La via era deserta, i vicini addormentati, la sartina sola con il suo delirio.
«Arrivo al mare e lo affogo, come ho fatto con i muciddi. Tanto, se è vero che la pancia mia è piena d’acqua, neanche se ne accorge di morire.»
Una testa d’ariete le premeva contro il ventre e quando arrivò alla chiesa della Martorana non le riuscì più di proseguire. La notte era trasparente e lei così disorientata che non si accorse di quella luna piena che giocava tra le cupole di San Cataldo. Cercò riparo nell’agrumeto attorno alla torre. Gli alberi erano carichi di frutti e di fiori, per terra rami spezzati, foglie secche, radici scoperte, il caos che regnava nel quartiere aveva contagiato anche loro. Il profumo di neroli la consolò. Raccolse quattro arance, erano così perfette che sembravano fatte di pasta reale, come quelle che per burla le monache avevano una volta appeso ai rami. Aveva le labbra secche e la lingua arsa, ne sbucciò una e la succhiò. Non ce la faceva a proseguire, decise di rifugiarsi in chiesa. La trovò vuota, quella non era l’ora di pregare. Camminò lungo la navata laterale, a pochi passi dall’abside di Sant’Anna si appoggiò al muro di pietra liscia e tremando si lasciò scivolare fino a terra.
Le doglie andavano e venivano con il ritmo di un pendolo. Il respiro era corto e superficiale, che spazio per allargare i polmoni dentro di lei non ne aveva, occupata com’era dall’abusivo: era così che chiamava suo figlio tra sé e sé.
Un rivolo umido le bagnò l’interno delle cosce, aggirò le ginocchia puntute, segnò i polpacci miseri, circondò le caviglie e si disperse tra i complessi arabeschi del pavimento cosmatesco. Desiderò di morire o di possedere un gran coraggio, che se ne avesse avuto si sarebbe ammazzata.
Cercò la posizione più comoda, si trovò a quattro zampe come una cagna, le mani piantate all’esterno di una fascia bianca e le ginocchia al centro di due cerchi grigi. La sua pancia tesa pencolò nel vuoto, la pressione dentro di lei si alleggerì e poté respirare profondamente. L’ossigeno le fece bene, le regalò sprazzi di lucidità. Ma poi le contrazioni si fecero intense e le sferzarono le viscere come onde di un mare in tempesta. La sua carne cedeva come un costone franoso. I muscoli delle braccia cominciarono a tremare, crollò a terra, si girò sulla schiena, aveva pena di se stessa. Fu per non provare quel sentimento orrendo che la sartina si sdoppiò. C’erano due Alivuzza dentro alla chiesa, una che guardava incuriosita, l’altra che si torceva sul pavimento come una bestia ferita. Era come osservarsi attraverso una lente di zaffiro purissimo. Con sollievo si accorse che non provava più dolore, l’aveva dato tutto all’altra sé.
Rasserenata, vagò piena di meraviglia tra le volte affrescate e i preziosi mosaici. Si incantò davanti agli arcangeli bianchissimi e al volto dolce della Madonna, finché sentì la testa dell’abusivo premere contro la carne gonfia dei genitali e fu costretta a riunirsi al suo corpo. Quindi inarcò la schiena per vedere cosa stava succedendo sotto di sé, intanto la natura faceva il suo corso.
La picciridda uscì lenta, sembrava non avesse più premura di vedere la luce. Sgusciò fuori con un rumore curioso: plop, come avesse stappato una bottiglia di vino buono. Alivuzza allungò istintivamente le mani per raccoglierla prima che toccasse terra, quindi si ribaltò la neonata sulla pancia, una corda viola e molliccia le teneva attaccate. La sculacciò con delicatezza, la piccola emise un grugnito e poi un pianto discreto.
«È viva!» sussurrò, e tirò fuori dalla tasca le forbici dell’intaglio e una spagnoletta. Girò il filo di seta attorno al cordone, lo attaccò stretto in due punti diversi per fermare il sangue, poi lo recise. Un’ultima doglia la strizzò come una mappina bagnata, la vagina le si fece pesante, un grosso uovo bluastro cadde sul pavimento allargandosi come un polpo nella tana.
La neonata era chiara e delicata, la testa ricoperta da una lanugine color carota, gli occhi due gocce azzurre prese in quell’oceano immenso che la separava dal padre miricano. La madre istintivamente l’attaccò alla minna e si accorse di amarla, quella pallina odorosa. Altro che mucidda! La tenerezza crebbe come un tifone improvviso e la travolse.
“Bestia che sono!” si disse piangendo. “Come ho potuto ammazzarle i figli alla gatta?”
La vita la si considera diversamente con un bimbo tra le braccia.
«Rosa, Rosuccia, Rosetta, Rosalia, così ti chiamerò, ciure della mia vita.»
La bambina succhiava con lo sguardo fisso alla volta, dove le tesserine colorate disegnavano un cielo blu trapunto di stelle dorate.
«Che sei bella!» sussurrò. «Manco pari figlia mia.»
Le sue dita scure si mossero sul corpicino dalla pelle liscia e le carni sode, scivolarono sulla testolina tonda, si ritrassero impaurite sulla fossetta della fontanella, lì il sangue scorreva tumultuoso e pulsava con un rumore sordo. Le baciò le guance paffute, respirò il suo alito caldo. Mai aveva provato una gioia così profonda, una pena così forte, una indecisione così straziante. Così come non aveva saputo ammazzarla, ora non era capace di tenerla con sé.
“Senza un marito non ce la faccio a crescerla” pensava, “e poi la gente cosa può dire? Ci basta già il parrino che mi chiama meretrice!”
La luce filtrava lieve dalle finestre dell’abside e le stelle dorate della volta andavano impallidendo.
«Di buttarla a mare non se ne parla», e la strinse più forte, in preda a una eccitazione febbrile. «Che faccio?» domandò al Cristo Pantocratore che allargava le braccia sopra di lei. “Potrei lasciarla qui, le monache tengono le orfanelle” considerò. “Che peccato! Le vestono così brutte.” Lei era la migliore sarta della città, non le andava giù che sua figlia entrasse nella vita avvolta in un camicino di seconda mano. Le pizzicò le guance, erano croccanti come un buccellato di fichi e profumavano di cannella e pistacchio.
«Se potessi me la mangerei», e intanto mille pensieri le affollavano la mente. Ma nonostante l’angoscia, il suo viso era disteso e le gote soffuse di rosso: dopo la partenza del miricano Alivuzza si era convinta di essersi seccata per sempre, e invece era rinverdita in una sola notte, proprio come le sue pomelie!
«È bianca, tenera, profumata, sembra una cassatella appena sfornata. La metto nella ruota dei dolci, quello è il posto suo, dopo pensaddio!»
Attraversò il giardino, colse un fiore di zagara, lo poggiò sul palmo roseo di sua figlia, la manuzza si chiuse in un pugnetto. Mimì aveva già smesso di abbaiare e ora mugolava comprensivo. Il cielo si tingeva di indaco quando Alivuzza tirò due calci rabbiosi al portone di via degli Schioppettieri. Le monache uscirono dalle celle spaventate.
«Cu è?» urlò la portiera, e allora la donna scappò verso il mare. Cercava riparo, che per annegarsi coraggio non ne aveva.
Genziana non si era sbagliata, era lei l’ombra furtiva vicino al convento.
«Susitivi, signuri, ca cafittera c’è, rallegra li pinzeri...»
Provvidenza quella mattina offrì a Genziana un vassoio colmo di ciambelle profumate. Dalla sera delle triglie ne aveva fatti di progressi in cucina.
«Senti che ciauru!» esclamò la ragazza sollevandosi sui cuscini, e lesta addentò un dolcetto. Lo zucchero scricchiolò sotto ai denti. «Mizzica che sono buone!» commentò.
«Spicciati, devi andare a segnarti a scuola.»
Genziana le lanciò un’occhiata contrariata: «Io non devo proprio niente, semmai voglio», e si allungò per la seconda ciambella.
Provvidenza la osservò con curiosità, la padrona sembrava cambiata. Ma preferì tagliare corto: «Guarda che siamo cresciute, tocca a noi di fare il nostro dovere, è una cosa naturale, così come gli alberi murmurianu, e l’aceddi s’assicutano e battagghianu. E poi Giovanni ci tiene tanto».
«Sta camurria del dovere! Ma il piacere mai?»
«Quando capita anche. Ma ora sei come un puddicino: prima devi rompere il guscio, poi uscire allo scoperto e infine, anche se ti scanti, devi ruzzuliare dentro all’aia. Susiti, Genziana, è ora che cominci a ruzzuliarti» concluse Provvidenza, e intanto le infilava un abito.
«Ahi, ahi, i capelli!» urlava Genziana divincolandosi.
Provvidenza allora ebbe un gesto d’impazienza e l’abbandonò con il vestito indossato a metà.
“Ma che ha?” si domandò Genziana, e tirandosi giù la gonna la seguì in cucina.
La servetta aveva preso a sbattere le pentole, strapazzava la verdura, anche le sedie smuoveva rumorosamente, sembrava arrabbiata.
«Perché sei scontenta?»
«Ava’, non mi fare perdere tempo, che io devo lavorare.»
In quel momento per la strada si sentì una gran confusione. Genziana si affacciò alla finestra, un gruppetto di donne confabulava. Incuriosita, uscì, Provvidenza le andò dietro.
«Cu fu? Cu fu?», la domanda rimbalzava di cantunera in cantunera.
«Zagara l’hanno chiamata.»
«E ha i capiddi rossi come un’arancitedda.»
«Dice la portiera che non la danno all’orfanotrofio, è troppo bedda e se la tengono le monache.»
“Malupilu?” si sorprese Genziana.
«Bedda matre, ’u miricanu! L’unico rosso del quartiere lui era!» esclamò Provvidenza.
Quella sì che era una notizia. Non ebbero il tempo di approfondirla, perché Giovanni le richiamò: «La finite di perdere tempo? Forza, una a lavorare e l’altra a studiare».
La servetta corse dentro a lucidare il pavimento. Genziana, forte delle sue nuove convinzioni, entrò nella putìa sotto lo sguardo esterrefatto di Giovanni. Andò direttamente nella stanza del padre, si lasciò cadere sulla sedia impagliata: «Io qua sto» rispose con aria da padrona.
L’operaio lo capì subito che non c’era nulla da fare, la ragazza era stata abituata dalla madre ad averle tutte vinte e glielo leggeva negli occhi che non avrebbe cambiato idea per nessun motivo.
Si rassegnò alla sua presenza, paventando il peggio.