Quando la luce del sole cala e le prime ombre si allungano sui muri, gli uomini percepiscono la propria finitezza al confronto con l’universo già immenso, che pur si dilata ancora. Succedeva anche a Giovanni di scivolare in una malinconia subdola e paralizzante, ma non ne aveva colpa, è che alla sera l’anima si dispone al turbamento.
Durante il giorno l’operaio si buttava nel lavoro e accantonava così il senso di oppressione. Ma il suo era un equilibrio precario, e al tramonto, prima di spegnere le fiamme del drago, insieme al profumo del caffè scemava la sua sicurezza.
Quel pomeriggio di settembre, appena salutato Medoro, Giovanni tirò un calcio ai sacchi vuoti, si sentiva solo ed era pieno di rabbia. Tutte quelle responsabilità, che gli erano piovute sulle spalle dopo la morte del padrone, avrebbero finito per ucciderlo. Il ritorno del turco era stato motivo di sollievo: sperava nell’aiuto di quel ragazzo, non fosse altro per gratitudine, visto che gli aveva salvato la sorella. Quello invece preferiva la leggerezza dell’utopia al peso del lavoro e se n’era andato senza girarsi indietro. Guardò l’orologio, mancavano ancora due ore alla chiusura. Non avrebbe resistito un minuto di più con quel carico d’angoscia, perciò uscì. L’aria tiepida lo avvolse in un abbraccio affettuoso.
Cominciò a camminare con passo lento e a guardarsi intorno. Le montagne avevano le sfumature delle arance mature, lunghe ombre viola avanzavano sulla città. Aspettò con pazienza che il filobus arrivasse. L’enorme lumaca dal guscio argenteo e le corna vibratili si fermò con un fischio lamentoso. La vettura era piena di operai dalle mani grandi e gli occhi piccoli. Lui salì sul predellino, forzando le gambe svogliate. Prese posto vicino al guidatore e, non appena il mezzo iniziò a muoversi, il nodo di angoscia si allentò. Sentì i muscoli rilassarsi e la nuca distendersi: attraversare la città gli procurava un piacere viscerale. Al passaggio le ville di via Libertà si mostravano integre nei loro giardini pieni di fiori. Le bombe non erano arrivate fino lì.
«Hic sunt leones!» urlò il bigliettaio davanti ai leoni di arenaria che segnavano il confine tra la città e la campagna. L’uomo aveva studiato in seminario ed era conosciuto come “’u monzignore”. Molti passeggeri scesero, chi rimase pagò il supplemento del biglietto. Quindi il filobus costeggiò il territorio della Favorita. I campi pietrosi si assottigliavano un po’ ogni giorno. Giovanni ascoltava con invidia i ragazzi che scherzavano e parlavano di donne. Una coppia di fidanzati amoreggiava nei sedili alle sue spalle. Poteva udire il fruscio delle carezze, lo schiocco dei baci. Si sentiva molto solo.
La vettura girò bruscamente su viale Regina Margherita, una lunga distesa di alberi i cui rami si chiudevano in alto formando un tunnel ombroso e profumato. L’uomo si deliziò di quella frescura. Un fiume di pace esondava dal suo cuore e si allargava in tutte le membra, la bocca si stirava in un sorriso ebete. Poi in fondo alla strada comparve il mare, una striscia verde smeraldo che sfumava nell’azzurro del cielo. La sabbia, una sottile linea bianca, la si poteva indovinare. L’aria era intrisa di tiglio e nostalgia. I passeggeri sussultarono di meraviglia, dimenticarono la stanchezza, il respiro di tutti si fece lungo, profondo, sincrono.
Al capolinea Giovanni fu assalito da una indolenza sconosciuta. Avrebbe voluto addormentarsi, gli succedeva al contatto con l’aria aperta. Costretto fin dall’infanzia nello spazio angusto che divideva con Orlando, si ubriacava facilmente d’ossigeno e luce e poteva da un minuto all’altro precipitare in uno stato soporoso, come un ex alcolista che non tollera più neanche un sorso di vino.
«Capolinea!» urlò l’autista per invitarlo a scendere. «Sacer est, aeternus, immensus, totus in toto» mormorò ’u monzignore alludendo alla vastità dell’universo.
Giovanni si scrollò di dosso quella dannosa lagnusia, la sua pancia tremò, le ginocchia vacillarono, il tronco beccheggiò come un veliero dentro la tempesta.
Il tramonto era già calato, persisteva però un chiarore diffuso che insieme al bianco della sabbia rendeva il paesaggio diafano. Camminò fino allo stabilimento, un maestoso castello che mandava bagliori verso il cielo. La passerella davanti alla terrazza era un ponte levatoio che avevano dimenticato di rialzare.
Si era tolto le scarpe e l’umidità risaliva lungo i suoi calzoni, la palude di Mondello ancora non era stata del tutto prosciugata. Si schiarì la gola e respirò profondamente, come faceva da bambino. Glielo diceva suor Michelina quando alla domenica usciva a passeggiare con i suoi compagni.
«Puliziatevi i polmoni. Avanti, respirate, ancora, ancora...»
I bambini si gonfiavano il torace fino a scoppiare e poi cominciavano a tossire.
«Bravi, così se ne vanno le sporcizie e pure i pensieri cattivi!»
Giovanni si riempì il petto di aria, i polmoni si allargarono con un fruscio prolungato e persistente. Tossì a più riprese e sputò, quand’era bambino questo bastava a farlo sentire a posto, ora provava un senso di totale sperdimento. La sua vita somigliava a quella battigia umida che il mare rosicchiava durante l’inverno e restituiva d’estate, trattenendone una parte nel chiuso delle viscere.
Tornò al molo. I pescatori erano rientrati, i gozzi dai colori sgargianti ondeggiavano sull’acqua come bambini nella naca. Le reti trasparenti giacevano a terra in un groviglio inestricabile, un odore intenso di alghe aleggiava nell’aria. I pesci argentei ancora vivi boccheggiavano nelle ceste di vimini. Giovanni si sentiva come quelle triglie affamate di ossigeno e prossime alla morte. Il mare era così quieto, solido, era tutt’uno con la terra. Improvvisa brillò una luna birichina e lui di rimando le sorrise. Il cuore sembrò perdere colpi, finché con un gesto risoluto della mano l’uomo si risolse a cacciar via ogni malinconia.
“Sono ancora vivo” si disse, “vedremo come andrà a finire.”
Il pessimismo che lo aveva condotto fin lì si dissolse, il suo naturale pragmatismo lo riportò alla realtà e finalmente i pesci si mostrarono per quello che erano: una magnifica frittura.
“Le cose sono come le vediamo noi” pensò. I momenti di introspezione erano per lui più faticosi del lavoro alla putìa. Era abbastanza sensibile da guardarsi dentro con onestà, però restava un sempliciotto e i ragionamenti troppo contorti lo mandavano in confusione. Acquistò un cartoccio di triglie e calamari e corse in piazzetta a prendere l’ultimo filobus. Pagò le quattro lire del biglietto: «Sacra fames», ’u monzignore indicò il pacco che colava.
«Frittura» rispose con l’acquolina in bocca.
Sulla strada del ritorno la testa gli si riempì di idee e il corpo di energia. Il mare è la migliore cura per qualsiasi malattia, si rammaricò di non aver portato con sé Ruggero. Vero è che era diventato più tranquillo, ma c’era in lui qualcosa che non lo convinceva. Nei suoi occhi fissi e sonnacchiosi brillava ogni tanto uno sguardo visionario, la fiamma della pazzia covava sotto un cumulo di cenere. Che brutta sorte era toccata a quei due ragazzi. Genziana aveva il cuore fragile, Ruggero la testa debole, ma lui aveva promesso a Viola di occuparsene.
«Fidatevi di me. Alle vostre cose ci penso io» le aveva sussurrato, ed entrambi sapevano che non stava parlando né del bricco, né della tazza.
Scese alla via Roma e proseguì verso casa seguito da una fila di gatti magri che speravano in una lisca. Come il pifferaio magico, se li trascinò fino al portone, che chiuse con sadismo sui loro musi affilati.
Il suo animo si disponeva ora all’abbandono. La casa era al buio e un silenzio insolito lo sorprese nell’ingresso. Dov’erano finiti tutti? Accese la luce e sobbalzò. Genziana e Provvidenza erano in cucina, sedute una di fronte all’altra, sui visi l’espressione addolorata di chi piange il morto.
«Che modo è questo di farmi scantare?» urlò seccato.
L’avevano colto alla sprovvista: quelle due non perdevano occasione per farlo arrabbiare. Ma dal momento che nessuna delle due rispondeva né si muoveva, si preoccupò.
«C’è nova?» chiese con la voce che tremava. Le ragazze risposero con un piccolo cenno del capo: «Nzù».
Allora, esasperato, alzò la voce: «Le fantasime del Massimo! Benedetto Iddio, ma vi smuovete?», e sbatté il pacco sulla tavola.
Colò lungo la tovaglia un rivolo roseo, la carta si aprì svelando il suo gustoso contenuto.
«Friggiamo sti pisci!» ordinò deciso. «Così parliamo una buona volta, che con la panza piena si ragiona meglio.»