Poi gli oli smisero di essere un problema, e anzi divennero parte di Genziana: sangue, muscoli, pensieri. La ragazza recuperò le sue energie e cominciò a darsi da fare dentro la torrefazione, come tutti. Riempiva i barattoli del caffè, assisteva Giovanni nella tostatura, se serviva stava anche alla cassa. Continuava tuttavia a essere ombrosa, il suo umore era ondivago. Certi giorni se ne stava silenziosa, oppure borbottava come Orlando in piena attività. Talvolta esplodeva in spiacevoli sfuriate. In questo assomigliava sempre di più a Viola, le cui arrabbiature erano ancora impresse nella memoria della gente. Ma poi, perché stupirsi? Le donne finiscono per comportarsi come le madri, è solo questione di tempo.

Quando fece il suo ingresso alla putìa quella mattina, Genziana aveva l’aria corrucciata, gli operai abbassarono il tono della voce per non irritarla ulteriormente. La ragazza affondò le mani in un sacco, annusò i chicchi di caffè e ne assaggiò uno, la sua espressione si addolcì.

«Profuma di gelsomino?» esclamò sorpresa.

«Vero è!» assentì uno degli apprendisti. «È la varietà più preziosa che abbiamo, la usa la regina d’Inghilterra», e le offrì un chicco dal colore chiaro.

«Assaggia questo, viene dal Porto Rico.»

«È un po’ aspro, come il vino che invecchia nella botte. Tu che dici?»

«Mah, io non lo so, a me tocca solo un pacco di robusta a fine mese.»

«Fammene provare un altro.»

«Senti questo allora, è dell’Indonesia.»

«È forte, ruvido, roba da uomini! E sembra fatto con il pepe.»

«Attenta a non mangiarne troppi che poi ti senti male» l’avvertì Giovanni.

«Ma che dici? Ormai mi sono abituata. Non mi gira neanche la testa.»

Alla sera Genziana si trovò eccitata e tesa come una corda di violino. Si rigirava nel letto senza riuscire a prendere sonno, tutti i suoi organi funzionavano troppo: il cuore batteva all’impazzata, il respiro era superficiale e veloce come se avesse corso, la pancia gorgogliava, le gambe mulinavano tra le lenzuola come su una strada in discesa. Era come un vulcano, dentro di lei il magma premeva per trovare una via d’uscita. Il suo cervello era pieno di idee che scaturivano limpide, logiche, si inanellavano una dietro l’altra come i grani perfetti di un rosario.

Qual era il segreto di suo padre? Quella notte se lo chiese fino allo stremo e ogni volta una vocina dentro di lei rispondeva: “Cercalo”.

“Di sicuro ha a che fare con me, se il caffè si chiama Genziana un motivo ci deve essere.”

La mattina dopo fu la prima a entrare alla putìa. Sul suo viso c’erano i segni della notte passata: le palpebre e le guance gonfie, le rughe della fronte più marcate.

«Da oggi in poi, ogni volta che preparate un carico da tostare dovete spiegarmi quello che fate, momento per momento» annunciò quando arrivarono gli altri. Poi tirò fuori un quaderno e aggiunse: «Io prendo appunti, alla fine ci riuscirò».

«A fare cosa?» domandò Giovanni circospetto.

«Affari miei» concluse lei.

Nei mesi successivi Genziana assorbì tutta l’esperienza di Giovanni. Seguiva con attenzione il suo lavoro e annotava ogni particolare: il calore, la pressione, il peso, la capacità della tramoggia. Il suo naso si allenò a percepire gli aromi. In breve fu in grado di distinguere il floreale, che sembrava un cespuglio di gardenie, dall’agrumato, che legava i denti come mandarini a Natale; il fruttato, simile a un cesto di ciliegie appena colte, dal vanigliato, intenso come un buccellato farcito di fichi; lo speziato, che pareva un dattero ricoperto di pasta reale, dal legnoso, fragrante come un bosco di querce secolari. Il suo preferito profumava come una pagnotta di semola rimacinata appena uscita dal forno.

Genziana imparò a riconoscere con uno sguardo fugace i chicchi ammalati da quelli sani, i malformati per nascita dai difettosi per acquisizione, i troppo fermentati, gli acerbi, quelli sfatti e anneriti. Prese familiarità con le forme bizzarre e coniò delle sue personali categorie: pietre, orecchie, legnetti, conchiglie. I suoi sensi si impregnarono per osmosi di un immenso sapere, e a forza di annusare emersero ricordi lontani, che la memoria si esercita soprattutto con il naso. Sotto le palpebre chiuse scorrevano le immagini di suo padre curvo tra gli alambicchi, il viso amorevole di Viola che annuiva dopo aver bevuto una tazza di caffè, i loro sorrisi complici. Le chiacchiere dei suoi genitori le trillavano nelle orecchie, insieme allo schiocco delle labbra, al risucchio della lingua.

“La bella addormentata sui sacchi”, come l’avevano soprannominata gli apprendisti, non dormiva né sognava, ma rispolverava un mestiere che le apparteneva per nascita e tradizione.

Alla sera poi correva piena di entusiasmo da Lalla a raccontarle quanto aveva imparato.

Davanti a un bicchiere di vino, nella cucina che odorava di fritto, si attardava in descrizioni minuziose. Talvolta scivolava nella nostalgia e allora con voce piagnucolosa raccontava di Viola, di quanto fosse amata nel quartiere.

«Tutti le chiedevano consigli, la interpellavano per prendere decisioni. E la salutavano con rispetto, un po’ come fanno con te. A me invece non mi possono vedere.»

«Io però, come tua madre, mi do da fare, presto aiuto, combatto le ingiustizie, do una mano con i bambini. E tu che fai?» obiettò Lalla.

«Stai a vedere che adesso è colpa mia» sbuffò la ragazza.

«Colpa no, responsabilità sì. Cerca di prendere esempio, le buone pratiche si sviluppano per imitazione.»

«Io sono così diversa da te, non potrei fare le cose che fai tu.»

«Non devi prendere esempio da me, ma da tua madre, cocca.»

Genziana spalancò la bocca: ammirava la sua amica, per quel suo vivere libero e quell’incedere sicuro, ma certe volte le sembrava di non capirla.

«C’ho provato una volta e mi è andata male» rispose, e la voce le tremò.

«Viola era una caffeomante esperta, ma il caffè lo si può utilizzare in tanti modi. Sei proprietaria di una torrefazione, puoi partire da lì.»

«Ma perché, che sto facendo?» chiese spazientita.

Erano mesi che s’impegnava nel lavoro e Lalla, invece di riconoscere i suoi sforzi, continuava a incalzarla e a metterla con le spalle al muro.

«Non è così semplice come pensi. Ogni volta che faccio qualcosa, agli altri non va bene. Ora pure Provvidenza è cambiata. Mi guarda con certi occhi...» aggiunse poi per provare che aveva ragione.

«Le hai fatto qualcosa?»

«Ma che dici! Vive in casa mia, le do da mangiare, siamo come due sorelle.»

«Magari è invidiosa» aggiunse Lalla.

«Ma di cosa? Se non fosse per me...» saltò su Genziana.

Non le piaceva essere criticata e mise il muso. Non capiva che la parmigiana cercava solo di traghettarla nel mondo degli adulti, fatto di scelte e responsabilità, dove non esiste la parola “fuga”. Agiva come avrebbe agito Viola, ma non possedeva la stessa dolcezza, e i suoi modi spicci e severi finivano per provocare in Genziana un doloroso senso di inadeguatezza.

«Appunto. Tu sei la padrona e lei la serva. Tu comandi e lei ubbidisce. Si è amici solo se si è alla pari, funziona così anche nell’amore.»

«Ma allora la devo perdere?» chiese la ragazza preoccupata.

«Certe volte i rapporti si modificano all’improvviso e non puoi farci nulla. Le amicizie sono preziosi cristalli, hanno punti fragili che non conosciamo, e se vengono sollecitate lungo quelle linee di debolezza si rompono.»

«Che devo fare?»

«Devi tendere la mano a chi ha bisogno. Questo faceva tua madre: aiutava.»