Nei giorni che precedettero il referendum l’aria era satura di elettricità. La gente confidava in quel voto per ottenere il pezzetto di felicità che le era stato promesso. Nelle case, nei circoli, nelle strade non si parlava di altro. Tutti avevano capito che il suffragio universale era un punto di non ritorno. Le donne preferivano non sollevare direttamente la questione, tanto il voto era segreto e nessuno poteva controllarle.
«Che voti?» domandavano i mariti ansiosi.
«Quello che dici tu» rispondevano loro.
Gli uomini invece ne avevano discusso fino alla nausea, la questione era di vitale importanza. Libere di votare, le femmine avrebbero alla fine voluto anche scegliere, magari anche studiare e, una volta allittrate, riportare all’obbedienza quelle teste dure sarebbe stato impossibile! I palermitani, che di fronte ai cambiamenti tirano calci come i muli nella muntata, cominciarono a paventare una catastrofe peggiore della guerra. Perciò in molti, la notte prima del voto, rinchiusero le mogli e le sorelle dentro casa.
«Cu si guardò si salvò» dicevano accarezzando le chiavi nascoste nel panciotto. Ma i lucchetti non bastarono a frenare le donne, che all’alba si trovarono tutte davanti ai seggi.
La zà Crucifissa mostrava orgogliosa un labbro gonfio. Il marito aveva cercato di convincerla a rinunciare al nuovo diritto a forza di schiaffi. E lei, per la prima volta nella vita, aveva reagito assestandogli due calci negli stinchi. Ora, consapevole della propria forza, che la gamba gliel’aveva quasi rotta, se lo trascinava al seggio, e lo spingeva e lo incitava – «ah, ah, aaah» – come se l’uomo fosse uno scecco e lei un carrettiere.
Alivuzza fremeva di rabbia, lo stava pagando caro quel suo amore americano. “Donna pubbrica” l’aveva definita il parrino, e lei sperava che la democrazia l’aiutasse a riabilitarsi agli occhi dei benpensanti. «Ci fazzu abbiriri iu a sti babbiuna. Repubblica, senza se e senza cusà, almeno è fimmina come me» diceva con le mani poggiate sulla pancia sporgente.
Una folla multicolore stazionava per le strade. Le giovani indossavano il vestito della festa e stringevano tra le mani borsette di rigida pegamoide. Le anziane avevano la testa coperta da una veletta di pizzo, come alla festa del Corpus Domini. Le burgisi avevano petti palpitanti sotto ai coralli rossi di Sciacca. Alcune azzardavano un cappellino, altre un fazzoletto colorato al collo. Le più povere erano infagottate in misere vestagliette di percalle dal fondo azzurrino tempestate di macchie d’unto. Dalle scollature spuntavano, non trattenuti, i seni floridi; quelli avvizziti se ne stavano rintanati tra pancia e cuore. Le braccia, secche o tonde, pendevano ugualmente abbandonate lungo i fianchi pudicamente immobili. Tacchi, zeppe, pianelle, tappine calpestavano le balate davanti al collegio del Giusino. C’era persino una sposa che, in attesa di passare dalla tutela del padre a quella del marito, si chiedeva con preoccupazione se quel primo gesto di autonomia avrebbe messo a rischio il suo virginale candore.
E poi bambini capricciosi strattonati da madri impazienti, neonati attaccati a minne gonfie di latte e tenere come fasceddi di ricotta. Qualcuna s’era anche colorata le labbra.
«Levatevelo il rossetto!» urlava un fimminone sventolando una bandiera tricolore. «Se leccate la scheda arresta macchiata. ’Nzamaddio annullano il voto. E comunque ricordatevi che non è busta di lettera, ma scheda elettorale. E fate attenzione, che nessuno lo deve sapere dove la mettete la croce.»
Quel voto era il primo segreto collettivo. Finalmente si poteva fare qualcosa di nascosto dal marito o dal padre. Che bella, sta repubblica!
«Sciù sciù sciù, quanti fimmini ca ci su’» cantavano dei giovanotti che volevano fare gli spiritosi. E già i primi effetti di una democrazia in itinere si vedevano negli sguardi fieri delle donne più consapevoli, nel tono leggermente più alto delle loro voci che vibravano di speranza.
Il portone si aprì cigolando sui cardini. Un ultimo sguardo alla scheda, a quel profilo delicato circondato da rami di alloro, e finalmente furono libere di esercitare un diritto che profumava di amore per loro stesse e per le proprie figlie.
In Sicilia i Savoia ebbero la meglio, nonostante la regia occulta del turco e la malafede della Olivares. In continente vinse la repubblica, perché le cose alla fine vanno come devono andare.
La notizia arrivò il 12 giugno, le persone si riversarono in strada urlando. I tamburi rullavano, i tram erano carichi come durante le fiere.
Genziana, orgogliosa del risultato, perché se la repubblica aveva vinto era anche merito suo, aspettava alla finestra che Medoro si facesse vedere. Lui non arrivava e, in preda all’ansia, la ragazza scese alla putìa. Sulla porta osservava la folla scomposta. Passò lo zù Minico: «Siete contenta, principessa? Ha vinto la repubblica, la mucca di Teresina ha partorito, e ora, per il bene vostro, speriamo che sia masculo».
Alludeva al nipote, che ormai scalpitava per venire al mondo. Genziana si strinse nelle spalle e non rispose. Sfilavano intanto per Discesa dei Giudici i suoi clienti, alcuni ammiccavano, altri sorridevano. Quando l’attesa le divenne insopportabile, si risolse a raggiungere anche lei la piazza.
Giovanni la trattenne per un braccio: «Lascia perdere, non è cosa per te» le disse con uno sguardo di rimprovero.
«Ma di che stai parlando?»
«Lo sai di chi sto parlando!»
«No, non lo so», e cercò di divincolarsi.
Giovanni la strinse ancora più forte: «Medoro ha bisogno di una compagna, vuole una donna pari a lui. Tu invece hai bisogno di uno a cui affidarti e che ti sollevi dalle responsabilità. Pure che ti mette sotto, per te non ha importanza, anzi meglio».
«Sei geloso!»
«Te lo ripeto, lassalu perdiri.»
Genziana diede uno strattone e corse verso l’angolo di piazza Bellini. Medoro era lì, ubriaco di felicità, arringava la folla alla cantunera di Peppe Schiera. Lo ascoltò attentamente, seguendo l’ondeggiare delle sue mani forti, fissando con desiderio la sua bocca espressiva.
“È stato troppo impegnato con la politica” pensò con sollievo, pronta a giustificare la sua assenza.
Lui continuò a parlare, indifferente, e, quando finì, si accodò al resto della compagnia, accennando appena un gesto di saluto verso Genziana. Lei rimase pietrificata. “Che mascalzone! E magari se la fa pure con quella stràcchiola che gli sta appiccicata al fianco!”
L’umiliazione le fece venire voglia di piangere. Ora era ancora più sola di prima, che nemmeno alla buonanima di sua madre poteva rivolgersi dopo quello che aveva fatto.