Il Camarollo – chiamato “l’onorevole” perché aspirava a diventarlo – riceveva in uno studio arrangiato a via dei Lampionelli, la strada dove si fabbricavano le lucerne a olio che rischiaravano le case dei Quattro Mandamenti. Giovanni ci arrivò con due cuori. Uno, pieno di superbia, gli consigliava di non addingare a nessuno, che le cose lui era capace di farsele da solo. L’altro, compassionevole, lo incoraggiava a chiedere aiuto, che nel caso non si toglieva di certo ’u tistale. Tampasiò nell’attesa che uno dei suoi due cuori prendesse il sopravvento. Si fermò attratto dal manifesto scolorito di un vecchio film, Bimbo in pericolo. Non era biondo né paffuto, ma anche lui si sentiva in pericolo, e poi Bimbo era il suo soprannome.
Tutto intorno donne e bambini con le braccia sovraccariche di secchi, catini, bagnere, quartare andavano e venivano come formichine industriose da via dei Giardinacci per attingere l’acqua, che a tre anni dallo sbarco degli americani ancora mancava nel quartiere. Il tifo stava facendo più morti delle bombe.
«Niente, in questa città non cancia mai niente» constatò con amarezza, poi si decise a salire.
L’ingresso era pieno di uomini che occupavano una lunga fila di sedili ribaltabili, rubati al cinematografo. Guardò con malinconia le loro facce magre e mal rasate, i denti guasti, gli occhi infossati dall’espressione impenetrabile e tagliente come gli scogli che affiorano nel mare dell’Addaura.
«Schiavi siamo e schiavi resteremo» borbottava un vecchio sindacalista in un angolo.
«Zù Ciccio, che successe?» chiese Giovanni.
«Talìa qua, che sono beddi! Se ne stanno in fila, il cappello in mano, aspettando di chiedere il favore di un lavoro. Non lo sanno che il lavoro è un diritto di tutti? E io pure, come loro, qua a domandare grazia.»
Gli tremavano le mani allo zù Ciccio. Giovanni sentì i suoi due cuori battere all’impazzata, accese una sigaretta e uscì sul balcone a fumare. Tastò con passi incerti il marmo crepato in più punti e si guardò bene dall’appoggiarsi alla balaustra, i cui ferri pencolavano nel vuoto. Voci concitate si sovrapponevano e s’inseguivano nella stanza accanto. L’onorevole discuteva appunto di acqua e luce. Qualcuno prometteva, qualcuno minacciava, altri urlavano: «Perdio, non li possiamo tenere come bestie».
«E i piccioli? Lo sapete quanti ce ne vogliono?»
Poi le voci si abbassarono, infine tacquero.
“Si sono accordati” immaginò Giovanni, e rientrò nella sala d’attesa, giusto in tempo per vederne uscire alcuni uomini ben vestiti, con la coppola in testa.
«A vossia tocca», la criata gli indicò la porta.
«Baciamo le mani.»
Il Camarollo gli fece cenno di sedere, lui rimase in piedi per non sentirsi troppo svantaggiato.
«Parra.»
«Voscenza mi conosce, sono Bimbo della putìa Olivares. A vossia ci risulta che io non ci ho chiesto finora niente...»
«Vai avanti.»
«Il figlio grande degli Olivares si è scimunito con la guerra. È solo, famiglia non ne ha, e la sorella... ci vuole chi talìa a lei.»
«E che vuoi da mia?»
«Un posto.»
«Ma se è scimunito come dici tu, che lavoro ci faccio fare?»
«Nonsi, non è questione di travagghiu, ma di postu, lu postu governativu.»
Il Camarollo sorrise beffardo: i palermitani al travagghiu ci sparano e sono sempre pronti a lamentarsi. Era irritato, ma si avvicinavano le elezioni e non poteva certo scontentarlo, perciò fece una promessa vaga: «Se acchiano, non c’è problema, per ora non haio chi ti fari».
«Nonsi, ora deve essere, ma per i voti vossia non dubita...»
Il Camarollo fece la faccia da basilisco e si mise a pensare.
Giovanni, imbarazzato, abbassò gli occhi, che caddero su un giornale vecchio di qualche anno. In prima pagina la foto della firma dell’armistizio. Sotto la tenda, tra i miricani, Rodolfo e Raimondo che sorridevano felici.
“Vivi sono” pensò portandosi la mano alla fronte. In pochi secondi archiviò la domanda di morte presunta e valutò la possibilità che i fratelli Olivares tornassero a reclamare la loro parte di eredità. Ruggero doveva per forza lavorare, che i guadagni erano troppo scarsi per la famiglia al completo. Decise allora di giocarsi il tutto per tutto: «Scintiniune dice che voscenza è uno che aggiusta le cose rotte e, a quanto ne sa lui, siete pure bravo».
Il riferimento al capomandamento sortì l’effetto desiderato. L’onorevole si stampò in faccia un sorriso mellifluo: «E se ci diamo una pensione d’invalidità? Considerate le sue condizioni... è pure orfano di guerra!».
«Mai Maria! Quello ha bisogno di un ufficio dove stare. Così fa amicizia, i colleghi lo aiutano, se si sente male ci fanno compagnia. Magari trova pure una mugghiera, non bella ma con le mani d’oro.»
«Ma che ti pare, che il governo è balia?» rispose quello stizzito.
Giovanni ebbe un’impennata di orgoglio, il suo cuore superbo prese a galoppare manco fosse un cavallo arabo, lo sentiva battere contro il petto come se volesse sfondarlo: «Voscenza ha gana di babbiare. Il governo balia non è, ma manco noi siamo minne da mungere. E comunque alla torrefazione siamo tutti pronti a fare la nostra parte. Alla putìa ogni mattina ci passa tutto il rione Tribunali. E ora che votano pure le fimmini, vossia si fa il conto di quanti voti sono».
Il Camarollo rimase in silenzio. Allora Giovanni si calcò il cappello sulla testa e fece il gesto di congedarsi: «Mi hanno informato male, si vede che voscenza sa aggiustare solo le cose sane. Vi ringrazio lo stesso, però un consiglio ve lo voglio dare. Ho sentito che vi presentate alle elezioni con i qualunquisti. La Sicilia non è cosa per gente che se ne fotte. Megghiu l’autonomisti, almeno non ci vengono a scassare la minchia da fuori, ce ne stiamo per i fatti nostri, che qua non ci manca niente. Ma se volete davvero acchianare – lo dicono i parrini, no io che non passo e non cuntu –, allora chiù megghiu i democristiani. Ma ricordatevi che il pastore ha cura delle sue pecorelle».
«Bi bi bi, comu sta facennu! E chi ti dissi? Mezza parola. Salutami a Scintiniune e digli che sarà servito.»
«Voscenza ora esagera, semmai favorito.»
Soddisfatto, l’operaio tirò fuori dalla tasca un pacchetto, gentile omaggio del suo padrone defunto che: «Da lassù vi sarà riconoscente».
L’onorevole annusò la polvere: «Certo, quando c’era l’Olivares il caffè aveva un profumo e un sapore speciale, non si poteva livari di bocca. Ora è diverso, ma che fu?».