«L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco ‘occupabili’, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro»: così parlò Enrico Giovannini, ministro del Lavoro del governo Letta il 9 ottobre del 2013.
I dati però dicono altro. Secondo quanto riporta il rapporto Noi Italia Istat del 2015, il numero di persone occupate che possiede un titolo di studio superiore a quello maggiormente richiesto per svolgere la propria professione ha continuato a crescere: l’ammontare complessivo nel 2015 è stato pari a 5.298.000 occupati, il 23,6% del totale (era il 23% nel 2014). Ancora una volta, la narrazione politica ignora la realtà e punta dritto verso la progressiva svalutazione del lavoro, ma anche della formazione.
E quindi che si fa? Si tolgono ore di formazione frontale nelle scuole e si obbligano gli studenti delle scuole secondarie superiori a lavorare gratis. C’è chi raccoglie cozze anche se a scuola va all’industriale, chi è iscritto a un liceo classico e fa fotocopie, chi fa le pulizie negli hotel perché studia lingue e sognava di fare l’Erasmus a Volvograd (la vecchia Stalingrado), chi prepara i cocktail in un bar. Poi c’è chi pulisce i giardinetti degli ospedali, rubando il lavoro agli immigrati.
Stiamo parlando dell’alternanza scuola/lavoro – versione 2015 –, «obbligatoria per tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori, anche nei licei: una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 (la ‘buona scuola’) in linea con il principio della scuola aperta. La scuola deve, infatti, diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Per questo, deve aprirsi al territorio, chiedendo alla società di rendere tutti gli studenti protagonisti consapevoli delle scelte per il proprio futuro. [...] L’alternanza favorisce la comunicazione intergenerazionale, pone le basi per uno scambio di esperienze e crescita reciproca. [...] In questa chiave si spiega il monte ore obbligatorio: 400 ore negli istituti tecnici e professionali e 200 ore nei licei che rappresentano un innovativo format didattico rispetto alle tradizionali attività scolastiche e possono essere svolte anche durante la sospensione delle attività didattiche e/o all’estero. Il nostro modello supera la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza ed altri che privilegiano l’esperienza pratica. Conoscenze, abilità pratiche e competenze devono andare insieme». Così viene definita dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca scientifica sul proprio sito dedicato1.
Purtroppo non è un brutto sogno, ma la realtà: per combattere la disoccupazione bisogna lavorare gratis. Ma a lavorare gratis ci vanno gli studenti, non i disoccupati. Anzi no, anche i disoccupati, a dire il vero, hanno il diritto di lavorare gratis, coinvolti nei progetti degli enti locali e del Terzo settore.
Mentre la domanda di lavoro langue sia per qualità e quantità, l’intuizione politica è esattamente quella di soddisfarla a costo zero. Perché è ormai noto che il problema dell’Italia è il (troppo elevato) costo del lavoro.
Gli studenti si abituino fin da subito all’obbligo di essere sfruttati. Il cambio di passo tra la scelta e la coercizione, cioè l’obbligo, è avvenuto con la «buona scuola», riforma promossa dal governo Renzi. L’alternanza scuola/lavoro infatti c’è sempre stata, fin dagli anni Settanta, quando ancora esistevano i consigli di fabbrica, ma anche le fabbriche che, almeno nell’immaginario collettivo, sembrano via via scomparse. Tutta un’altra storia, definitivamente cancellata dal d.lgs. 77/2005 che disciplina l’alternanza «come modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo, sia nel sistema dei licei sia nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, per assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro. Gli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età, salva restando la possibilità di espletamento del diritto-dovere con il contratto di apprendistato ai sensi dell’art. 48 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, possono presentare la richiesta di svolgere, con la predetta modalità l’intera formazione dai 15 ai 18 anni o parte di essa, attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa».
Un capitolo dolente, quello della scuola e del suo rapporto con il mondo del lavoro. Fin dalla riforma Berlinguer la scuola, come il resto della Pa, è stata trasformata progressivamente in un percorso funzionale al mercato, dove ogni cosa andava gestita in virtù del valore che avrebbe potuto assumere in termini di mercato: il sapere come capitale umano, la scuola e l’università come un’azienda il cui obiettivo è il pareggio di bilancio, la ricerca come affermazione del merito, brevettabile, capitalizzabile. Tutto questo risponde pienamente all’idea di Stato e di bene pubblico, antitetico alla giustizia sociale e alle possibilità di riscatto, che ci ha restituito il neoliberismo. Afferma Nicos Poulantzas: «Gli apparati statali, tra cui la scuola in quanto apparato ideologico, non creano la divisione in classi, ma vi contribuiscono in tal modo alla sua riproduzione allargata»2.
La retorica, tutta ideologica, assurta a difesa dello smantellamento dell’istruzione pubblica è stata quella del merito, la stessa che imperversa in tutta la società, in modo sempre più feroce. È l’idea dell’uomo solo al comando della propria vita il quale, dotato di qualche risorsa o opportunità agli inizi della vita o della carriera, è il solo responsabile della propria affermazione. Ciò che conta è esclusivamente il proprio impegno.
Dal quadro ideologico ai fatti. L’Italia è nel 2016 il paese europeo che spende meno in istruzione: il 4,2% del Pil nel 2013 contro una media europea del 5,3% e un massimo della Svezia col 7,3%. Tra il 2008 e il 2013 la spesa è diminuita del 14%, riporta l’Education at a Glance dell’Ocse del 2016. Per ciascuno studente, in Italia si spendono in media 4.300 euro all’anno contro i 6.200 euro della Germania e i 21.000 euro della Norvegia – secondo i dati Eurostat aggiornati al 2014. L’Italia era al penultimo posto – subito prima del Sudafrica – tra i paesi Ocse già nel 2013 per spesa in università (ricerca esclusa) con lo 0,8% del Pil. Per non parlare di quel che accade nel settore della ricerca, che merita un discorso a parte. A questo drammatico disinvestimento, aggravatosi di anno in anno, si aggiungono le riforme della scuola incentrate sul merito, sulla valutazione, ma soprattutto sull’odio verso la conoscenza, il sapere come bene in sé, utile a orientarsi nel mondo, a criticarlo, a sviscerarlo e magari pensarlo diverso.
Il problema allora non è che gli italiani siano poco «occupabili». Il problema è che il 75% degli italiani risulta analfabeta funzionale: non capisce ciò che legge. Ancor più preoccupante è che l’Italia registra un elevato tasso di abbandono scolastico (19,2% nel 2009, sceso di poco, al 17%, nel 2013), associato a un calo delle immatricolazioni all’università.
Andando un po’ più a fondo nei dati, emerge chiaramente che l’abbandono scolastico e la mancata iscrizione all’università non sono fatti casuali, non dipendono dalle competenze e dal merito, non colpiscono tutti allo stesso modo. Sono fenomeni che si abbattono sugli strati sociali meno abbienti, di estrazione popolare o immigrata. Per loro, da un lato, i crescenti costi dell’università sono diventati proibitivi – aumento delle tasse e riduzione del diritto allo studio – e, dall’altro, il peggioramento delle condizioni materiali della famiglia di provenienza ha richiesto l’aumento dell’intensità lavorativa, a qualunque costo. Non c’è nulla di anacronistico, sono i proletari, bellezza!
Sono gli stessi che con maggiore probabilità frequentano gli istituti tecnico-professionali e per i quali l’alternanza scuola/lavoro prevede 400 ore di attività lavorativa (anziché le 200 dei licei). Oltre il danno anche la beffa: la scuola pubblica come diritto universale funge da strumento a supporto dell’idea di poter compiere nella società uno sviluppo che integri la giustizia sociale, sostenendo la parte più debole, svantaggiata e quindi vulnerabile, attraverso il sapere e la conoscenza, indiscutibili armi di riscatto e libertà. Nel momento in cui la funzione della scuola è svuotata del potenziale della cultura, e ciò avviene proprio a discapito di chi ne ha maggiormente bisogno e non può permettersi di procurarselo altrove, allora è lecito affermare che si sta compiendo una lotta di classe dall’alto verso il basso.
«Ma tanto quelli come noi, non ci arriveranno mai... Hai mai sentito dire te d’un figlio di un operaio che diventa astronauta?»
«Sì, proletari nello spazio!» (Tutti giù per terra, regia di Davide Ferrario, 1997).
In realtà, anche quella fascia di popolazione che per anni è andata in giro definendosi o lasciandosi definire ‘classe media’ ha subìto potentemente gli effetti della crisi e del deteriorarsi delle protezioni sociali, tra cui il diritto all’istruzione, ma non è riuscita a scorgerne le cause e gli obiettivi. La riduzione degli investimenti per la scuola e l’università, lo spostamento della spesa dalla periferia al centro, l’introduzione di criteri di ingresso basati su una valutazione classista3 come quella del merito hanno tutti come unico obiettivo quello di restringere il diritto allo studio e alla conoscenza a una nicchia sempre più esigua della società. Da diritto universale diventa privilegio basato sul censo. Solo così l’idea secondo cui le diseguaglianze nel mercato del lavoro dipendono fortemente dalla differenza tra titoli di studio conseguiti può trovare conferme. Invece, fin qui, la realtà mostra ben altro. Ad esempio, il differenziale nei salari settimanali tra chi ha una laurea e chi la licenza media si riduce drasticamente, passando da 1,92 volte nel 1991 a 1,61 nel 2013. La distanza tra chi ha una laurea e chi un diploma di maturità, già ridotta in partenza rispetto alla precedente, diminuisce da 1,49 a 1,37. Ciò accade per una riduzione delle retribuzioni dei laureati, non per un miglioramento di quelle relative a lavoratori con livelli di istruzione inferiore.
Inoltre, nel mercato del lavoro italiano, le diseguaglianze nei redditi da lavoro dipendono soltanto per il 2,5% dalla differenza tra livelli di istruzione, mentre la quota di diseguaglianza che si esprime a parità di titolo conseguito aumenta dal 17,5% del 1991 al 23,5% del 20134. Il resto dipende da altre circostanze5: primo fra tutti il background familiare, il luogo in cui si vive – che è spesso legato al primo fattore citato –, le capacità sviluppate nel tempo e acquisite grazie alle possibilità messe in campo dal contesto socio-economico in cui si è cresciuti. Oppure, da un altro fattore strettamente connesso con la cultura e la retorica del merito, che da strumento di selezione antisociale si fa espressione del dominio dell’impresa e dell’ubbidienza del lavoratore.
Per dirla con le parole di Bruno Trentin, «con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al ‘merito’ (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il ‘sapere fare’, valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. [...] Nella mia attività di sindacalista ho scoperto la funzione antisindacale degli ‘assegni’ o ‘premi’ di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni Settanta la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa»6.
Sono valutazioni quanto mai attuali, soprattutto in un contesto caratterizzato dal ricatto occupazionale e dall’assenza di tutela reale, prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua versione originale.
A quanto detto bisogna aggiungere almeno due ulteriori ragionamenti. Il primo riguarda la visione del mondo del lavoro domani: in che modo le scelte di politica economica, così come quelle relative al mondo dell’istruzione, si apprestano ad affrontare trasformazioni caratterizzate da dosi massicce di automazione? Il secondo fa riferimento al ruolo delle imprese nel processo attuale e futuro.
Sul primo punto, basta rendersi conto di quali siano le aziende che hanno beneficiato maggiormente dell’alternanza scuola/lavoro. Sono elencate nella sezione del programma intitolata I campioni dell’alternanza: Accenture, Bosch, Consiglio Nazionale Forense, Coop, Dallara, Eni, Fondo Ambiente Italiano, Fca, General Electric, Hpe, Ibm, Intesa Sanpaolo, Loccioni, McDonald’s, Poste Italiane e Zara, «per un totale di circa 27.000 posizioni di alternanza messe a disposizione per questo anno scolastico solo da questi partner». Di questi, fino a un massimo di 10.000 saranno «accolti» da McDonald’s, che punta a sviluppare le soft skills degli studenti, cioè quelle competenze «di carattere relazionale e di comunicazione interpersonale che sono fondamentali per approcciare al meglio il mondo del lavoro e che sono riconosciute oggi come una delle mancanze principali nei giovani», come si legge sul sito dell’azienda. Di che si tratta esattamente? Christian Raimo per «Internazionale» l’ha chiesto all’azienda, che ha provato a chiarire: gli studenti «si occuperanno di assistere i clienti in diverse fasi della loro permanenza nel ristorante». Li aiuteranno cioè nel fare gli ordini con i nuovi totem, dei grandi iPad, altri «affiancheranno le hostess che si occupano di gestire le feste di compleanno, e questa potrebbe essere una parte molto adatta per chi fa l’istituto psicopedagogico: far giocare i bambini e assistere i genitori nella loro permanenza nel ristorante».
Camerieri e babysitter, oppure commessi, come coloro che andranno a lavorare da Zara. Posizioni che verranno incrementate per il prossimo triennio, assicura il ministro in una dichiarazione che suona come una minaccia, un incubo. Contemporaneamente si rafforza la funzione disciplinatrice e del lavoro come dovere a prescindere, anche quando la funzione produttiva di per sé non esiste. È l’esperienza vissuta dagli studenti che si incontrano ad esempio negli aeroporti, stanno lì a guardare la fila dei viaggiatori pronti per i controlli: hanno il compito di assistere ma nei fatti stanno in piedi senza poter fare nulla. Un turno da sei ore trascorso a guardar la gente sfilare. Inutile indagare il contenuto formativo, così come risulta improbabile rintracciare l’utilità in termini di avvicinamento al mondo del lavoro, quando il contenuto del lavoro non esiste neppure.
1 Cos’è l’alternanza, http://www.istruzione.it/alternanza/cosa_alternanza.shtml.
2 N. Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, Etas, Milano 1975.
3 «I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio ‘sufficiente’), lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi). Le migliori performance delle ragazze riducono (senza annullarle) le differenze sociali: la quota di chi ha conseguito la licenza media con ‘ottimo’ nelle famiglie operaie cresce dal 5,8% dei maschi al 18,2% delle femmine; se il capofamiglia è dirigente, imprenditore o libero professionista si va dal 20,4% dei maschi al 38,5% delle femmine» (La scuola e le attività educative, Istat, Roma 2012, https://www.istat.it/it/archivio/71706).
4 M. Raitano, evidenze presentate in occasione dell’Assemblea Nazionale Flc-Cgil a Roma il 10 marzo 2017.
5 W. Worley, It’s Better to Be Rich and Mediocre than Poor and Bright in the UK, Admits Education Secretary, in «The Independent», 31 marzo 2017 (http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/pupils-rich-families-talented-poorer-children-education-secretary-justine-greening-equality-a7659346.html).
6 B. Trentin, A proposito di merito, in «l’Unità», 13 luglio 2006.