Alivuzza, la sartina di via Rua Formaggi, entrò assestando spintoni a Totò il carrettiere e a sua moglie Franchina, che le volevano rubare il posto.

«Schiiiii, schiiii» gridò smanacciando a destra e a sinistra. «Vastasi, tocca a mia, la volete finire?»

Nella confusione qualcuno forse le palpò il sedere magro. Alivuzza avvampò, sollevò un braccio per colpire nel mucchio: «Non ve l’hanno insegnata l’educazione?».

«Genzianù» esordì appena seduta.

«Principessa, prego» la interruppe Provvidenza con il cipiglio del direttore d’orchestra.

«Genzia’» continuò lei, come se la servetta non esistesse.

«Poche confidenze, per favore: principessa, per tutti» ribadì Provvidenza.

«Principessa, glielo dite alla serva di farsi i fatti suoi?» esplose la sartina.

Provvidenza tacque soddisfatta: poco importava che l’avesse chiamata serva, l’importante era che avesse finalmente riconosciuto il titolo alla sua padrona.

«L’inferno vitti» cominciò allora la sartina, «e arristavi sula! Vulissi moriri...»

«Tutti abbiamo un problema, la guerra non ha risparmiato nessuno» la rintuzzò Genziana visibilmente annoiata, non aveva l’empatia di Viola e non riusciva a mettersi nei panni della gente. «Alivu’, qua chi ricorda cerca di dimenticare e chi ha dimenticato si sforza di far luce nel buio della memoria, perciò dimmi che vuoi sapere e sbrigati.»

La sartina tacque, le guance si fecero cupe, di un verde scuro sottobosco, il viso era tirato.

«Senti, bevi stu cafè e capiamo di che si tratta, che fuori dalla porta la fila è lunga.»

Il residuo nella tazza era denso, un grumo solitario si era addossato alla parete vicino al manico. L’alone si arrampicava e si spingeva a macchiare di nero il bordo destro.

«Bi bi bi, che vedono i miei occhi...»

L’incarnato di Alivuzza diventò ancora più terreo, quasi violaceo, come la pelle di un cadavere a mollo da parecchi giorni. Si agitò sulla sedia, puntò i piedi, sollevò il sedere piatto e avvicinò la testa alla tazza. Le guance erano scosse da un tremolio ansioso. Si rinchiuse nelle spalle, le mani afferrarono la parte superiore delle braccia, la strinsero.

«Bi bi bi, ma allora c’è una giustizia su questa terra...» continuò Genziana in tono misterioso.

Alivuzza ricadde sulla sedia con rumore di ossa.

«Bi bi bi, talè, Provvidenza, che bella questa...»

Provvidenza si avvicinò e guardò nel fondo del caffè, ma non vide niente.

«Alivu’, ma ti vedi ancora con quell’americano?»

«Nzù» rispose lei con un cenno della testa.

La gente nel corridoio rumoreggiava: «Ava’, tardi è!», «E quanto ci mettete?», «Alivuzza è, no peri d’aliva!».

«Comunque qua dice che torna e ci farai pure un figlio.»

La poverina sbiancò: «Ma mi sposa?».

«Aspe’. Provvidenza, apri la finestra che c’è poca luce» urlò Genziana, quindi lasciò da parte la tazza per occuparsi del piattino: quello raccontava il futuro lontano.

«Non si capisce, a dire la verità. C’è un figlio, lo vedi? Anzi, figlia: cucchiara è. Ma non so... c’è una nuvoletta di fumo che non mi convince. Però lui torna. E ora susiti e fai andare avanti la fila.»

La sartina avrebbe voluto chiedere dell’altro, ci sperava da tanto tempo di trovare un marito, ma Provvidenza le tolse la sedia da sotto e lei fu costretta a lasciare il posto.

Franchina e Totò si presentarono insieme.

«Uno per volta» disse Genziana.

«La domanda è la stessa: vogliamo notizie di nostro figlio.»

«Va bene, ma chi se lo beve il caffè?»

«Iddu» disse Franchina.

«Idda» esclamò Totò, nessuno dei due voleva assumersi la responsabilità di una cattiva nuova, così ne bevvero un sorso per uno, passandosi la tazza come se scottasse.

Genziana gettò uno sguardo sommario a quella croce scura che si era evidenziata in prossimità del manico: «Non torna» rispose lesta, e li congedò con un gesto brusco.

Viola non avrebbe mai pronunciato una sentenza così dura e in modo così brutale, lei aveva un gran cuore. A Genziana pareva che gliel’avessero strappato dal petto. Quella della caffeomante era una missione, come fare il medico o il prete, invece per Genziana si trattava di un obbligo. Non era cattiva, ma, priva del controllo dei genitori, manifestava senza freni le sue tendenze: non era portata all’ascolto, sembrava piuttosto nata per l’azione.

Franchina cominciò a piangere: «Guardate meglio» la supplicava, Totò era rigido come un basilisco.

«Io ci vedo benissimo, chista è ’a zita!» rispose sgarbata. «Avanti il prossimo!» gridò per chiudere quel dialogo inutile.

«A mia tocca.»

«No, c’ero prima io!»

La fila si rompeva e si ricomponeva, serpeggiava un malumore fatto d’impazienza. Piccoli bisticci scoppiavano guastando antichi rapporti di amicizia. Il quartiere abbisognava di coesione e Genziana con la sua ruvidezza non aiutava a riportare l’armonia.

Il vocio continuava a crescere d’intensità, finché a un certo punto la protesta esplose: «Torna indietro!», «Talè, stu vastasu», «L’ultimo sei, che io arrivai all’agghiurnari».

Tra la gente avanzava uno sconosciuto.

«Ti senti forte, ah?», «Camina, camina e torna narreri

Qualcuno lo strattonò anche, ma quello, incurante, raggiunse la cucina. Era alto, muscoloso, riempiva la stanza. Una nuvola di ricci neri gli calava sulla fronte. Genziana si era alzata per rintuzzare la protesta, lo riconobbe subito. Non aveva certo dimenticato i suoi occhi, due gocce di fuoco, che ardevano di passione e spiccavano tra le linee decise del viso. Lui tese le braccia, lei, intimidita, gli porse una mano. Le loro dita si strinsero, Genziana ritrovò il calore che l’aveva consolata la notte in cui era morta Mimosa. Ma questa volta fu una fiamma vigorosa a propagarsi nel suo corpo, dal braccio al petto e poi giù nella pancia, fino al ventre che si contrasse in un crampo di desiderio. Erano l’uno di fronte all’altra, due giovani adulti, belli e pronti per l’amore.

Medoro emanava un odore di muschio, di legno verde, di sottobosco a primavera. Genziana respirò il suo profumo, che come un’onda la attraversò e, raggiunto il cuore, si trasformò in una tempesta furiosa. Ebbe l’impressione che dentro al suo corpo una diga si fosse rotta e l’acqua si agitasse all’interno con fragore. Le venne voglia di toccarlo, di abbracciarlo, di sfiorargli le labbra. Arrossì per quel sogno impudico, strappò via la mano. Il braccio di lui, teso nell’aria, non subì alcun contraccolpo, né tremò. I pettorali gonfiarono la camicia candida. La gente riprese a urlare: «Ma che fa? Balliamo la tarantella oggi?».

«E cu ciù portò a chistu?»

«Talìa che nova.»

«’U turcu ci mancava!»

«Ava’, amunì, che dobbiamo travagghiari.»

La servetta per farli tacere agitò una mappina come se volesse cacciare un nugolo di insetti.

«Medoro sono» disse lui, la sua voce profonda aveva un timbro secco e allo stesso tempo dolce. Ma la rivolta ormai era partita e Fanny la bardascia, una rossa dal carattere e dai capelli fiammeggianti, si staccò dalla fila e si mise tra lo sconosciuto e Genziana: «Ava’, ci vogliamo smuovere?».

Intervenne Provvidenza e la spintonò verso le scale: «Che prescia che hai, che il futuro non si vede di botto. Siediti e aspetta».

«E guarda la serva com’è prepotente!» continuò la rossa agitando il capo e mandando bagliori anche dagli occhi.

Poi avanzò di qualche metro, strappò dalle mani di Provvidenza la mappina e la fece schioccare nell’aria come fosse una frusta.

Medoro bloccò il braccio della rossa e la guardò fisso negli occhi: «Che modi sono questi», le tolse lo straccio dalle mani e lo restituì alla ragazza. Le sorrise, possedeva un magnetismo unico: il fatto è che il carisma è qualcosa d’innato e lui ne aveva da vendere già quando, sporco e malvestito, usciva dall’androne di palazzo Riso.

Provvidenza si rivolse alla bardascia e digrignando i denti l’apostrofò: «Se non ti sta bene te ne puoi andare. Anzi, sai che c’è di nuovo? Per oggi abbiamo chiuso».

Piegò la mappina e la mise nella tasca. L’uomo approfittò della tregua, si girò verso la gente che si accalcava sulla porta della cucina: «Ecco. E voi non vi preoccupate che non rubo il posto a nessuno. Sono il figlio della zà Maria di vicolo Brugnò, sono appena arrivato dal continente».

Il brusio diventò un urlo di gioia. Il turco era di nuovo a casa, e sa Iddio quanta speranza regalava a quella povera gente un ritorno inaspettato.

La notizia del ritorno di Medoro fece subito il giro del quartiere.

Giovanni arrivò trafelato, Ruggero lo seguiva passo passo, ripetendo i suoi soliti anatemi: «Io sono salito lassù e ho visto le cose che devono accadere...», ma appena scorse Medoro si azzittì. I suoi occhi cominciarono a vagare da un punto all’altro senza pace, sembrava cercasse nel disordine della mente un nome, un fatto. Le sue mani affondarono nei capelli dell’amico, le labbra si torsero in un sorriso affettuoso.

«Ruggero, amico mio.»

Si abbracciarono, l’Olivares si chetò. Abbandonato sul suo petto forte, si sentì al riparo. Lo sguardo gli si addolcì, la fragilità di sempre irruppe al fondo dei suoi occhi. Ruggero recuperò improvvisamente la sua fisionomia delicata e l’espressione tentennante che la follia aveva congelato in un cipiglio severo. Anche Genziana sembrò ritrovare l’allegria della sua infanzia, prima della guerra. L’integrità di un tempo si faceva spazio dentro di loro.

Medoro abbracciò la sorella, Provvidenza rimase rigida come uno stoccafisso, cercando tra i ricordi un indizio che la rendesse partecipe di quella commozione generale. La sua memoria era liscia come sassi di fiume e il suo cuore trovò un unico appiglio nella voce di quell’uomo, che vibrava alla stessa frequenza della sua. Un soffio di vento irruppe nella stanza, le imposte sbatterono l’una contro l’altra, l’odore del caffè si dissolse nel profumo di mare. La primavera del 1946 si annunciava dolce e polverosa.