Il quartiere è irriconoscibile, un labirinto di detriti nel quale ho paura di perdermi. Preferisco stare in casa, dove sembra che nulla sia successo. I mobili, di cui conosco ogni venatura, sono sempre al loro posto, nei cassetti c’è ancora il profumo della mamma. Al chiuso, tra le pareti spesse, il respiro talvolta si inceppa in fondo al petto. Allora salgo in terrazza per catturare un soffio d’aria. I miei occhi vagano smarriti: scomparsi cupole e campanili, la linea dei tetti è stravolta. Davanti a me non ci sono più facciate, ma lunghe gallerie che si snodano tra i muri sgretolati e arrivano fino al mare. Fisso l’orizzonte che muta di continuo e il mio sguardo si incanta. Nello spazio aperto mi assale un’ansia che ha il sapore del ferro.

Ora che mio padre non c’è più, sono io la padrona della putìa. Nulla mi impedisce di realizzare il mio sogno. Potrei diventare l’imperatrice del caffè, io sono Zauditù! Ma subito ricaccio indietro quel pensiero, non si può disubbidire ai morti. Il cuore vuole tornare a sognare e litiga con la ragione, che non molla le redini del controllo.

La battaglia infuria per tutto il giorno finché a sera, stanca, mi ritrovo a desiderare solo di dormire. Il lettone dei miei genitori oggi mi appartiene per intero. Sprofondo nei materassi soffici e penso con rammarico che nessuno viene più a mandarmi via.

Il sonno mi coglie all’improvviso e procede a spezzoni, popolato da incubi dolorosi ma anche dai sogni più belli. La mia coscienza attraversa le tenebre in frammenti, ma quando si ricompone nella luce dell’alba c’è la mamma ad aspettarmi con la sua tazza di caffè, pronta a sorridermi tra i vapori profumati.

Mi calo nei suoi panni, mi è più facile interpretare le astratte figure che si stagliano nella tazza che attraversare lo spazio di libertà che mi separa dalla putìa.

Cerco rifugio allora nella vestaglia ricamata. La seta scivola sul mio corpo e gira in larghe pieghe attorno alle gambe magre. Rimangono scoperti i polsi e le ginocchia, che io e la mamma siamo fatte in modo diverso: lei piccola e grassottella, io alta e ossuta. Allo specchio mi sembra di essere ridicola, con quelle braccia secche che spuntano dalle maniche risicate e i seni puntuti che guizzano tra i revers dorati. Inoltre il colore rosso, che sulla pelle candida della mamma bruciava di passione, sulla mia, scura quanto il caffè, si smorza come braci moribonde. È così evidente che non sono nata per fare la caffeomante, non ne ho nemmeno l’aspetto. Tuttavia quel tessuto morbido, che mi avvolge nella sua carezza, è rassicurante come tutte le cose familiari. E invece di affrontare la realtà una volta per tutte, mi lascio trascinare in un mondo di fantasmi.

Il caffè lo trovo già sul tavolo al mattino, ora posso berne quanto voglio, ma non immaginavo che potesse avere un sapore così cattivo, è amaro e intriso di rimpianto. Neanche questo mi ferma e inizio a ricevere i clienti.

Ogni giorno, seduta in cucina, recito con ciascuno la stessa pantomima, dimenticando che potrei avere una vita mia. Le incertezze degli altri prendono il posto delle mie, l’importante è svicolare dal dolore. Mi pare che questa sia la strada più sicura, non ci sono sorprese dietro l’uscio. Le persone vanno e vengono dalla mia casa e sperano di conoscere il futuro.

Io scruto dentro ai fondi e rimango ferma nel passato.