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Sam sperava che non li avessero visti. Sebbene fosse stato felice quando la pioggia era cessata, si ritrovò a sperare in un diluvio improvviso: la cosa migliore per limitare la visibilità.

L’unica acqua, però, era quella che colava dagli alberi e dal fogliame. In pochi secondi, l’automobile fu quasi sopra di loro. Sam diede una sbirciata tra le foglie e vide una Jeep CJ-5 gialla degli anni Settanta sporca di fango scendere in folle. Non intendeva muoversi prima di aver visto chi fosse al volante: non poteva escludere che gli uomini di Avery avessero preso un’altra macchina. Quando la Jeep fu più vicina, il motore si avviò scoppiettando e il veicolo ebbe uno scossone in avanti.

Non era un uomo di Avery.

Sam si alzò a fatica, scivolando nel fango, e corse sulla strada sbracciandosi. «Aiuto! Qui!»

Remi corse al suo fianco, sbracciandosi e urlando a sua volta, ma la Jeep giunse al punto in cui la strada svoltava e i fanalini di stop si illuminarono mentre imboccava la curva. Troppo tardi, pensò Sam, chiedendosi se l’uomo al volante li avesse visti o anche solo sentiti. Poi, però, l’auto si fermò e tornò indietro in retromarcia.

Il conducente, un tizio alto con i capelli e il pizzetto bianchi, e occhi verdi accesi di curiosità, abbassò il finestrino. «Vi serve un passaggio?»

«Sì», rispose Sam.

E Remi aggiunse: «Sempre se il fango non è un problema».

L’uomo rise. «Quest’auto non è certo un salottino. Un po’ di sporco non le farà nessun male, ma sbrigatevi. Sta per ricominciare a piovere.»

Raggiunsero il lato opposto del veicolo, Sam si sedette davanti e Remi sul sedile posteriore.

«Grazie. Lo apprezziamo molto», disse lei.

«Non c’è di che. Mi si è bloccato il motore quando ho dovuto frenare di colpo per un maledetto boa in mezzo alla strada. Per fortuna ero in discesa.» Guardò Sam e poi di nuovo la strada. «Da queste parti non si vedono molti turisti.»

«Non abbiamo fatto un’escursione. Due uomini armati ci hanno portati qui con la forza da Kingston.»

«Vi hanno rapinati, vero? In quale zona di Kingston eravate?»

«Eravamo ai Jamaica Archives. È lì che è rimasta la nostra macchina.»

L’uomo lo guardò. «In genere i turisti non vengono rapiti negli edifici pubblici.»

«Non ha importanza, ormai. Hanno ottenuto quello che volevano. E... be’, noi siamo scappati. È questo che conta.»

«Esatto», disse Remi chinandosi per appoggiare una mano sulla spalla del marito.

«Lei quindi vive in Giamaica? O è qui solo in visita?» chiese Sam, dopo qualche attimo di silenzio.

«In visita. Un mio amico ha una piantagione di caffè. Tengo questa Jeep solo per andare nella sua tenuta. Nella stagione delle piogge, ci s’impantana su queste strade fangose.»

Per il resto del tragitto, discussero prima delle difficoltà del coltivare caffè e poi dei posti migliori in cui pescare intorno all’isola.

Quando arrivarono alla loro auto a noleggio, Sam verificò che non ci fossero gli uomini di Avery nei paraggi e si rilassò notando che non c’erano. Ringraziarono nuovamente il conducente della Jeep, chiedendogli di pagare il carburante o il disturbo.

«Non ce n’è bisogno», rispose l’uomo. «Dovevo comunque venire quaggiù per farmi installare un alternatore nuovo. Però, sono curioso: che tipo d’informazioni cercava quella gente?»

«Manifesti di carico navali del Seicento», disse Sam. «In particolare, quello che cercavamo noi mancava.»

«Be’, buona fortuna allora.» Inserì la marcia e fece per allontanarsi, ma poi si fermò bruscamente, sporgendo la testa dal finestrino. «Non so se può aiutarvi, ma mi è venuta in mente una cosa: potreste dare un’occhiata al Fort Charles Maritime Museum di Port Royal. Ha una notevole collezione di manufatti.»

«Grazie per il suggerimento», disse Sam. Lo ringraziarono ancora per il passaggio e, solo dopo che se ne fu andato, si resero conto di non essersi fatti dire nemmeno il suo nome.

L’escursione a Port Royal avrebbe dovuto attendere fino al mattino successivo. In quel momento avevano bisogno di una lunga doccia, di qualcosa di caldo da mangiare e di una notte di riposo. Inoltre, anche se Sam compì varie manovre diversive per assicurarsi che nessuno li seguisse, non si rilassò finché non furono al sicuro nella loro camera.

Per fortuna, nel minibar dell’albergo c’era una bella bottiglia di merlot argentino. Sam riempì due bicchieri e ne diede uno a Remi mentre si sedeva. Sollevò il proprio. «Ai salvataggi per il rotto della cuffia e ai buoni samaritani.»

Remi fece tintinnare il bicchiere contro quello di Sam. «E alla possibilità di trovare domani a Port Royal quello che cerchiamo.»

 

 

Port Royal, un tranquillo villaggio di pescatori, noto un tempo come la città più malfamata del mondo, era stato colonizzato inizialmente dagli spagnoli. Caduta nelle mani degli inglesi nel 1655, la possente città fortificata era diventata uno dei centri commerciali più ricchi del pianeta grazie ai famigerati legami con pirati e corsari, e forse lo sarebbe stata ancora a lungo se un fortissimo terremoto nel 1692 non l’avesse distrutta, facendone sprofondare in mare più di metà. I resti giacevano ormai sott’acqua, sepolti dal limo e dalla sabbia accumulatisi in tre secoli.

Una delle poche strutture superstiti era Fort Charles, che ospitava il museo marittimo. Sam e Remi pagarono il biglietto d’ingresso e si addentrarono nella fortezza di mattoni, sferzati dal vento di terra saturo di salsedine. Decine di cannoni di ghisa erano allineati lungo i parapetti ad arco, un tempo usati per proteggere la città. Il posto era quasi deserto e i loro passi riecheggiavano nel vasto cortile a mano a mano che si avvicinavano al vecchio ospedale navale che ora ospitava il museo.

All’interno erano esposti utensili di peltro e piatti, oggetti di vita quotidiana, oltre che raffinate sculture in giada provenienti dalla Cina, a testimonianza della ricchezza che un tempo aveva regnato a Port Royal.

«Guarda, Sam.» Remi indicò la fotografia di un orologio da taschino recuperato dall’acqua che segnava le undici e quarantatré, fermatosi presumibilmente nel momento in cui si era verificato il terremoto.

«Una scoperta straordinaria. Immagina cos’altro c’è ancora là sotto.»

«Se solo riuscissimo a convincere il governo giamaicano a darci il permesso di immergerci...»

«Una cosa alla volta, Remi. Prima, troviamo qualcuno che possa aiutarci.»

Due donne entrarono nella stanza da una porta laterale. La più alta si fermò ad accoglierli. «Buongiorno. Benvenuti al museo marittimo.»

«Buongiorno», disse Remi. «Ci chiedevamo se poteste aiutarci a cercare una cosa.»

La donna sorrise.

«Ci è stato detto che forse conservate copie di vecchi manifesti di carico navali. In particolare, degli anni tra il 1694 e il 1696.»

«No, mi dispiace molto. Avete provato agli archivi di Kingston?»

«Purtroppo, il libro era danneggiato. Ci avevano detto di dare un’occhiata qui.»

«Mi dispiace.»

La ringraziarono e lei si allontanò.

«Ci hai provato», disse Sam alla moglie. «Chissà se Selma ha scovato qualcosa nel frattempo.»

Parole vuote. Sapevano entrambi che Selma li avrebbe chiamati se avesse trovato qualcosa.

«C’è un risvolto positivo, però», aggiunse Sam.

«Davvero?»

«Ora possiamo finalmente prenderci quella vacanza.»

Remi sospirò e sorrise: nei suoi occhi la delusione era chiara. «Torniamo a casa.»

Mentre stavano per uscire, la seconda delle due donne incontrate prima andò loro incontro. «Ho sentito che state cercando vecchi manifesti di carico navali, giusto?» disse con voce bassa ma cordiale.

«Sì», confermò Sam.

«Ecco, l’archivio di Kingston aveva deciso di digitalizzare tutti i documenti, ma poi il budget è finito. Per fortuna, noi avevamo scannerizzato alcuni manifesti di carico prima che i soldi si esaurissero. Uno dei direttori sperava di realizzarne qualche riproduzione per il museo. Purtroppo, si tratta solo delle copie del periodo successivo al grande terremoto.»

Remi si mostrò speranzosa. «Successivo al terremoto? Quali anni?»

«Dal 1693 al 1696.»

«La prego. Ci piacerebbe molto dare un’occhiata», disse Remi.