«Ti devo parlare», Medoro si rivolse a Genziana con un’espressione seria. «Ma qua c’è troppa gente, usciamo.»

«Chiudiamo la porta, chi vuoi che ci senta?» replicò Genziana, che non ne voleva sapere di uscire dal palazzo.

«È una giornata così bella... dài che ti porto al mare!»

Lei esitò, la realtà le faceva paura e solo in casa si sentiva al sicuro. Medoro la prese per mano e Genziana si affidò con il cuore che le batteva forte.

Sul portone, spaventata dallo scenario che le si apriva davanti, la ragazza s’impuntò come un mulo. Erano caduti i palazzi all’angolo di via degli Schioppettieri, il refettorio del monastero di Santa Caterina; un conto era osservarli dall’alto del suo terrazzo, un conto trovarsi direttamente a contatto con i cumuli polverosi che premevano ai bordi della strada.

Medoro la tirò per la manica, proprio come si fa con le bestie riottose, e in pochi passi si trovarono dentro a una sorta di foresta mummificata. Le case rimaste in piedi avevano un aspetto marmoreo, come pini e betulle che, sepolti da una frana, non si decompongono per i secoli a venire. Le macerie formavano ovunque alti cumuli, dune di un deserto bizzarro. Il continuo passaggio della gente aveva scavato tra loro un viottolo irregolare, che “i sentieri si tracciano camminando”.

Lui inforcò una bicicletta arrugginita, spolverò la canna con la sua mano grande e la invitò a prendere posto con un sorriso accattivante. Genziana salì serrando le ginocchia e istintivamente si appoggiò al manubrio. Le loro dita si trovarono appiccicate nello spazio arcuato tra il campanello e i freni. Il contatto con il metallo freddo la calmò. Riprese il controllo di se stessa, il respiro rallentò, il cuore invece continuava a battere forte. La bicicletta ondeggiava sul fondo accidentato e a ogni pedalata le loro gambe si sfioravano, suscitando in lei un fremito di dolcezza che mitigava l’angoscia che il paesaggio circostante le procurava. Percorsero uno stretto budello e sbucarono in via Roma. All’incrocio con il corso Vittorio si fermarono a guardare le assurde architetture venute fuori casualmente dallo scoppio delle bombe. Le loro teste si toccarono con un rumore di zucche vuote. Anche la chiesa di Sant’Antonio era stata danneggiata, e la campana pretoria, che era servita a convocare il popolo, in quelle condizioni non avrebbe più potuto suonare.

La guerra aveva lasciato ovunque i segni della sua indiscriminata violenza: Palermo non era più una signora aristocratica dalle guance di porcellana, ma una prostituta ammalata e contagiosa. Era mancato ai medici che l’avevano soccorsa il coraggio di una cura drastica. La malattia era progredita velocemente, ma senza intaccare gli organi nobili: il cuore dove pulsa la vita e il cervello che ne regola le funzioni erano nel ’46 provati, ma ancora forti. C’era energia in quel corpo che si decomponeva lentamente, ma il respiro stentava nei polmoni saturi di gas venefici. Le macerie, come ascessi non drenati, si incistarono nell’organismo delicato che era a quel tempo la città, e ancora oggi resistono in alcune vie: silenziose testimoni di un’epoca che nessuno ricorda.

Genziana osservava con stupore le porte divelte, le finestre pericolanti, le gallerie scavate nei muri di confine. Si scandalizzò dei bambini che improvvisavano giochi sui mucchi pietrosi e cavalcavano scivoli vertiginosi fra travi in bilico su residui di esplosivo.

La bicicletta filava veloce in discesa, Medoro scansava abilmente buche e sassi. Uno dei due bastioni di Porta Felice era venuto giù insieme al loggiato di San Bartolomeo, che prima chiudeva il Cassaro. La balaustra di arenaria che segnava il limite del lungomare era ridotta in pezzi, e il mare davanti al Foro Italico arretrato. L’acqua non lambiva più la passeggiata, ma si fermava molti metri prima, gli scogli muschiati spariti sotto metri di materiali di risulta.

La naturale entropia della città veniva assecondata da una classe politica priva di un progetto. Gli amministratori designati dall’AMGOT decisero di non ripristinare le vecchie architetture e fecero sparire interi isolati dietro palizzate e reticolati, comportandosi come una servetta pigra che inganna la padrona nascondendo la polvere sotto il tappeto. Cancellarono in questo modo un’identità costruita nel corso dei secoli.

Le chiese invece le tirarono su velocemente, non ce l’avevano il coraggio di fare un torto al Padreterno in cielo e ai suoi emissari in terra. Ma i sobri rivestimenti bronzei furono sostituiti con piastrelle azzurre e gialle, restauri sommari come rustici rattoppi su un elegante abito di raso. Non più tramite fra terra e cielo, le cupole colorate abdicarono alla loro missione spirituale, sollecitando piuttosto desideri carnali.

Superata Porta Felice, Medoro e Genziana piegarono a destra, trovandosi su un viottolo che correva parallelo a un binario tortuoso, occupato da un insolito treno. Molto simile ai convogli in uso nelle miniere, lo strano millepiedi faceva il giro dei quartieri e caricava le macerie, che poi riversava in mare senza andare troppo per il sottile. Colonne scultoree, preziosi mosaici, marmi mischi, affreschi, tasselli, intarsi, pezzi di opere d’arte, stucchi delicati, statue lignee giacevano in fondo all’acqua insieme a cantari sbreccati, cassetti sfondati, mattoni sbriciolati.

Chiacchierando e tossendo, che l’aria era carica di polvere, arrivarono al deposito delle locomotive, un capannone grigio allungato tra il porto di Sant’Erasmo e la foce del fiume Oreto. La zona degli orti si era trasformata in una strada di passaggio per i camion dell’esercito alleato che scaricavano le bombe inesplose a Mongerbino, sotto l’arco degli amanti, un ponte roccioso teso tra il cielo e il mare. Mezzo secolo dopo la gigantesca balena dal respiro affannoso l’avrebbe rivomitato quello stesso tritolo, umido ma ancora in grado di seminare morte su una città desiderosa di redimersi.

Seduti su un mucchio di mattoni, i due ragazzi rimasero per un po’ in silenzio. Medoro riprendeva fiato dopo la lunga pedalata, Genziana era stordita dal puzzo di morte che aveva respirato lungo il tragitto.

«Ho bisogno di te» disse lui posandole una mano sulla spalla. La ragazza, equivocando quel gesto cameratesco, si ammollò come un gelo di mellone al sole.

«A bello cuore» rispose quasi balbettando. Sicura che quello fosse il preludio a una dichiarazione d’amore, era emozionata e carica di aspettative.

«È finita la dittatura, adesso finalmente possiamo scegliere!» continuò lui con una voce impostata che non lasciava presagire nulla di romantico.

La faccia di Genziana si accartocciò, tra le gote arricciate e gli occhi strizzati si disegnò un’espressione stralunata: non riusciva a capire cosa stesse succedendo.

Lui, del tutto sordo ai richiami del cuore, continuò a parlare con foga crescente: la guerra, i partigiani, la libertà, la democrazia, la costruzione del Paese, il voto...

«Il voto alle donne!» gridò e, roteando le braccia tutto intorno come pale di mulino, scattò in piedi.

Nella luce abbacinante del mattino, Medoro era un’ombra sconosciuta. La ragazza ne sentiva la voce altisonante e percepiva con fastidio l’enfasi del suo periodare retorico, come se recitasse un discorso imparato a memoria. “Dov’è finito quel ragazzo coi ricci aggrovigliati e i denti bianchi come mandorle?” pensò delusa. Lui la guardava in attesa di una reazione.

«Non t’è passata la fissazione per le parole difficili! Il vocabolario ci vuole per capirti» disse allora Genziana, contrariata. E riandava con la memoria agli sguardi malandrini che lui le lanciava davanti a palazzo Riso, a quella stretta tenera che si erano scambiati nella stanza di Mimosa. “Possibile che abbia dimenticato quello che c’è stato tra noi?”

«Lo sai cos’è un referendum?» chiese lui all’improvviso.

«Ci trasi con l’utopia?»

«Mi hai ascoltato mentre parlavo con Ruggero, vero?»

Intenerito, Medoro le fece una carezza sui capelli, le sue dita giocarono con le ciocche mosse dal vento.

“Non mi sono sbagliata” si rincuorò la ragazza.

«Allora non sei proprio babba come sembri» aggiunse lui.

Genziana scattò in piedi come una molla: “Ma chi si crede di essere per darmi della cretina?” considerò, ed era già pronta al litigio. Lui le scansò una ciocca dalla fronte con un gesto colmo di dolcezza. “Forse ho capito male” pensò, del resto si sentiva come intontita. Tutta quell’aria, il sole, l’emozione di trovarsi a contatto con la devastazione provocata dalla guerra.

«Che vuoi fare da grande?» continuò Medoro, cambiando di colpo tono di voce e assumendo un atteggiamento paternalistico.

«Io sono già grande, che fa’, scimunisti?» Genziana gli agitò una mano davanti al naso. Abbassò gli occhi e si assicurò di avere le ginocchia coperte. La gonna tendeva a sollevarsi a ogni refolo di vento, e lei incastrò l’orlo sotto le cosce. Non fu un gesto di pudore, semmai di civetteria. Sebbene fosse più ingenua delle sue coetanee, aveva una sensualità naturale che a tratti la faceva apparire una donna fatta e finita.

Lo fissò con trepidazione, il suo corpo prese una postura morbida e accogliente. Sposarsi e fare famiglia, come aveva fatto sua madre e come prospettava suo padre: a quello pensava, e intanto accavallava le gambe, si aggiustava i capelli, sbatteva le palpebre e socchiudeva le labbra, provando a sedurlo senza saperlo.

Medoro dal canto suo era refrattario a quel tipo di malia, irrigidito com’era in una razionalità fatta di rivalsa sociale. Nella clandestinità di avventure ne aveva avute, ma le sue compagne di battaglia, temprate dal pericolo, non conoscevano né batticuore, né sospiri o lacrime. Leste a prendere dall’altro un po’ di calore per esorcizzare la paura della morte. Pronte a superare momenti di scoraggiamento, ma immuni alla tenerezza, avevano assunto i modi spicci degli uomini e, come loro, erano disponibili a far l’amore così come veniva e senza giri di parole.

In quegli abbracci ruvidi, nei baci senza sapore, Medoro aveva certe volte avuto la sensazione di stringere un amico. Sconcertato, le aveva baciate con gli occhi aperti, ne aveva palpato i seni con foga, ma ora, in tempo di pace, il suo gusto atrofizzato non era più in grado di apprezzare la sapidità di una femmina.

Perciò ignorò le moine di Genziana e continuò a inseguire il filo dei pensieri: «Ammesso e non concesso che è vero quello che dici, allora dimmi che stai facendo».

«Nel senso?»

«Chessò, lavori? Studi? Aiuti a casa?»

Genziana frugava nella propria testa alla ricerca di una frase intelligente e si accaniva contro i capelli, costringendoli dietro le orecchie con un movimento carico di inconsapevole incanto.

«Vedi, non lo sai, ho ragione io.»

«E invece lo so! Farò famiglia, troverò un marito...»

«E come lo vuoi questo marito?»

Lui le accarezzò le guance con un’espressione di compatimento. Accecata da un amore infantile che le impediva di vedere davvero l’altro, la ragazza ancora una volta travisò il gesto e rispose d’impeto: «Scuro, con gli occhi neri e i denti bianchi... e si chiama Medoro» aggiunse abbassando la voce, così che le ultime parole rimasero inascoltate.

«Vero ti vuoi sposare?»

«Femmina sono, tutte le femmine cercano marito.»

Gli occhi di lui fissarono il mare, una pozza di turchese che si apriva verso l’orizzonte in una distesa blu notte. A riva i detriti si addensavano in chiazze gialle e rosse dalle forme mostruose.

«È questo il punto: tu, Genziana Olivares, proprio tu, no la femmina che c’è dentro di te, tu che ti aspetti dalla vita?»

«E tu lo sai?» lo rimbeccò lei con una vocetta stridula che tradiva insofferenza: quelle domande ficcanti la facevano sentire stupida.

Medoro allargò le braccia, poi si batté una mano sulla fronte. “E che parlo, a una sorda?” pensò, tuttavia si rimangiò l’impazienza e cercò di spiegarsi meglio.

«Sì, certo che lo so. Del resto io sono un uomo.» Il suo petto si gonfiò come quello di un galletto che sta per lanciare il chicchirichì: «E non perché ho quello tra le gambe...».

Il cannolo! Non ci pensava più dai tempi della scuola. Genziana si mise a ridere, poi arrossì: un conto erano le sue amiche, un conto lui.

«Ah, no? E allora io sono fimmina. Ma no perché c’ho le minne.» Questa volta era stata lesta a ribattere.

«Torniamo alle cose serie» la rimproverò lui, che non aveva nessuna gana di scherzare. «Sono uomo perché scelgo quello che voglio e quello che mi piace.»

«Ma me lo dici che cosa c’entra il ref... come si chiama?»

Non faceva in tempo a sentirsi una donna che di nuovo lui la ricacciava in una condizione di immaturità infantile. Quell’oscillazione tra due piani affettivi discordanti che si inseguivano e si scavalcavano come nuvole nel vento esasperava la sua solita insicurezza.

«Referendum. Serve per scegliere il governo che vuoi.»

«Tanto per dire» intervenne lei con aria da saputella, «se io voglio don Mimì a sindaco tu fai il... come si chiama?»

«Tu mi vuoi cugghiunare.» Ignorò la stupida considerazione di lei e continuò, deciso: «Il 2 giugno si vota. Montano nelle scuole le cabine, mettono una specie di paravento di legno, lì dietro non ti può vedere nessuno. La cosa più importante è che il voto è segreto. Tu vai al seggio e ti danno una scheda dove ci sono disegnate due figure. Una è per quella chiavica dei Savoia...».

«Ma non erano i Borboni?»

Questa volta lui la fulminò.

«Oh, non si può più babbiare con te! Mutu cu sapi ’u joco.» Genziana promise di non interromperlo più.

«L’altro, quello bello, è per la repubblica, e lì tu ci devi mettere una croce. Perché è la repubblica che vuoi, no?»

Lei calò la testa, non si azzardava più a dire nulla.

«Se scegli la repubblica, sei libera...»

«Ma l’utopia?»

«Se stai zitta c’arrivo. Te lo ricordi il barone che abitava a palazzo Riso? Quello che mi dava un soldo a timpulata? E io me li prendevo gli schiaffi, perché dovevo portare i soldi a mia madre. Ecco, ora pagnuttuni non ne voglio più, né a pagamento né aggratis, e non voglio più essere comandato da nessuno. Ora i baroni devono lavorare come noi, questa è la democrazia. E quando diventeremo tutti uguali, questa è l’utopia. Hai capito ora?»

Genziana era perplessa, ma fece segno di sì.

«Mi devi aiutare a convincere quelli del quartiere a votare per la repubblica.»

«E come?»

«Quando vengono a farsi leggere i fondi del caffè, tu gli dici che se torna il re finisce il lavoro, calano di nuovo i tedeschi, addio sigarette e ciunche, i mariti glieli mandano al confino... chessò, con tutte le minchiate che racconti...»

«Minchiate? Ma come ti permetti?» urlò la ragazza.

Era disposta a tollerare il compatimento di lui, ma la caffeomanzia l’aveva imparata da sua madre e quella non la doveva toccare. Si alzò di scatto, lo spinse lontano: «La principessa dei Quattro Mandamenti ha tenuto in piedi un quartiere intero, dava speranza, consolava, sosteneva. Lo dovresti chiedere alla tua, di madre, che una mattina sì e l’altra pure veniva a chiedere aiuto a casa mia. La zà Maria entrava come la Madonna addolorata e se ne andava piena di speranza come una Maddalena pentita. E lo sai perché? Per merito di quelle che tu chiami minchiate. Se fosse qui te lo racconterebbe lei stessa».

Poi tacque, stupita da una furia che non sapeva di possedere. Dentro di lei scorreva il sangue di Viola, quel sangue pazzo che divampava come un fuoco in un campo di restucce secche e non si placava finché non riduceva in cenere l’ultimo filo d’erba.

«“Madre” per me è una parola senza senso», la voce di Medoro era bassa, dimessa, sconfitta. «Se mi guardo indietro, nella mia infanzia ci sono solo urla e scappellotti. La mia famiglia è il partito.»

Genziana si placò, ebbe pena di lui. Lo guardò negli occhi, erano colmi di solitudine. Ricordò il ragazzo lacero che stazionava nell’androne di palazzo Riso, la mascella contratta, i pugni serrati, sempre arrabbiato, ma a ragione: nessuno gli aveva voluto bene, nessuno l’aveva mai accarezzato. Genziana lo strinse a sé come si fa con un bambino spaventato. Il cuore di entrambi batteva disordinatamente, ma per ragioni diverse. Lui era infastidito da un passato che lo aveva fatto soffrire, lei fiduciosa di poter realizzare il suo sogno.

«Erano altri tempi» gli sussurrò nell’orecchio.

Medoro si abbandonò sul petto morbido di lei, provando un senso di protezione. Tra quelle braccia esili trovò sicurezza, e per la prima volta desiderò mostrarsi con le sue debolezze. Ma abituato alla ruvidezza della lotta ricacciò indietro, nella profondità dell’animo, i suoi sentimenti.

«È vero, era un’altra epoca» convenne Medoro con voce tremula, «per questo ora siamo chiamati a scegliere, per dare un corso nuovo alle nostre vite.» E poi aggiunse, ritrovando la consueta saldezza: «Lo so che mi vuoi bene, e anch’io te ne voglio. Aiutami, e se non ti importa niente fallo per me».

Era un ricatto bello e buono, ma Genziana per la quarta volta equivocò e pensò si trattasse di amore. Perciò tirò su con il naso e senza aprire gli occhi – guardarlo in quel momento non poteva proprio – mormorò un sì tanto dolce che qualsiasi uomo l’avrebbe baciata. Qualsiasi uomo, ma non Medoro.