanni gli armeggiava attorno come il medico al capezzale del malato. Continuava a spolverarlo con cura, rimuovendo la patina scura che lo faceva assomigliare a un mobile vecchio. La tramoggia era stata smontata e la testa del drago, priva dell’elegante cappello, ondeggiava tremula come il capino di un usignolo, i suoi occhi vitrei erano fari spenti. Quel titano si era trasformato in un vecchio e la putìa in un ospizio.
Di tanto in tanto le fiamme tornavano a bruciare e si tostavano ghiande, ceci, orzo, persino cicoria. Il profumo fragrante era stato sostituito da un odore acre che, invece di eccitare i sensi, intorpidiva le coscienze stimolando la salivazione.
Da quando era finito il caffè, Giovanni non aveva più potuto incontrare Viola e si arrovellava per cercare una buona scusa che lo autorizzasse a salire le scale del palazzo fino all’ultimo piano. Quel brevissimo scambio mattutino, riservato e intimo, era l’unico momento felice della sua vita.
“Finiri avi” si ripeteva a proposito della guerra. Sarebbe finita, lui avrebbe ricominciato a tostare a pieno ritmo e avrebbe fatto di nuovo i gradini con il cuore in gola. Fissava i sacchi flosci adagiati sul pavimento e contava i giorni, determinato a non lasciarsi abbattere dalla solitudine.
La gente ciondolava per le vie del rione, gli uomini appoggiati alle cantunere sbadigliavano sotto alle barbe incolte, le donne spalancavano spudoratamente le bocche, mettendo in mostra denti guasti e lingue impastate. Erano colpa della fame quella strana sonnolenza e la nausea che faceva sentire tutti ubriachi.
Nonostante l’intraprendenza di Ortensia, alla lunga persino gli Olivares si erano rinsecchiti e ritirati dentro ai loro vestiti.
Roberto si appoggiava sconsolato a Orlando, che se ne stava silenzioso, con gli occhi vuoti a fissare il nulla: aveva fame anche lui. Certi giorni sembrava che l’attesa non sarebbe mai finita, poi le sirene cominciavano a fischiare, la gente si riscuoteva dallo stato stuporoso e correva nei rifugi. Le pupille dilatate dalla paura, i volti di cera: parevano sardine stipate in una buatta.