Molto tempo è passato, così tanto che la gente si è ormai abituata alla guerra. Altre carneficine hanno sbiadito il ricordo del Basson, e anche a quelle si è fatta l’abitudine. I fanti escono dalle trincee per andare all’assalto con dipinta sulla faccia la rassegnazione degli animali mandati al macello. E anche quando capita che, a costo di spaventose perdite, si riesca a conquistare la trincea nemica, dopo qualche giorno gli austriaci se la riprendono, e così tutti quei morti non sono serviti a nulla. Il 24 settembre 1915, trigesimo dell’assalto al Basson, Gabriele d’Annunzio ha tenuto un discorso sul campo, davanti a quel che restava del Centoquindicesimo reggimento. Ha parlato di patria e alti ideali, ma intanto davanti agli occhi dei superstiti sfilavano i volti dei compagni che, inghiottiti dalla battaglia, non avevano più fatto ritorno. Il 26 agosto, invece, poche ore dopo la carneficina, Cadorna aveva firmato un bollettino di guerra nel quale, astutamente, non faceva alcun riferimento al Basson. Lo stesso giorno, Il Gazzettino riferì laconicamente di passi avanti nel settore della Valsugana e di non meglio precisati successi nell’Alto Isonzo.

La notizia del massacro sul Basson si diffuse invece tra la popolazione del Veneto di borgo in borgo, con silenziosa e mesta apprensione perché, da Pordenone a Treviso, molte erano le famiglie che avevano qualcuno nei reggimenti coinvolti. Sulle prime si parlò di un numero consistente di prigionieri e dispersi italiani, e di relativamente pochi caduti rimasti sul campo. Poi, col passare dei mesi, quasi che la tragedia potesse essere assimilata poco a poco, come un veleno, il numero dei primi iniziò a diminuire, mentre la conta dei morti raggiungeva l’orribile, definitiva misura di 1048 fanti e 43 ufficiali caduti.

Alla bandiera del Centoquindicesimo Treviso, effimera consolazione, sarebbe stata assegnata, a conflitto ormai concluso, la medaglia di bronzo, secondo la seguente motivazione: «Per l’ardimento e la sprezzante fierezza dimostrati in un’aspra giornata di battaglia dai suoi mirabili fanti, che pugnavano e stoicamente cadevano attorno alla bandiera sventolante nel più folto della mischia». Le ossa dei caduti, ancora disperse nei piccoli cimiteri di guerra dell’altopiano, risposero senza parlare, con l’altero e composto silenzio dei morti.

Italo Ardenghi giaceva nel suo letto nella camerata numero 12 dell’ospedale di Sant’Artemio a Treviso. Il 1916 stava ormai morendo, quindi era passato più di un anno dalla notte del Basson, ma per lui il tempo si era fermato. Dopo essere stato sommariamente medicato al momento del suo rientro nelle linee italiane, era stato trasferito all’ospedale da campo nelle retrovie, dove la ferita al capo era stata suturata. I medici dissero che, probabilmente, si era trattato di un colpo di vanghetta ricevuto nel corpo a corpo, e la zolla di terra, che gli era rimasta appiccicata al cranio quando era stramazzato al suolo, l’aveva miracolosamente salvato dall’emorragia. Si stupirono del fatto che, chissà per quale caso, non si fosse sviluppata un’infezione, un flemmone gassoso che l’avrebbe ucciso in pochi giorni.

Dopo l’arrivo all’ospedale da campo, per settimane era rimasto immobile e muto, sdraiato sulla sua brandina; a volte digiuno, altre imboccato dai compagni o da qualche infermiere mosso a compassione. Mai aveva abbandonato lo stato di stupore catatonico che rendeva il suo sguardo fisso e vuoto come quello di un pupazzo. Non rispondeva alle domande dell’ufficiale medico, non reagiva ad alcuno stimolo. Soltanto quando il rombo del cannone rotolava giù dal vicino passo, da sotto la coperta lo si sentiva borbottare parole incomprensibili, una lunga litania che nessuno riusciva mai a decifrare. Le sue mani, e poi le gambe, iniziavano allora a tremare, tanto che in quei momenti era necessario trattenerlo con la forza. Alla fine, scongiurata l’infezione e considerato che la sua vita non era in pericolo, fu trasferito al manicomio militare. Dietro di lui si chiusero così i cancelli del Sant’Artemio.

Già in quei primi mesi di guerra, non pochi soldati erano stati colpiti da forme di incontrollabile nervosismo, demenza o conclamata pazzia. Si verificarono sempre più frequentemente casi di psicosi isteriche, mutismo, paralisi psicomotorie e allucinazioni. Qualcuno regrediva allo stato infantile e finiva per rivolgersi ai superiori come al padre o alla madre, altri si denudavano e correvano verso le retrovie; altri ancora se ne stavano in un angolo, con la testa incassata tra le spalle, quasi a volersi proteggere dai colpi del nemico; o raggomitolati sotto il loro telo, le braccia incrociate sul ventre, parlavano a voce bassa, con tono quasi impercettibile, lo sguardo perso nel vuoto. Poi, improvvisamente, scoppiavano a piangere come bambini, e il loro pianto risuonava nella trincea suscitando prima ilarità e poi profonda, impotente compassione. I più fragili erano gli ufficiali, soprattutto quelli inferiori, che sentivano sulle spalle la responsabilità degli uomini a loro affidati, schiacciati tra il dover eseguire ordini che essi stessi ritenevano assurdi e far rispettare la disciplina. A volte sconvolti al pensiero di non aver fatto il loro dovere fino in fondo o aver mandato a morire inutilmente i propri soldati. Per tutti gli alienati si trattava di estraniarsi dalla guerra, sfuggire all’orrore, rifugiarsi in un mondo popolato di fantasmi, incubi e paure, ma pur sempre migliore della realtà.

Al suo arrivo al Sant’Artemio, Ardenghi fu visitato da un capitano medico al quale apparve subito evidente che il giovane ufficiale che aveva davanti non era certo un simulatore. Lo trovò in buone condizioni fisiche, ispezionò la ferita togliendo le bende che ancora la coprivano, ma quando si trattò di interrogarlo, non riuscì a cavare dalla sua bocca serrata una sola parola. Si accorse poi che Ardenghi teneva i pugni talmente stretti che le unghie avevano scavato profonde ferite sul palmo delle mani. Così le mani furono medicate, bendate e imbottite con diversi strati di bambagia. Ardenghi si lasciò poi docilmente condurre al letto che gli era stato assegnato. Rimasto solo, il capitano medico compilò la cartella clinica e scrisse: «Allievo tenente Ardenghi Italo, anni venti, appartenente al Centoquindicesimo reggimento Treviso. Profonda ferita all’occipite destro provocata da corpo contundente nel corso dell’assalto al fortino del Basson la notte tra il 24 e il 25 agosto 1915. Perduti i sensi, è giaciuto per quarantotto ore tra i cadaveri e ritenuto morto. Successivamente risvegliatosi, pare spontaneamente, dallo stato di incoscienza, seppure in istato confusionale, raggiungeva le nostre linee. Medicato sommariamente e tradotto all’ospedale da campo n. 103 in località Schio, dove gli venne suturata la ferita, fu tenuto in osservazione, indi trasferito in codesto ospedale. Presenta costituzione regolare, apparato scheletrico e muscolare regolari, apparato uditivo apparentemente in buone condizioni, polso teso, battito aumentato, forte cardiopalmo, tremori agli arti superiori e inferiori soprattutto in presenza di forti sollecitazioni acustiche. Dal momento del ferimento, pare non abbia più proferito parola. Non si nutre spontaneamente e deve essere imboccato».

Così Ardenghi viveva da più di un anno immobile nel suo letto. Nelle prime settimane di ricovero ci furono degli improvvisi scatti violenti, atti di rivolta che sfociavano in tentativi di fuga lungo gli interminabili corridoi dove i matti passavano le ore soprattutto nelle giornate di pioggia, quando non potevano uscire all’aperto. Semplici parapiglia, a cui la vita al Sant’Artemio presto abituava, e a cui gli altri degenti assistevano con occhi vuoti, senza intervenire né parteggiare. Residui di quella vitalità che in Ardenghi si andava ormai spegnendo, episodi presto sedati dall’applicazione delle fascette che lo costringevano al letto, spesso coricato sulle sue stesse feci. Ma presto anche le deboli ribellioni cessarono, e Ardenghi ricadde in quello stato di catatonica assenza in cui la guerra, ormai padrona del suo destino, aveva voluto relegarlo. Giaceva immobile e muto, insensibile a quasi ogni stimolo, lo sguardo fisso nel vuoto, indifferente alle stagioni e al passare del tempo; vivo, forse, soltanto nel tumulto dei pensieri che si agitavano ancora dietro la sua fronte. Dal suo apparente torpore si ridestava quietamente soltanto quando qualcuno allungava verso la sua bocca il cucchiaio o un tozzo di pane, che ingoiava con famelica voracità. Il più assiduo tra coloro che si prendevano cura di lui era un uomo dall’età indefinibile che tutti chiamavano “lo Spettro”, la cui pelle diafana e trasparente come una pergamena era così tesa sulle ossa da poterne fare un modello vivente per lezioni di anatomia. Lo Spettro consumava in fretta il suo pasto nel refettorio e poi, ritirato dai cucinieri il piatto di Ardenghi, si apprestava a nutrirlo, seduto accanto al suo letto, paziente come una madre, salvandolo così dall’orrore dell’alimentazione forzata. Gli infermieri, ben felici di essere sollevati dall’incombenza, lasciavano fare. Anche la sua era una vita di silenzi, figlia di quel mutismo che gli era colato addosso, apparentemente ignara che all’uomo fosse stata offerta in dote la favella. Dal giorno del suo ricovero lo Spettro aveva sempre camminato, giorno e notte, salvo rari momenti in cui cadeva esausto dove capitava, per rialzarsi spontaneamente appena le forze facevano ritorno. Nudo sotto al solo camiciotto, percorreva instancabile i corridoi e i giardini, le altre camerate e le scale, senza un gesto che non fosse il semplice sospingere innanzi a sé il suo stesso passo. Anche lui era vittima della guerra, e se qualcuno avesse potuto leggere nello scrigno oscuro del suo passato, l’avrebbe scoperto caporale dei bersaglieri, unico sopravvissuto allo scoppio di una bombarda piovuta, per chissà quale caso, proprio nella sua trincea. Salvo e quasi sepolto dalla terra rossa del Carso, mentre attorno ricadevano in brandelli i corpi dei compagni macellati.

Il manicomio era un luogo in cui tempo e spazio sembravano annullati, dove odori e rumori avevano il sopravvento su ogni umana percezione. Le urla dei dementi, le imprecazioni degli alienati e persino il pianto mugugnante dei malinconici intonavano un macabro e perpetuo inno alla follia, che tra quelle mura comandava a bacchetta. I matti si muovevano, ognuno attorno alla propria orbita, obbedendo a ordini misteriosi, quasi che un burattinaio tenesse tra le mani i fili a cui erano collegate le loro braccia, le mascelle ormai senza parole, gli sguardi fissi a terra o spavaldamente puntati in faccia a chissà quale nemico. Un mondo rovesciato, che alla notte si tramutava in sabba infernale quando, con il favore delle tenebre, i fantasmi di ognuno arrivavano in visita. Tra i letti di ogni camerata si illuminavano allora i volti dei compagni scomparsi e i loro corpi martoriati. Si riviveva l’orrore del bombardamento, quando si restava immobili e senza riparo alcuno, pregando Iddio che il colpo cadesse su un’altra trincea. Quasi che l’Onnipotente potesse favorire una sua creatura a scapito di altre. Riecheggiavano i clangori della battaglia, i momenti crudeli dell’assalto e del corpo a corpo, e si rinnovavano i gesti e le imprecazioni. Con violenza vera, paura vera e sudore vero che, scomparsi gli antichi nemici con la fuga delle tenebre, tramutavano lenzuola e coperte in un madido sudario.

I militari colpiti da squilibrio mentale rimanevano al Sant’Artemio in osservazione tre mesi, poi veniva deciso il loro destino. Se le loro condizioni erano accettabili, venivano inviati a casa in licenza e, se anche i familiari confermavano la guarigione, rimandati poi al corpo di appartenenza, e da lì in trincea. Per coloro che soffrivano ancora dei problemi mentali che li avevano portati al ricovero, la degenza sarebbe continuata, forse per mesi, per anni o per sempre. Davanti ai simulatori, invece, si sarebbero spalancate le porte del carcere. Molti lasciarono il manicomio in quel periodo, spesso perché la guerra chiamava, così tornavano al fronte persino coloro che non erano completamente guariti. Anche nella camerata numero 12, molti letti rimasero vuoti.

Il padre di Ardenghi si presentava in visita puntualmente ogni domenica, con ogni tempo e in ogni stagione; togliendo le pesanti calosce infangate prima di salire le scale in inverno e asciugandosi la fronte con un candido fazzoletto in estate.

Il tram della linea 1 lo lasciava all’inizio del lunghissimo viale del Sant’Artemio che tagliava a metà la campagna, e poi a piedi, passo dopo passo, raggiungeva il cancello e si faceva riconoscere in portineria.

«Buongiorno, signor Ardenghi».

«Buongiorno, Arduino».

Attendeva che lo facessero passare e poi, composto, in silenzio, saliva lo scalone con la sua sporta: frutta, qualche dolce o cioccolato, perché altro non si poteva.

Impossibile cancellare dalla sua memoria il ricordo del giorno in cui, il primo di settembre dell’anno prima, il Corriere della Sera aveva pubblicato un articolo sulla battaglia del Basson nel quale, celata appena dal pomposo titolo, si poteva leggere in filigrana la reale entità del massacro. Ma Vittorino, che sapeva scovare la verità tra le righe scritte dai giornalisti addestrati dalla propaganda, capì e non parlò. Svelto nascose il giornale appena vide l’amico varcare, come ogni giorno, la soglia dell’osteria, ma la notizia era ormai di pubblico dominio e tutta Treviso ne parlava. La certezza sulla sorte del figlio venne però in seguito, dopo un’altalena di silenzi, speranze e disperazione, come era d’uso in simili occasioni: attraverso un conoscente impiegato al distretto cittadino che, con infiniti giri di parole, raccontò.

Durante le sue visite domenicali il vecchio parlava di tutto: dell’infanzia lontana e di quella del figlio, così recente, del tempo e delle piccole cose di ogni giorno, e persino del futuro, con temeraria, irragionevole speranza. I lunghi monologhi, che intesseva con instancabile pazienza, seduto accanto al letto di Italo immobile e assente, toccavano ogni argomento possibile, fatuo o reale, meno che la guerra, quasi si trattasse di un esorcismo o di uno scongiuro che, presto o tardi, avrebbe potuto ridare la ragione al figlio. Parlava, parlava per ore senza mai spezzare la catena del discorso, nella speranza che un ricordo, un’immagine, una semplice parola potessero, alla fine, ridare vita al pensiero di Italo. Perché lui, a dispetto di quanto dicevano i medici, era sicuro che sarebbe guarito. Alla fine della giornata gli deponeva un bacio sulla fronte e, composto come era venuto, se ne andava con la sporta vuota.

I matti guardavano la pioggia come fanno i gatti, indifferenti. Certi restavano immobili per ore, l’occhio perduto in quell’infinito gocciolare. Difficile dire se dietro a quello sguardo covasse ancora la scintilla dell’intelletto; impossibile scoprire se, mentre inesorabile la vita sgranava il lento rosario dei giorni, pensassero a qualcosa. Da quando gran parte dei ricoverati era partita, i “temporaneamente inabili” rientrati in famiglia e i simulatori smascherati, spediti al carcere militare, la camerata era rimasta quasi vuota. Lontana dal reparto agitati, rigurgitante anime dannate in eterno subbuglio, vi regnava una tranquillità quasi innaturale. Così, un visitatore che fosse arrivato solo allora al Sant’Artemio non avrebbe potuto credere che fino a qualche settimana prima tra quelle stesse mura potesse ribollire tanta disperazione. Rimanevano gli alienati, occhi da bambino, tremori impossibili da controllare, scatti improvvisi che rompevano l’equilibrio a fatica raggiunto. Poveri fagotti di sofferenza che non sapevano né potevano più dire o raccontare. Essi stessi fuggivano lungo i corridoi, in preda a sinistri terrori, quando dal reparto vicino arrivavano le urla dei rinchiusi. O i lamenti più forti della contenzione, così simili a quelli che erano stati costretti a udire dopo la battaglia, quando i compagni feriti, abbandonati nella terra di nessuno, invocavano invano soccorso o la pietà di una pallottola che ponesse fine alle loro sofferenze.

Nella camerata 12, oltre ad Ardenghi e allo Spettro, sopravviveva una mezza dozzina di ricoverati, poveri cristi per lo più tranquilli e spesso silenziosi, ognuno con accanto i suoi fantasmi e la sua storia. C’era un giovanissimo granatiere a cui bastava intravedere un estraneo varcare la soglia per mettersi a tremare e fuggire in preda al terrore. E un caporale di artiglieria, suo vicino di letto, risparmiato dai gas sul San Michele, che salmodiava ossessivamente la frase stampata sul fodero della maschera antigas e, più indelebilmente, nella sua mente perduta: «Chi si leva la maschera muore!». La ripeteva notte e giorno, senza requie, a volte quasi gridata, altre sottovoce, come una lunga, inarrestabile e lugubre cantilena. Nel letto accanto, un minuscolo fante calabrese, sempre rannicchiato in un angolo, che covava in grembo, come una creatura, la sua scatola di pan biscotto mandata da casa. A chiunque gliene chiedesse, rispondeva con un ringhio ritraendosi; ne porgeva qualche pezzo solo al direttore, come se ne fa dono a un messia. Poi presto richiudeva il suo scrigno e ci si raggomitolava sopra.

Nelle belle giornate, i ricoverati più miti, ai quali era stata prescritta l’ergoterapia, ovvero la cura del lavoro, uscivano la mattina presto e a piccoli gruppi si disperdevano nella campagna circostante. L’impegno, la sana stanchezza e l’applicazione allontanavano il delirio, e gli facevano riacquistare fiducia nelle loro forze e nell’esistenza. Ogni tanto, qualcuno lasciava cadere la vanga e si incamminava verso chissà dove, forse verso il piccolo cimitero di guerra dove lo aspettavano tanti compagni. O verso quei reticolati lontani, dove erano rimasti impigliati i suoi pensieri, strappati dallo scoppio di una granata o dalla lama di una baionetta. Allora un sorvegliante, a volte uno stesso compagno, lo andava a riprendere. Li si vedeva parlare, laggiù: il fuggitivo ascoltava a capo chino, docile, come un bambino pentito e poi, una mano sulla spalla, tornavano indietro. Quindi, raccolta la vanga, il lavoro riprendeva. Con lo stesso sguardo vuoto, le braccia incrociate sul manico del badile come fanno i contadini, i matti assistettero un giorno a un fatto curioso e a loro incomprensibile. Un insospettabile simulatore, portato nei campi su ordine del direttore per vedere se il sole e l’aria potessero essere medicina per il suo animo, fu scoperto a trafficare aggrappato alla rete che lo divideva dal reparto femminile. La sua attenzione era stata attratta da una delle ricoverate che, china tra i solchi, era intenta a raccogliere la verdura. Agli infermieri accorsi alle sue spalle apparve subito chiaro che quanto proponeva alla donna, per astuzia e strategia, non era certo cosa da matti. Fu così smascherato e rimandato al reggimento. Morì qualche mese più tardi, fucilato dopo la rotta di Caporetto quando, abbandonata in un fosso l’arma di reparto, cercava di salire, pistola in pugno, sul carro di una famiglia di civili in fuga.

Ma per Italo tutto questo non esisteva. Aveva ormai imparato a espletare da solo le poche incombenze che, quotidianamente, l’igiene gli imponeva. Era stato lo Spettro a convincerlo a ridare dignità al suo corpo, con che argomenti e con quali parole, lui che era muto dal momento dello scoppio della bombarda, non è dato saperlo. E i medici si compiacquero a lungo di quel piccolo ma importante passo in avanti. Ardenghi seguitava però a essere imboccato perché, un giorno in cui si lasciò trasportare quasi di peso al refettorio dai compagni, al rumore di un piatto di alluminio caduto a terra iniziò a tremare, tanto che le gambe non lo ressero più. Cadde pesantemente tra le tavolate e poi, per giorni, rimase raggomitolato su se stesso come un riccio, la coperta tirata fin sopra la testa e digiuno, trascurando per settimane quanto aveva imparato.

Al di là dei cancelli del Sant’Artemio, intanto la guerra continuava a falciare vite. La chimera di un conflitto che si sarebbe concluso, come disse chi cercò di rassicurare l’ormai stanco Francesco Giuseppe, «prima che le foglie cadano» si era ormai dissolta, cancellata dalla nera ardesia della storia da un inarrestabile lavacro di sangue. Un rosso, infinito compianto che dalle trincee della prima linea scendeva nelle valli, disperdendosi nei borghi e nelle città, ovunque ci fosse una madre o una sposa in attesa. Avevano promesso una guerra facile, rapida e quasi indolore: cavalleresca, come l’avrebbe voluta d’Annunzio, e futurista, come la delirava Marinetti, per il quale persino la mitragliatrice, nuova orrenda falce della battaglia, era bella perché moderna.

Ma la guerra vera, intanto, declinava in ogni possibile modo le sue armi: dai gas asfissianti alle barbare mazze ferrate con cui si finivano gli intossicati; dagli aeroplani alle tagliole nascoste nella vegetazione, dai disperati assalti alla baionetta alla guerra di mine, con cui i soldati italiani, dopo mesi di scavo, nella notte del 17 aprile del 1916 fecero saltare con cinque tonnellate di gelatina la cima dell’imprendibile Col di Lana. La mattina del 15 maggio, l’irriducibile Conrad von Hötzendorf scatenò quella che passò alla storia come la Strafexpedition, ovvero la “spedizione punitiva” contro l’ex alleato italiano, reo di aver tradito la Triplice Alleanza. Su un fronte di quaranta chilometri, dalla Val Lagarina alla Valsugana, gli eserciti imperialregi avanzarono facendo risuonare il passo dei loro scarponi chiodati tra le valli, e poi giù, tra le macerie di Asiago. Ma la resistenza e il veloce contrattacco italiano arginò l’avanzata, ridimensionando l’offesa e decretando la fine del prestigio di Conrad. Una pagina di storia ormai ingiallita, costata la vita a più di duecentotrentamila esseri umani.

Nel primo pomeriggio dell’8 agosto 1916, i fanti della Brigata Pavia guadarono l’Isonzo, ne risalirono l’argine ed entrarono guardinghi a Gorizia. Dopo sei sanguinosissime battaglie, la Nizza dell’impero austroungarico, alla fine, fu presa. Mentre il sottotenente Baruzzi innalzava il tricolore sulla stazione ferroviaria, chi era rimasto in città assisteva senza entusiasmi. Nei rari caffè ancora aperti si ripiegavano i quotidiani e, deposte le tazzine, si usciva in strada a veder arrivare gli italiani.

Gorizia aveva seguitato a vivere sotto i bombardamenti, ostentando sovente una calma che poco aveva di italiano. Quel pomeriggio nessuno acclamò i nuovi occupanti, e pochi si infervorarono alla vista del tricolore; forse il pensiero andò ai molti concittadini combattenti nelle fila dell’esercito austroungarico. Gli austriaci, intanto, si erano ritirati sulle alture circostanti, dove altri reticolati e trincee inespugnabili attendevano gli italiani. La presa della città fu una vittoria di poco valore strategico, ma di grande peso per la propaganda, perché si trattava della prima vera e propria avanzata delle truppe di Cadorna in territorio austriaco.

Il passaggio di consegne tra il vecchio anno e il 1917 avvenne con poco strepito; i fanti brindarono senza allegria, e altrettanto fecero gli austriaci dall’altra parte della terra di nessuno. Ma il 14 gennaio un boato rimbombò nel cielo del Passo Valparola, quasi che le montagne si volessero rivoltare davanti a tanto sangue versato: gli austriaci avevano fatto saltare la roccia per bloccare il tentativo italiano di minare le loro posizioni ritenute imprendibili. Picconi e perforatori ormai trivellavano quotidianamente le Dolomiti, inaugurando una guerra di mine e contromine; una guerra di talpe, infida e sotterranea. Tra maggio e settembre gli austriaci tentarono di far saltare anche la Cengia Martini ma, nonostante i loro sforzi, il presidio italiano rimase la spina nel fianco nella difesa del Lagazuoi Piccolo, fino ai tragici giorni di Caporetto.

Nel gabinetto del medico di reparto, Ardenghi aspettava docilmente il momento della sua visita. Nulla di nuovo era accaduto, si trattava soltanto di un controllo periodico a cui tutti i degenti venivano sottoposti una volta al mese. Su di lui, ormai da tempo, non veniva tentata più alcuna cura: certo per la sua tranquillità, quasi che l’amorfo dipanarsi del suo vivere lo mettesse al riparo da interventi dai risultati incerti, ma probabilmente anche per la refrattarietà del suo stato, insensibile a ogni terapia. L’ultimo tentativo era stato fatto sei mesi prima quando, come di prassi, fu sottoposto a cure febbrigene, sulle quali si facevano all’epoca le prime esperienze. Sotto le ascelle e all’inguine dei malati venivano poste delle zanzare portatrici della malaria; l’infezione che ne derivava provocava degli accessi di febbre altissima e convulsioni che, stando al parere degli psichiatri, avrebbero dovuto mettere in fuga ogni delirio. Ardenghi ne uscì prostrato, forse ancora più inebetito, senza che nessun miglioramento fosse sopraggiunto.

Era di turno quel giorno il vecchio dottor Borletti, benevolo e pacato, che prese in consegna il giovane tenente dalle mani dell’infermiere e lo introdusse nello studio.

«E allora, Italo, come stai? È un pezzo che non ci si vede».

Ardenghi non sapeva rispondere, e si limitava a dondolare il corpo incerto da una gamba all’altra socchiudendo gli occhi, provando forse fastidio per la luce che filtrava attraverso le persiane. Il dottore lo fece stendere, e lui si compose lentamente sul lettino, come avrebbe fatto un vecchio o un artrosico, eppure aveva soltanto ventidue anni. Poi gli sollevò la camicia e auscultò cuore e polmoni. Ardenghi, nonostante le attenzioni dello Spettro, era molto dimagrito, e le costole si intravedevano sotto la pelle, nitide e perfettamente allineate, e anche le gambe erano sottili, perché tutta la muscolatura soffriva di quella lunga inattività. Il vecchio medico si tolse lo stetoscopio e cercò di attirare l’attenzione del giovane.

«Guarda qui, cosa mi ha portato tuo padre» disse indicando tre grossi fiaschi di vino scuro. «Ah, è troppo gentile quel caro signore: vero che lo ringrazierai per me, quando verrà a farti visita?».

Così dicendo gli passò una mano sulla testa: la cicatrice del colpo ricevuto sul Col Basson era ancora ben visibile, quasi una crepa tra i capelli scuri. Ardenghi rimase immobile, ma le sue pupille ebbero un rapidissimo, quasi impercettibile movimento; poi il medico impugnò l’otoscopio e controllò le orecchie. Mise Ardenghi a sedere e con il martelletto provò i riflessi e, come alla fine di ogni visita precedente, ebbe conferma che non c’era nulla, nel suo corpo, per quanto debilitato, che non funzionasse a dovere. Il male era altrove. Gli riabbassò il camiciotto e con un paterno schiaffetto sulla guancia lo avviò verso l’uscio, dove l’infermiere che aspettava lo prese in consegna per riportarlo in camerata. Fuori faceva freddo, e nelle trincee ancora di più, ma le stufe andavano notte e giorno, per fortuna la legna non mancava. Qualche matto aveva la responsabilità del caricamento, e l’impegno era preso con grande serietà; ogni tanto qualcuno si scottava, a volte per disattenzione, altre perché voleva davvero esser sicuro che la fiamma fosse calda, proprio come gli avevano raccontato.

Accadde così, semplicemente e senza scosse, probabilmente soltanto perché doveva succedere. Come capita a un orologio, che per motivi insondabili ha perso il tempo e un giorno, per ragioni altrettanto misteriose, riprende a funzionare come avrebbe sempre dovuto. Forse per un fatto improvviso e inesplicabile, o soltanto per il susseguirsi di arcani e impercettibili mutamenti. Fu così che Italo Ardenghi, un mattino come tanti altri, nell’abulica indifferenza dei compagni, semplicemente si alzò dal letto e andò verso la finestra aperta sulla campagna. Era il 27 marzo 1917, e persino l’inferriata alla quale si era aggrappato per guardare meglio sembrava scomparsa, dissolta. Come i fantasmi che fino a quel momento avevano posseduto la sua mente. Barcollò allo schiaffo del sole e si accasciò sul pavimento, come una marionetta stanca. Un infermiere che passava per il corridoio vide la scena e accorse.

«Sto bene, sto bene» disse Ardenghi con un gesto rassicurante, «è stato solo...».

E la frase, pronunciata con la prima, flebile voce, poco più che un soffio, rimase sospesa nell’aria. L’infermiere, basito, lo lasciò coricato a terra, un cuscino sotto al capo, e corse ad avvisare il dottor Borletti.

Fu sottoposto a ogni esame possibile, ogni indagine che potesse rivelare l’origine di quello che, pur non essendo un fatto nuovo nella storia del Sant’Artemio, appariva ai più come un risveglio eccezionale. Un miracolo quasi, perché agli occhi dei più semplici solo il divino poteva essere l’artefice di una guarigione tanto improvvisa e inaspettata. Si susseguirono visite e colloqui, ma le risposte di Ardenghi erano sempre le stesse: aveva buona memoria della battaglia, e anche se in maniera frammentaria e confusa, ricordava di aver visto l’amico Pecchioli sparire, disintegrato nella vampa di un’esplosione. A volte sembrava ricordare addirittura il corpo a corpo davanti al trincerone nemico, ma i quasi venti mesi trascorsi tra le mura del manicomio, confinato nel suo letto nel fondo della camerata numero 12, gli apparivano un periodo senza tempo. Come accade al risveglio, quando si pensa di aver abbassato le palpebre soltanto per qualche minuto e invece si è dormito a lungo, profondamente e in totale incoscienza. Così toccò al dottor Borletti l’incarico di raccontare al povero Ardenghi, confuso come un bambino, quel lungo periodo di vuoto, dire dell’impenetrabile silenzio, delle inutili cure e della solerte presenza al suo capezzale del padre, sempre pieno di infinita speranza e serenità. Sempre a lui toccò il compito, fausto questa volta, di preparare il vecchio all’incontro con il figlio. Fu una domenica, al solito orario di visita: Italo, ancora incerto sulle gambe e ormai disabituato a muoversi, fu accompagnato in giardino dove, alla presenza di Borletti, padre e figlio si incontrarono. Piansero, si abbracciarono e dialogarono un poco, a frasi smozzicate, nelle pause che le lacrime concessero. Il padre riconobbe in quel lieto fine l’esito di tante preghiere. Fecero seguito piccoli ma sinceri miglioramenti quasi quotidiani, a confermare che il meccanismo aveva ripreso a girare, ormai libero da impedimenti.

Il dottor Borletti, in via del tutto eccezionale, concesse ad Ardenghi di muoversi liberamente per gran parte dell’ospedale, soprattutto all’esterno, nei campi e negli orti, così che il sole e l’aria primaverile potessero essergli medicina. Fu esentato dal lavoro e, con sapiente intuizione, lasciato libero di scegliere da sé come spendere le sue giornate. Rimanevano le cicatrici, quella alla testa, su cui Ardenghi passava spesso le dita, quasi si trattasse di un promemoria, o della chiave che lo avrebbe aiutato a capire quanto gli era accaduto, e quelle perpetue e invisibili, giù, nel profondo dell’animo. Al mattino si alzava tra i primi, provvedeva solertemente ai bisogni del corpo e dell’igiene, e poi lasciava che il passo, ogni giorno più sicuro, lo conducesse in giro per l’ospedale, secondo l’estro. Ora si intratteneva con Arduino, il custode, ora, in solitudine, vagava nel contado. Coglieva un frutto, aiutava discretamente qualcuno che portava un carretto o cercava di dissodare l’angolo di un orto; spesso si incantava a osservare un corteo di formiche o il ronzare di un’ape, la sorprendente generosità di un albero o la meraviglia di una gemma che, soltanto il giorno prima, non esisteva o non aveva notato. A volte non rientrava nemmeno al refettorio per pranzare con i compagni, ma passava in cucina al mattino a ritirare la sua spettanza, così da non interrompere le salvifiche esplorazioni che, a cerchi concentrici, lo portavano sempre più lontano. Anche la voce si faceva più sicura, e sempre più spesso chiedeva udienza al dottor Borletti, che volentieri dispensava consigli, lo ascoltava e lo aiutava a capire. Tutto un mese trascorse in questo stato di indolenza benefica; più che di una convalescenza, si trattava di un tempo sospeso che Ardenghi assaporava ormai come un balsamo mischiato all’odore della terra dei campi e dell’erba novella. La guerra per il momento era lontana; solo a volte, verso sera, il vento portava da nordest dei cupi brontolii: era la voce del cannone che rimbalzava giù dalle montagne del Friuli.

Un sabato mattina si spinse dalle parti di Case Piavone, all’estremo confine delle proprietà del Sant’Artemio, e lì fu colto da un improvviso acquazzone, forse un anticipo dell’estate ormai alle porte. In un attimo fu bagnato fradicio, e per la prima volta dal suo ritorno alla realtà, provò un vago senso di inquietudine. Trovò riparo sotto una grande quercia, quando in lontananza intravide quella che poteva essere una rimessa per gli attrezzi agricoli. Il temporale rinforzava, così corse attraverso i campi sprofondando nelle zolle, saltò fossi pieni di fango meravigliandosi delle sue forze che mai, prima di quel momento, aveva messo alla prova. Raggiunse il capanno, grondante e quasi felice. Si richiuse la porta alle spalle, e le gocce colpivano il tetto di lamiera così forte che gli parve di essere entrato in un tamburo; tra le pareti di legno la pioggia si era già fatta strada, e qualche pozza si allargava sulla terra battuta. C’erano un aratro e un vecchio erpice divorato dalla ruggine, delle gerle di vimini e, in un angolo, due o tre balle di fieno quasi asciutte; Ardenghi vi si stese sopra abbandonandosi al torpore primaverile e presto si assopì. Perduto nel capanno, al limite della campagna, sognò ancora pioggia e strane presenze. Topi forse, o altri animali disturbati, vennero a tenergli compagnia, così silenziosi e discreti che non avrebbe saputo dire, al risveglio, se li aveva avuti davvero accanto o fossero usciti dal sogno. Un rumore più forte, o soltanto la pioggia che aveva diminuito d’intensità, gli fece riaprire gli occhi. Vide allora uno strano essere che lo osservava in silenzio da chissà quanto tempo. Certo si trattava di un uomo, non ci poteva essere dubbio, ma il suo aspetto era orribile, terrificante al limite dell’immaginabile. Immobile tra le gerle, tanto da poter essere dipinto, quel volto sembrava un fantoccio ricoperto di pergamena, un foglio di vecchia pergamena rattrappita, sulla quale erano stati aperti alla buona i pertugi dai quali si affacciavano due occhi dolenti e vivi. Anzi un solo occhio, quello destro, perché del sinistro era rimasta soltanto l’impronta, un’idea sfumata della pupilla ormai scomparsa. Spianato il profilo, le narici altro non erano che due asimmetriche ferite che si andavano a congiungere con quella, più grande e sgraziata, della bocca da cui sporgevano nude le gengive. I capelli, ritti come le setole di una spazzola, sembravano rubati a un pupazzo dei baracconi, quelli che i bambini cercano di colpire con le palle di pezza in cambio di una moneta.

La paura e la sorpresa furono così grandi che Ardenghi rimase impietrito, incapace di proferire parola, ma un attimo dopo era già per la campagna, a rotta di collo verso l’ospedale. Si ritrovò sulla porta del Sant’Artemio che ormai spioveva; ancora atterrito e madido di sudore, rimase rincantucciato nella sua branda per il resto della giornata, in preda ai suoi antichi fantasmi, quasi fossero stati evocati dal profondo dell’anima da quello sconvolgente incontro.

Dopo qualche discreta investigazione tra gli infermieri, Ardenghi non ci mise molto a capire che la faccenda del misterioso abitatore del capanno era, se non di dominio pubblico, variamente nota al Sant’Artemio. Ma fu ancora una volta il dottor Borletti a metterlo a conoscenza dei particolari. Venne così a sapere che si trattava di uno di quei disgraziati usciti dalla battaglia portandosi addosso la peggiore delle mutilazioni, perché trasformati dalla scheggia di una granata in mostri che, qualora fossero sopravvissuti alla ferita, nessuno avrebbe più potuto guardare. Ricoverato da tempo, l’uomo senza volto si era poi confinato in quell’eremo di sua volontà: incapace di sostenere la vista dell’orrore che il suo aspetto provocava, viveva del cibo e della compassione che quotidianamente i contadini del vicino podere provvedevano a fornirgli.

Tra i tanti, troppi mutilati che la guerra lasciò in eredità alle generazioni future, inascoltato monito di sofferenza, se ne contarono più di cinquemila condannati a scomparire per sempre. Erano i “mutilati del volto”, beffardamente scampati alla battaglia per testimoniare e finiti invece sepolti vivi, in ospizi e cronicari, per via del raccapriccio che la loro vista provocava. Accadeva, in quella guerra barbara e moderna, che uno scheggione di granata, il fuoco di un’esplosione o chissà quale altra diavoleria partorita dalla mente dell’uomo, anziché uccidere, disintegrasse nasi o mandibole, cancellasse una fisionomia, trasformasse un volto in una macabra maschera sanguinolenta. I medici – la cosiddetta chirurgia estetica era di là da venire – si prodigavano come potevano per ricomporre quei volti, restituire una forma più o meno umana a quei poveri cristi che mai si sarebbero aspettati di dover fuggire, e per il resto della vita, non solo il prossimo, ma anche il domestico specchio o il riflesso di un vetro, spaventati loro per primi dal proprio aspetto. I futuri regimi, sicuri del consenso dei semplici, portarono in parata con orgoglio mutilati di ogni tipo, sospinti dai commilitoni nelle loro carrozzelle coperte di fiori, le decorazioni luccicanti al petto, assunti a simbolo di amor patrio, abnegazione ed estremo sacrificio. Persino il delirante Marinetti ebbe l’improntitudine di glorificarli, complice la smania di attirarli nelle file dei futuristi, con toni tanto enfatici da rasentare la beffa. Ma per i “Gueules Cassées”, le facce distrutte, come venivano chiamati in Francia questi mostri di guerra, nessuno ebbe mai una parola. Per loro, a conflitto concluso, non ci sarebbe stato posto nelle parate, nemmeno nelle ultime file: troppo l’orrore che evocavano. Un orrore che avrebbe saputo spegnere anche i più bellicosi e trucidi intenti guerreschi.

Ardenghi uscì sconvolto dall’ambulatorio del dottor Borletti: persino quanto era capitato a lui, alla sua mente, appariva poca cosa davanti a tanta tragedia. Aveva ricominciato a piovere, una pioggia sottile e quasi autunnale, una pioggia triste, foriera di cattivi presagi. I matti stavano tutti nei corridoi, seduti l’uno accanto all’altro sulle panche addossate al muro; chi gesticolava, chi urlava, chi ripeteva ossessivamente la stessa frase all’infinito. Forse sentivano la stagione, o forse l’impossibilità di uscire all’aperto martoriava silenziosamente le loro invisibili ferite. Su tutto, fin giù negli androni, un odore insopportabile di bestia e umido. Un inesplicabile groviglio di emozioni invadeva l’animo di Ardenghi, un turbinio di pietà e orrore troncava ogni pensiero; ma era l’indelebile sembiante di quello sciagurato, indefinibile per età e destino, a dominare la scena desolata dei suoi sentimenti. Mai più avrebbe varcato la soglia di quell’antro, ne era ormai sicuro, perché davanti all’orrore l’uomo, questa è la sua natura, può solo fuggire. Di quel volto mostruoso, questo Ardenghi pensava, sarebbe sopravvissuto soltanto il ricordo fino a quando il tempo avrebbe trovato la cura, e anch’esso si sarebbe sbiadito e forse dissolto.

Invece Ardenghi riprese il sentiero dei campi, quello che portava alla grande quercia, verso Case Piavone. Era trascorsa appena una settimana da quel sabato piovoso, una settimana spesa in un’altalena di incertezze e propositi, intessuta di notti popolate da incubi e spaventose apparizioni, e il pensiero del mostruoso individuo esiliato nella rimessa sul confine non lo aveva abbandonato. Fosse stata la pietà a muovere il suo primo passo, o il desiderio di saperne di più, fatto sta che Ardenghi tornò. Portava sulle spalle uno zaino del Regio Esercito raccattato chissà dove, con dentro una pagnotta, del formaggio e un fiasco di vino, bevanda preziosa e rara al Sant’Artemio, e una dozzina di mele del passato inverno. Tutta roba avuta dai cucinieri, per amicizia o compassione. Ristette a lungo di fronte al capanno, le orecchie tese, pronte a cogliere qualche movimento all’interno, ma tutto era silenzio. Anche la campagna era perfettamente immobile. Sospinse l’uscio socchiuso ed entrò nella penombra della rimessa: tutto era come l’aveva visto durante la sua prima visita, ma si accorse allora che un’alta greppia nascondeva alla vista l’altra metà della stanza.

«Ci sei?» chiese Ardenghi sicuro.

«Sì» rispose una voce da oltre il fieno.

Era soltanto una sillaba, pronunciata lentamente con un filo di fiato, ma in quella sillaba risuonavano mestamente l’amara consapevolezza del proprio stato e forse anche la gratitudine per quel ritorno. Era una voce curiosa, che ad Ardenghi ricordò quella che esce dal grammofono quando la carica si sta esaurendo.

«Ti ho portato qualcosa».

L’altro non rispose, ma dal frusciare della paglia si capiva che si accingeva a uscire dalla sua tana. Timidamente, ma con l’unico occhio buono fisso sul suo ospite, avanzò nella penombra; Ardenghi, istintivamente, si ritrasse. Vestiva una giubba della fanteria sul petto nudo, un paio di mutandoni militari scendevano fino ai piedi scalzi. Proprio in quel momento un gallo, perduto da qualche parte nella campagna, fece sentire la sua voce. Colpiva il volto devastato su quel corpo giovane e muscoloso, si sarebbe detto una maschera calzata per scherzo, un attrezzo da martedì grasso che, con un solo gesto, può essere tolto in una risata. Perché il resto del corpo era lo stampo della salute. Ardenghi allargò le braccia imbarazzato.

«Se avessi saputo, mi sarei dato da fare per procurarti un paio di pantaloni».

«Non fa niente, non esco mai di qui, solo di notte, giusto per sgranchirmi le gambe e respirare un po’ d’aria fresca. Ho polvere di fieno dappertutto, anche nei polmoni».

«L’altro giorno non immaginavo che qui ci abitasse qualcuno».

«Ti avevo sentito arrivare e poi, quando ho visto che ti eri addormentato, mi è venuta la curiosità di vedere chi fossi».

Si strinsero la mano, e quella dello sfigurato era forte e vigorosa. Ardenghi si chiese come fosse, un tempo, il volto che stava dietro a quella mano. Poi lo sconosciuto, sedutosi su una balla di fieno, iniziò a raccontare.

Si chiamava Osvaldo, ma tutti lo chiamavano Svuàl, e così sarebbe stato fino alla fine della sua vita, e veniva da Rucorvo, quattro case nate per dispetto come certi funghi a cui nessuno bada, sulle rive del Piave, tra Ospitale e Perarolo. Lui, montanaro del Cadore, chissà per quale scherzo della sorte, era stato arruolato in fanteria, nel Trentunesimo, e spedito a combattere sul Carso. Il 23 settembre del ’15, nel tentativo di prendere la Trincea delle Frasche, la sua compagnia fu investita dal fuoco dell’artiglieria e lui restò colpito al volto da una manciata di schegge.

«È stato così improvviso che non me ne sono quasi reso conto. Di colpo, mentre correvo, ho avvertito come uno schiaffo in faccia, uno schiaffo rovente; sono svenuto e non ho più sentito nulla. Più tardi, chissà quando, i compagni che tornavano strisciando sulle nostre posizioni dopo che l’assalto era fallito si sono accorti che rantolavo e mi hanno riportato indietro trascinandomi per le gambe. Ospedale da campo, poi a Udine: bende, dolore, medicazioni. Un occhio era perduto, tagliato di lungo come una castagna prima di metterla sul fuoco; il naso scomparso, cancellato: è rimasto solo il buco. E la faccia, oh, la faccia! All’ospedale di Udine, un giorno che mi hanno sbendato per le medicazioni, il medico e i due infermieri sono dovuti correre da un altro ferito che, improvvisamente, aveva iniziato a vomitare sangue, forse un’emorragia. Io mi sono alzato dal letto, nessuno se n’è accorto, e sono corso alla finestra, a specchiarmi sul vetro. Toccando con le mani qualcosa avevo capito, ma...». Fece un gesto di disperazione. «Se ne sono accorti e sono corsi a riportarmi a letto, perché volevo buttarmi di sotto. Da allora, per un lungo periodo, mi hanno tenuto sedato».

Ardenghi, fattosi coraggio, si voltò lentamente e lo guardò. Lo sfigurato non disse nulla, né chinò il capo: rimase immobile, solo l’occhio buono seguiva lo sguardo del compagno.

«E poi, come mai sei arrivato al Sant’Artemio?».

«A Udine sono finito sul tavolo operatorio cinque volte; hanno fatto quello che potevano. Tu mi vedi così, ma prima era anche peggio. Rimarginate le ferite, non sapevano più dove mandarmi: di tornare al paese mi sono rifiutato io, lì non potevo restare perché, almeno per loro, ero guarito, così mi hanno mandato qui. Credo l’abbiano fatto anche perché, insomma, cominciavo a non esserci più con la testa».

«Così ti hanno dato il permesso di stare qui, in questa baracca?».

«No, ci sono venuto io da solo, gli altri malati quando mi vedevano scappavano, qualche infermiere aveva messo in giro strane voci sul mio conto. Così un giorno non mi hanno più visto e credevano fossi scappato, mi sono venuti a cercare e, alla fine, mi hanno trovato qui. È stato Borletti a dare il permesso. I contadini del Piavone mi portano qualcosa, sono brava gente: lasciano un paniere qui fuori e quando è vuoto vengono a riprenderlo. Poi, una volta al mese, mia madre viene a trovarmi; di più non ce la fa, perché il Cadore è lontano e soldi non ce ne sono. Se soltanto fossi riuscito a buttarmi giù da quella finestra...».

E ancora una volta le parole rimasero sospese, forse impigliate alle grosse ragnatele che coprivano le travi del soffitto.

Ardenghi, che non sapeva più cosa dire, aprì lo zaino e tirò fuori il formaggio, la pagnotta e il fiasco di vino, l’altro parve commosso. Mangiarono in silenzio: Svuàl, al quale la scheggia di granata aveva spezzato i denti davanti, prese un gavettino, ci versò del vino e intinse il pane fino a farne poltiglia. Fuori dal capanno la natura esplodeva nella primavera, il sole di aprile filtrava tra le sconnessure del tetto e la guerra, almeno per loro, era lontana. Ardenghi tornò a sera per i campi, cercando di allontanare il più possibile il momento del suo rientro all’ospedale; voleva restare solo per pensare, il cuore era gonfio di sentimenti inesplicabili: dolore, amicizia, un senso di vago e incomprensibile struggimento.

Da quel primo incontro, quasi ogni mattina Ardenghi lasciava i padiglioni dell’ospedale psichiatrico per andare a trovare il suo nuovo amico. Portava della frutta, qualche mezza pagnotta o quel che trovava; Svuàl a volte chiedeva del vino, ma quello c’era e non c’era. Si raccontarono la loro storia, la guerra e la tragedia che, pur per diversa via, aveva travolto entrambi. Riuscirono anche a ridere qualche volta, perché erano pur sempre giovani, anche se Svuàl, imprigionato dietro la sua maschera impenetrabile e mostruosa, si limitava a esternare la sua malinconica allegria battendo le mani sulle ginocchia. Poi scendeva il silenzio, un silenzio carico di significato e dolente, come il pensiero del futuro.

Una domenica di fine aprile, in cui il padre non gli venne a far visita per via di una brutta bronchite che da tempo lo tormentava, Ardenghi si mise in cammino verso Case Piavone. Era felice, perché era riuscito a trovare addirittura una mezza bottiglia di marsala, e sapeva che anche Svuàl sarebbe stato contento. Ma, arrivato alla rimessa degli attrezzi, sentì provenire dall’interno una voce di donna: aspettò, tese l’orecchio, poi decise di entrare. Fu così che fece la conoscenza di Maria, la madre di Svuàl.

Maria era una donna dalle braccia magre e muscolose, e altrettanto forti aveva le gambe che si immaginavano sotto il panneggio della pesante gonna scura. Qualche filo bianco si intravedeva ormai tra i capelli nerissimi, ma l’aspetto complessivo era quello di una donna ancora giovane, energica e decisa come spesso sono le donne di montagna, resistenti come gli abeti o i larici, all’ombra dei quali hanno concepito i loro figli. Appena vide Ardenghi, lo abbracciò con inaspettato trasporto: volle sapere di lui e della sua storia, si fece raccontare come avesse scoperto il nascondiglio e lo ringraziò a lungo per la sua assidua presenza accanto al figlio. Arrostirono delle patate che Maria aveva portato giù dal suo orto di montagna e divisero il formaggio che Svuàl aveva provveduto a mondare con il coltellino dai piccoli vermi che ci avevano fatto il nido. Poi bevvero il marsala.

Era pomeriggio inoltrato quando Maria prese la strada del ritorno; Svuàl e Ardenghi rimasero a guardarla mentre si allontanava. Poi scese la sera.

Mentre Maria, confidando nell’aiuto di Dio e di qualche carrettiere di passaggio, cercava di raggiungere la stazione di Treviso a piedi per risparmiare i soldi del tram, la guerra ormai da tempo lambiva il suo Cadore. L’incedere di Maria era sicuro, e le grosse scarpe, passo dopo passo, macinavano i chilometri. Prima di notte sarebbe salita sul treno che, attraverso la Val Feltrina, la Val Belluna e su, fino a Ponte nelle Alpi, l’avrebbe riportata a casa. Nella sua bisaccia c’era qualcosa che aveva messo da parte per la cena, si sarebbe dissetata con l’acqua ferrosa delle cisterne della ferrovia.

Intanto i nati nel ’98 erano già stati richiamati al fronte. Avevano salutato la casa e il cortile, forti dei loro diciannove anni e pronti a farsi ammazzare. Ma giunti in trincea, nelle pause dei combattimenti, il loro pensiero andava al paese, ai genitori, forse alla morosa. Nella primavera del 1917 il Regio Esercito era una macchina bellica capace di quasi due milioni di uomini, e l’industria lavorava ormai solo per la guerra. Nelle fabbriche e nelle officine le donne avevano preso il posto degli uomini scaraventati nelle trincee. Tutta Italia guardava al Carso, alle Dolomiti e agli altipiani. Di lì a poco sarebbero entrati in campo anche gli arditi, soldati dal fisico atletico e pronti a tutto, a volte colpevoli di reati militari, che pur di uscire dalla galera si offrivano volontari. Brandendo pugnali e bombe a mano, sapevano conquistare in pochi minuti la trincea nemica, sbaragliando gli austriaci e aprendo la strada alla fanteria. Andavano all’assalto ingobbiti dal peso dei petardi che tenevano nella tasca della giubba, spesso intonando certe loro canzoni dalle parole ambigue:

Se non ci conoscete guardate le mostrine

Noi siamo quei famosi che ruban le galline.

Bombe a man, pugnale e tascapan.

Parevano scaturiti dalle trincee e dalle esplosioni, figli della guerra, senza passato e senza futuro.

Il 14 maggio, preceduta da un bombardamento devastante come mai si era visto, la Seconda armata, ora ai comandi del generale Luigi Capello, avanzò verso Quota 383. Iniziava così la decima battaglia dell’Isonzo.

Maria era partita quasi rincuorata: aveva trovato il figlio in discrete condizioni e ora lo aveva lasciato, dopo tanta solitudine, in compagnia di un amico. Certo non poteva immaginare che quella stessa sera, testimone la luce fioca della lampada a petrolio, Svuàl avrebbe chiesto ad Ardenghi una suprema prova della sua amicizia. Senza preamboli e inutili giri di parole venne subito al dunque.

«Te la senti di darmi una mano ad ammazzarmi?» domandò a bruciapelo. «Perché, per me, non ha più senso vivere».

Ardenghi scosse la testa, ma si stupì appena di quella richiesta che, bene o male, si aspettava.

«Per me la guerra non finirà mai! Guardami: dove vuoi che vada ridotto così? Nemmeno al mio paese posso tornare, perché la gente mi eviterebbe. Faccio paura» scandì perdendo il controllo, «faccio paura a me stesso!». E poi, come un fiume che ormai ha rotto gli argini: «Dovrò restare per sempre in qualche ospizio, insieme a quelli come me, quelli che nemmeno il cannone ha voluto portarsi via. Crepare sarebbe stato meglio, mille volte meglio, diocan!». E ancora giù, a precipizio, prendendo Ardenghi per il bavero: «Lo sai cosa mi ha detto Borletti? Lo sai?». L’unico occhio si agitava da destra a sinistra come la pendola di un orologio. «Ci sono delle maschere di tela, delle facce finte che si attaccano alle orecchie. Capisci? Delle maschere, come a carnevale!».

Quando volle Dio, ritrovò la calma, una calma fredda che faceva paura.

«Allora, Italo, mi vuoi aiutare sì o no? Io cerco solo pace, e la pace, qualche volta, la si può trovare soltanto nella morte».

Quella sera Ardenghi, immobile nel suo letto, rincorreva inutilmente il sonno. Ripensò alla sua città ai tempi del liceo, alle serate con gli amici lungo Calmaggiore quando, le pagliette buttate all’indietro, si discuteva della guerra strapazzando i giornali che passavano di mano in mano. Non erano trascorsi nemmeno due anni, eppure nulla, dentro e fuori di lui, era rimasto lo stesso.

Svuàl voleva una corda, una corda abbastanza lunga da poter essere annodata saldamente alle travi del capanno. Aveva pensato di lasciarsi cadere da una finestra del Sant’Artemio, ma quasi tutte erano munite di solide inferriate, e in più la sua presenza agli ultimi piani sarebbe stata subito notata. Ma di corde nella rimessa non ce n’erano, e certo non avrebbe potuto chiederne una ai bravi contadini del podere vicino. Non restava che confidare nell’aiuto di Ardenghi che, da parte sua, dopo aver pensato di avvisare Maria e il dottor Borletti, resisteva con sempre meno forza alle quotidiane e ormai sempre più pressanti richieste dell’amico. Anche i tentativi di farlo ragionare e desistere dal suo tragico proposito cadevano davanti a quel volto mostruoso. Ardenghi sapeva bene che, fosse stato nelle sue condizioni, avrebbe fatto la stessa scelta. Non ne parlarono più, per comune, tacito accordo, ma a ogni incontro l’occhio superstite di Svuàl interrogava, frugava, cercava freneticamente di capire se Ardenghi avesse portato con sé il suo viatico.

La sera del 1o maggio 1917 i due amici festeggiarono con una grossa porzione di lasagne a testa, formaggio stagionato e una pagnotta quasi fresca; tutta roba che Ardenghi era riuscito a ottenere in dono dai cucinieri. Lì accanto c’era anche un fiasco di Chianti. Ardenghi ne bevve poco, solo qualche sorso, lasciando il resto a Svuàl. Mangiarono all’aperto, davanti alla rimessa, perché l’aria era tiepida e la sera portava ormai l’odore buono dei campi e delle stalle. Masticarono lentamente, assorti, guardando la campagna, quasi senza parlare. Era ormai notte fonda quando Ardenghi abbracciò l’amico e si mise sulla via del ritorno lasciando il fiasco, pieno ancora a metà, e lo zaino.

E fu così che la luce dell’alba svelò il corpo di Svuàl appeso all’architrave della rimessa; il fiasco ormai vuoto giaceva riverso ai suoi piedi.

Tre giorni dopo, il sole era appena salito sopra i campi di granturco, ci fu il funerale nella cappella del manicomio. C’erano solo Ardenghi, il dottor Borletti e Maria, avvisata dai carabinieri venuti su da Longarone. Di contorno una decina di ricoverati, convenuti più per curiosità che altro. Il prete, convinto da Borletti a concedere la messa a un suicida, officiò di malavoglia, alla svelta e poi, benedetta la bara, scomparve in sagrestia. Maria avrebbe voluto riportare la salma del figlio tra i suoi monti, ma soldi non ce n’erano, così Svuàl finì nel piccolo camposanto del Sant’Artemio. Dopo che l’ultima badilata di terra aveva coperto la fossa, Borletti si avvicinò ad Ardenghi per comunicargli, con tono insolitamente formale, che lo aspettava nel suo studio, poi si allontanò alla svelta anche lui. Maria avrebbe voluto restare, ma si accontentò di ritornare verso la palazzina dell’ingresso accanto ad Ardenghi, e lì lo salutò con un lungo abbraccio accarezzandogli i capelli e le guance di nuovo carnose e sane.

L’ufficio del dottor Borletti era così austero da mettere soggezione, e la luce del sole filtrava a fatica attraverso le pesanti tende di velluto. Il ritratto di Vittorio Emanuele III dominava la parete dietro la scrivania, e i pochi mobili si sarebbero detti scelti apposta per incutere rispetto e timore. Per Ardenghi il motivo di quel colloquio era chiaro: Borletti voleva chiedergli perché avesse aiutato l’amico a porre fine ai suoi giorni. Aveva deciso di negare, tanto più che non sarebbe stato possibile dimostrare che era stato proprio lui a procurare la corda, un paio di metri di fune dimenticati nel cassone di un carretto usato nei campi. Il dottore era serio, prese tempo sistemando e risistemando alcune cartelle che stavano sulla scrivania, si alzò a socchiudere una finestra, poi tornò al suo posto e incrociò le mani davanti alla faccia, quasi in un gesto di preghiera. Si capiva che stava cercando le parole migliori per cominciare.

«Allora, Italo, come ti senti?» chiese con tono bonario, alla fine di un imbarazzato silenzio. «Mi sembra che tu ti sia rimesso completamente, eh?». Ardenghi annuì sospettoso. «Ti volevo dire che, come forse anche tu sai, l’ospedale ha l’obbligo di comunicare al distretto lo stato di salute dei ricoverati. Nel tuo caso» proseguì cautamente, «tu capisci, ho dovuto confermare che sei perfettamente guarito».

Ardenghi, immobile sulla sedia, capì in un attimo che non era stato convocato per parlare del suicidio di Svuàl, questione sulla quale il dottore, probabilmente, si era già fatto un’idea precisa, bensì del suo stesso destino. Borletti, rotti gli indugi, venne al dunque con la veemenza di chi si vuole togliere un peso dallo stomaco:

«Devi tornare al reparto! Sono riuscito a rimandare di un altro mese l’uscita dal Sant’Artemio, adducendo ulteriori controlli sul tuo stato mentale, ma di più non ho potuto fare. Partirai con i rientri di giugno. Mi dispiace».

Ardenghi, annichilito, stentava addirittura ad alzarsi dalla sedia. Borletti, ora paterno, allargò le braccia abbozzando un triste sorriso.

«Ti assicuro che se dipendesse da me...».

«Lo so, dottore, grazie lo stesso».

Non ci fu più niente da dire: altre parole sarebbero state inutili, così come qualsiasi tentativo di rimandare ciò che il destino aveva già deciso. Curiosamente Ardenghi si rese conto che, dal momento della sua guarigione, del rientro nel mondo, non aveva mai immaginato di dover tornare a fare la guerra. Chissà, forse si era fatto l’idea di aver già pagato abbastanza per il suo entusiasmo giovanile. O forse pensava che non ci sarebbe più stato bisogno di quelli come lui, feriti nell’anima come altri lo erano stati nel corpo.

Invece la guerra aveva bisogno di tutti, giovani e meno giovani, abili e meno abili. Complessivamente, le classi coinvolte nel conflitto furono ventisei: dai ragazzini nati nel ’99 ai veci che avevano ormai superato i quarantacinque anni. E tra questa massa di uomini, un’umanità in travaglio, gli ufficiali inferiori erano i più necessari, per il preciso compito di stare accanto ai soldati nelle trincee e guidarli nell’ora fatidica dell’assalto. A loro toccava ordinare e rabbonire, consolare e sostenere; a volte persino leggere e rileggere le lettere che i soldati, spesso analfabeti, ricevevano dalle famiglie. Sovente cercare di difendere i sottoposti stessi dalle pretese o dagli ordini assurdi degli ufficiali superiori, sperando di far sospendere l’assalto quando era palese l’impossibilità di prendere la trincea nemica. Ma, al momento di uscire allo scoperto, davanti a ogni plotone stava un sottotenente, davanti a ogni compagnia un capitano, e molto spesso erano proprio loro il primo bersaglio che i mitraglieri imperiali, al sicuro dietro i reticolati intatti, inquadravano nel mirino. Perduto il comandante, la truppa sbandava, si ritrovava smarrita, abbandonata a se stessa nella terra di nessuno. Allora il compito di sostituire il caduto toccava a qualche caporalmaggiore, sostenuto, suo malgrado, dall’esperienza in battaglia. Negli anni cupi del primo dopoguerra, la mancanza di quei diplomati o laureati caduti compiendo il proprio dovere si fece molto sentire. Coloro che avrebbero dovuto rappresentare il tessuto della futura classe dirigente italiana erano stati letteralmente falcidiati sulle pietraie del Carso o sulle balze della Bainsizza, dell’Ortigara e del Grappa. E si può credere che, se non si fosse verificata quell’insanabile perdita umana e intellettuale, dagli anni tormentati del dopoguerra sarebbe uscita un’Italia diversa.

Vennero giorni oscuri anche per il vecchio padre che, venuto a conoscenza della triste novità, sprofondò nella più cupa disperazione. Padre e figlio trascorrevano quelle ultime domeniche di visita passeggiando per i campi, spesso senza parlare mentre le settimane passavano. Ardenghi giaceva nella sua branda in silenzio, per intere giornate, quasi fosse ritornato il tempo dell’assenza mentale; a volte si faceva convinto che avrebbe fatto bene a simulare, così da poter restare ancora al manicomio, nei suoi corridoi, lungo i quali la guerra non sarebbe mai venuta a cercarlo. Invece consumava il suo pasto in fretta, svogliatamente, sotto lo sguardo preoccupato del dottor Borletti, nel cui animo si insinuava ormai un subdolo quanto ingiustificato senso di colpa. Ardenghi si scoprì a immaginare Maria a Rucorvo, sola in quel suo paese che lui mai aveva visto e dal nome tanto misterioso e cupo; ripensava alla sua figura, energica e femminile a un tempo, all’ultimo incontro accanto alla tomba di Svuàl, che la terra fresca aveva appena ricoperto. Lui, che della mamma aveva un ricordo tanto vago e lontano, fantasticava cercando di dare a Maria un’età dalla quale sottrarre i suoi stessi anni e capire, in un gioco ingenuo, se avesse potuto essergli madre. E Maria, quasi avesse annusato nell’aria quel richiamo, ricomparve al Sant’Artemio. Ritornò come sarebbe tornata la femmina della volpe quando, allontanatasi in cerca di cibo, sente i cuccioli inquieti nella tana nascosta nel folto del bosco.

Si incontrarono nel parlatorio la mattina della prima domenica di giugno, mentre la pioggia dilavava i vetri dei finestroni chiusi: la coda di un acquazzone quasi estivo che aveva tormentato Maria per tutta la notte di viaggio. Una coltre di gocce che impediva di passeggiare per i campi come avrebbero voluto, dove l’imbarazzo per quell’incontro si sarebbe stemperato nell’aria del mattino. Era partita da Rucorvo la sera prima, dopo aver ottenuto un passaggio da un carrettiere diretto a Feltre in cambio di mezza sporta di patate; all’alba il treno iniziò a discendere la valle. La luna quasi piena si rifletteva sui binari quando, in un gran silenzio, il convoglio sostò in aperta campagna per dare la precedenza a un treno ospedale che tornava dal fronte. Arrivò che Treviso ancora dormiva, in bocca il gusto del caffè che un gruppo di militari in transito le avevano offerto, spillandolo dalle loro borracce mentre la guardavano con intenzione. Lasciata la stazione, Maria scese una piccola riva per sciacquare il viso nell’acqua fresca del Sile.

La città era triste, in preda ai fantasmi della guerra che l’assediavano ormai quotidianamente. Bombe erano cadute in piazza Palermo, lasciando sbigottiti i cittadini che si erano accalcati attorno al cratere provocato dall’ordigno, e poi alle Beccherie, una locanda dalle parti della prefettura, dove era morto un avventore. E ancora sulla casa dello stalliere Benedetti, unico scampato alla strage dell’intera sua famiglia. A ogni attacco aereo le campane suonavano a stormo, la gente correva a rifugiarsi nelle cantine e aspettava la fine della sfuriata alla luce delle candele.

Maria disfece in fretta l’involto che aveva portato giù dai monti: formaggio di capra, una pagnotta, due camicie che erano state di Svuàl e un coltello con il manico di osso che aveva pensato di regalare a Italo. Mangiarono in silenzio e poi, con poche sommesse parole, Ardenghi la mise a conoscenza di quanto sarebbe accaduto. La donna ascoltava in silenzio, immobile, solo gli occhi tracciavano invisibili trame fissando lo sguardo a tratti sulle pareti del parlatorio, sulle sbarre alle finestre, sulla sputacchiera relegata in un angolo. Le mani si sfiorarono attraverso il tavolo, timidamente. Quelle di Maria erano ruvide e protettive, mani che parlavano di lavoro e dolore, mani che si sarebbero potute leggere come un libro.

«Devi salvarti, fuggire!».

«Fuggire?» si stupì Ardenghi, a cui il senso dell’onore non aveva lasciato immaginare una simile soluzione.

«Sì, fuggire».

«Sarò considerato un disertore, io non posso permettere che...».

«Basta!» si impose Maria risoluta. «Basta: io ti aiu­terò!».

Si affacciarono al portone davanti allo spiazzo di ghiaia che ormai spioveva; ma anche il sole si era ritirato con la pioggia dietro alle nuvole, e il pensiero di una nuova libertà non aveva quasi luce per palpitare e sopravvivere. L’uno accanto all’altra si avviarono lungo il viale, poi presero per i campi. Li si vedeva discutere lontano, soli in mezzo alla campagna.

Maria era una donna pratica, a cui la vita aveva da tempo insegnato quanto fosse fatuo attendere salvezza dal cielo o, ancor meno, dagli uomini. Aveva cresciuto Svuàl, figlio dell’amore per un segantino arrivato dalla Valsorda di cui faticava a ricordare i tratti del volto e la voce, sola e senza l’aiuto di nessuno, lavorando a Perarolo come cuoca per la mensa dei segati e dei menadàs. Lunghi i chilometri da percorrere ogni giorno, in ogni stagione, con la bisaccia a tracolla nella quale sperava di riportare a casa quattro patate per la cena, o una mezza pagnotta, o magari qualche frattaglia scarto di cucina con cui fare del brodo per il piccolo che l’aspettava spesso solo, a volte tenuto in casa da una vecchia che abitava dall’altra parte dell’orto. Partiva da Rucorvo tanto presto che in inverno, dopo qualche silenziosa nevicata notturna, era lei la prima a profanare il candido manto gelato; simile a un animale che scende a valle silenzioso come un fantasma, all’alba, spinto dalla fame. Nella stagione morta accudiva l’orto dove crescevano a stento poche verdure, sassi e patate; durante la fienagione dava una mano a chi ne aveva bisogno. Allora dimenticava il freddo dell’inverno, e il suo cuore si intiepidiva accanto a qualche segantino arrivato sugli alpeggi per la stagione. Erano brevi momenti, palpitanti di vita e speranza, rubati a sera dietro a un tabià, dove spesso la luna sorprendeva gli amanti. Allora Maria, ebbra di carezze e vino, danzava nel chiarore incerto, nuda com’era dopo l’amore, con addosso soltanto l’odore di quell’uomo di passaggio. Ispirata e viva, secondo movenze languide che inventava al momento. Se fosse vissuta in un paese come tutti gli altri, certo qualche vecchia cattiva ne avrebbe sparlato, lavandosi la bocca di quel figlio bastardo e dei peccati altrui. Ma a Rucorvo c’erano solo quattro case aggrappate l’una all’altra e tutte assieme alla montagna. Case di pietra di Castellavazzo, cresciute su un pendio così scosceso che, senza l’aiuto di Dio, sarebbero scivolate nella Piave. Così la gente non aveva malizia, per pietà o forse per non dispiacere al Padreterno.

Ma quando arrivava l’autunno, partiti gli uomini, Maria si ritrovava ancora più sola. Nelle lunghe notti tra i monti se ne stava silenziosa nella cucina che aveva visto nascere, vivere e morire la sua gente; volti ormai sbiaditi che, dai ritratti anneriti appesi al camino, continuavano a ricordarle, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanta era la fatica del sopravvivere. Certe notti, quando la luna spuntava dalla Palazza, che incombeva maligna sulle case del paese, e la corrente della Piave levigava un altro ciottolo portandolo a valle, Maria ascoltava così la vita passare. Allora lasciava il larìn e andava a rimboccare le coperte al piccolo Svuàl che dormiva, sprofondato nel saccone di scartocci di pannocchia.

Ru, in dialetto cadorino, sta per ruscello, quindi ruscello corvo, ossia nero, dal momento che del colore del lutto sono le piume di corvi e cornacchie. E neri divennero anche i pensieri di Maria quando una mattina di maggio vide arrivare due carabinieri a cavallo che si fermarono davanti alla porta della sua casa. Il falcetto le cadde dalle mani e rimase lì, pietrificata, senza trovare nemmeno la forza di maledire la guerra, che le portava via anche quell’ultimo affetto.

Così quella domenica mattina, nell’umido parlatorio del Sant’Artemio, ascoltato con crescente apprensione il breve racconto del giovane Italo, decise che almeno lui si sarebbe salvato. E sarebbe stata proprio lei a strapparlo dagli artigli della morte, come non aveva potuto fare con Svuàl.

Dopo la visita tornò a Rucorvo con il cuore in tumulto e la sua povera mente tutta presa a immaginare una possibile via di fuga per l’amico del figlio a cui il destino stava preparando nuove sofferenze. Mentre la chiusa di monti incombeva cupa, come il nome che chissà chi aveva dato a quelle quattro case, ripensava al manicomio, alle possibili vie di fuga, alle carrarecce che portavano ai campi, a certe rimesse fuori mano, del tutto uguali a quella dove aveva cercato la morte Svuàl; e ad alcuni alberi che, chissà per quale motivo lo aveva notato, erano cresciuti così a ridosso della recinzione da renderne possibile la scalata. Metteva mentalmente in fila le persone che aveva incontrato in quell’ultimo anno, soprattutto infermieri e custodi, cercando di capire se qualcuno avrebbe potuto esserle di aiuto. Certo non Arduino, il portinaio, così attento e scrupoloso nei controlli, sempre pronto ad allertare gli infermieri al minimo sospetto che qualcosa di imprevisto stesse per accadere; né gli infermieri del reparto, sempre solerti con i ricoverati ma altrettanto scrupolosi e attenti. Farlo fuggire dal Sant’Artemio non sarebbe stato facile perché, anche se all’interno i ricoverati meno pericolosi godevano di una certa libertà, pur sempre all’interno dell’invalicabile recinto del manicomio, i cancelli e ogni altra uscita erano inaccessibili e ben sorvegliati, quasi come quelli di una prigione.

Maria trascorse le notti seguenti vegliando. Consumata la cena frugale, sedeva accanto al larìn e lasciava passare le ore pensando, senza smettere di tormentare le braci con l’attizzatoio; quasi che la risposta alle sue domande fosse davvero nascosta sotto la cenere. Dietro ai vetri, intanto, la Piave frusciava nel buio, mentre dalle montagne scendevano cupi brontolii e boati soffocati, quasi tonfi sotterranei prodotti da forze misteriose che all’uomo non è dato di conoscere. Il bosco invece taceva, nero come la pece, e solo la cresta frastagliata degli alberi più alti si distingueva, ritagliata sul chiarore della luna. E proprio in una di queste notti Maria, tra il sonno e la veglia, immaginò la fuga di Ardenghi.

Il giorno del rientro al reggimento era ormai vicino, quindi bisognava fare presto: se Italo fosse ritornato a fare la guerra, non ci sarebbe stata per lui più alcuna possibilità di fuga. Così Maria, il piano di evasione ben custodito nella mente, prese la sua bisaccia e ridiscese dai monti. Rimise piede a Treviso un venerdì mattina, dopo un’altra notte di incerto viaggio; trovò presto un alloggio in una locanda dalle parti della pescheria, un giaciglio in un sottotetto per tre lire, riposò un paio d’ore e poi partì alla ricerca di Gìdio.

L’aveva conosciuto qualche mese prima quando, cercando di raggiungere la stazione a piedi dopo una visita al figlio, era stata invitata a salire sul suo carretto, ingombro di arnesi, vasche e tubi, uscito poco dopo di lei dai cancelli del Sant’Artemio. Gìdio, un omone sui trent’anni con mani come badili e spalle larghe, era stato gentile e l’aveva riportata in città, ma il suo sguardo avido si era posato troppo spesso, e con maliziosa insistenza, su quanto i ruvidi abiti da montanara lasciavano intuire del corpo di Maria. Aveva raccontato di una riparazione, qualcosa che Maria aveva presto dimenticato, ma era chiaro che l’uomo, per un motivo o per l’altro, aveva la possibilità di entrare e uscire dall’ospedale. Girò le strade, tenne d’occhio i carretti che con gran strepito transitavano sugli acciottolati e chiese notizie in ogni bottega di artigiano davanti a cui passava. Ricordando di aver colto, in un momento in cui Gìdio le si era pericolosamente avvicinato, un intenso odore di vino, si fece coraggio ed entrò anche in qualche osteria, ma di lui nessuno pareva sapere nulla. A sera cenò con quel poco che teneva nella bisaccia e si coricò presto. Non fosse stato per il coprifuoco e l’oscuramento, avrebbe cercato ancora, forse per tutta la notte, magari in qualche bettola che rimaneva aperta fino alle prime ore del mattino, rifugio di nottambuli e grassatori.

Le tenebre scesero che la città era già addormentata e la nottata trascorse tranquilla. Anche gli aeroplani austriaci non si fecero vedere, e l’unica presenza viva, oltre a qualche ronda che passo dopo passo completava il suo giro, restava il Sile, su cui argentava il chiarore della luna.

Fu svegliata la mattina dopo da un rumore curioso, uno stridente ronzio del quale non avrebbe saputo dire l’origine. Si sporse dalla finestrina del sottotetto e vide un vecchio che, seduto su una bicicletta issata su un cavalletto, faceva girare la lama di un coltello su una ruota agganciata al manubrio e mossa dai pedali, mentre dalle sue mani scaturivano scintille argentate. Maria non aveva mai visto niente del genere tra i suoi monti e pensò che doveva trattarsi di qualcosa di veramente moderno. Scese presto in cucina.

«Cosa fa quel vecchio?» chiese alla padrona di casa che già stava sfaccendando.

«Chi, l’arrotino?» sorrise la donna con leggero dileggio. «Fa il filo a coltelli, forbici e attrezzi; gira la città con la sua bicicletta e si ferma dove c’è qualcuno che ha qualcosa da affilare».

Un lampo di luce, più brillante delle scintille, illuminò la mente di Maria: preoccupata che il vecchio se ne andasse, essendo il rumore improvvisamente cessato, corse in strada.

«Signore, voi che girate la città ad affilare coltelli e forbici, e quello che serve di affilare, conoscete un uomo che forse fa il meccanico o forse aggiusta i tubi, ed è grande e grosso e ha un carretto con un cavallo e si chiama Gìdio?».

Il vecchio sollevò gli occhi dal coltello e osservò il filo controluce, poi soppesò Maria con uno sguardo.

«Gìdio lo stagnino? Cosa ti serve da lui?» chiese sospettoso.

Maria spiegò che si trattava di un lavoro e non seppe dire di più, ma lo sguardo era implorante, così che il vecchio decise che poteva trattarsi solo di una faccenda di cuore, o comunque nulla che potesse nuocere.

«Abita sulla strada per Castelfranco, dopo Porta Santi Quaranta, sopra l’officina; riconosci la casa perché carretto e cavallo sono sempre lì davanti. Se non ci sono, vuol dire che è fuori per lavoro; allora aspettalo, che prima o poi torna».

Maria consumò in fretta una tazza di caffè di orzo in cui aveva intinto due fette di pane scuro, raccolse la bisaccia, si congedò dalla padrona e si mise in cammino. Seguendo le vaghe indicazioni del vecchio, presto sbucò in piazza dei Signori, e da lì proseguì e riconobbe i portici del Calmaggiore e il Duomo, e poi ancora avanti fino a intravedere in lontananza le mura della città. Qualcuno le indicò Porta Santi Quaranta e i due soldati che montavano la guardia la lasciarono passare. Sullo stradone chiese ancora e così, dopo nemmeno un chilometro, vide cavallo e carretto fuori dalla bottega; sul balcone sopra l’insegna, una donna intenta a mettere al sole una sudicia coperta la guardò malamente. Un attimo dopo Gìdio comparve sulla porta dell’officina.

«Che ci sei venuta a fare qui?».

«Ho bisogno di aiuto» rispose Maria con la voce che le tremava.

«Aiuto? Che genere di aiuto?».

Intanto la donna della coperta era scesa.

«E questa chi è? Gìdio, la conosci?».

«Le ho dato un passaggio tempo fa quando sono andato al Sant’Artemio per un lavoro. È la madre di un matto».

La donna, che si rigirava nervosamente tra le mani uno straccio bisunto, lanciò al marito un’occhiata torva, mentre già iniziava a salire la minuscola scala interna che portava all’abituro del primo piano. Maria e Gìdio rimasero soli nell’officina: lui, in un attimo, le fu addosso, ma Maria si divincolò, lesta come una gatta, e indietreggiò brandendo un martello che aveva raccolto dal banco di lavoro. L’uomo cercò di ritrovare un contegno.

«Allora, cosa vuoi?».

«Devi aiutarmi a far scappare uno che a giorni rimandano a far la guerra».

«Vuoi farmi arrestare dalle guardie? Mi sa che dovresti starci tu al manicomio».

«Ti prego, ti prego!» implorò Maria con le lacrime che già le inumidivano gli occhi.

«E chi sarebbe questo che vuole scappare, tuo figlio?».

«No, mio figlio è morto» rispose scuotendo il capo sconsolata, gli occhi a terra, «un suo amico».

«E io, in tutta questa faccenda, che ci guadagno?».

«È un ragazzo, soltanto un ragazzo che è stato ferito, che aveva perso la memoria e adesso sta meglio: lo vogliono rimandare al reggimento a combattere».

Gìdio, le mani come due morse, l’afferrò con forza e la strattonò volgarmente, come forse era solito fare con le donne di strada con cui si accompagnava nelle osterie o nei vicoli oscuri.

«Io cosa ci guadagno in questa faccenda?» ripeté ancora una volta, e le parole erano gravide di vino e maliziose allusioni.

Maria, pur nella sua onesta ingenuità, non aveva mai davvero creduto che Gìdio l’avrebbe aiutata senza pretendere nulla in cambio, tanto più che gli anni duri della guerra avevano disabituato la gente a gesti di spontanea generosità. Non che tutti fossero diventati improvvisamente cattivi, egoisti e meschini, ma la miseria era tanta, e ognuno doveva pensare a se stesso. Erano già trascorsi due anni dall’inizio della guerra, due anni di lutti e paure, e ora, alla preoccupazione per chi stava al fronte, si aggiungevano le ristrettezze che il conflitto imponeva. Maria abbassò lo sguardo, perché già sapeva come le sarebbe stato chiesto di pagare, e sapeva anche che avrebbe accettato. E ne fu quasi contenta, perché tra le misere cose che teneva nella bisaccia le era rimasto almeno qualcosa da poter barattare in cambio della vita di Italo.

Anche Gìdio capì: allentò la presa e rimase a guardare quella donna non più giovane, ma ancora piacente, su cui presto avrebbe potuto allungare le sue mani rapaci. La guardò con occhi da intenditore, ladro e bracconiere di donne.

«Ritorna questa sera all’ora del vespro» le intimò con un brutto sorriso, «che saremo soli e ti spiegherò tutto».

Poi l’accompagnò all’uscio ghermendole le natiche. Maria, ormai svuotata di ogni energia, non seppe trovare la forza per ribellarsi. Ritornata sui suoi passi lungo il viale, entrò in una bottega di fornaio e acquistò tre grosse fette di pane.

All’ora convenuta Maria era di nuovo davanti all’officina. Nascosta dietro un platano dall’altra parte della strada, attendeva con il cuore in gola che la moglie di Gìdio uscisse per andare alla funzione; fu lui stesso, che già da un po’ la stava tenendo d’occhio nell’ombra della bottega, a farle un cenno di via libera. Un attimo dopo la porta si richiuse alle sue spalle. La prese subito, in piedi, selvaggiamente, dopo averle sollevato la gonna, tra gli attrezzi e tutte le cose polverose a cui Maria non avrebbe saputo nemmeno dare un nome. Dalla bocca dell’uomo non uscì una parola che non fosse un’oscena richiesta, un ordine o un’esplicita minaccia. Maria ritornò alla locanda che era ormai buio; prima di salire le scale chiese una tinozza e una brocca d’acqua. Si stava già spogliando che la padrona bussò alla porta del sottotetto e senza guardarla le porse anche un grosso pezzo di sapone. Maria, anche lei con gli occhi bassi, tese la mano e ringraziò.

Il giorno dopo, era domenica e giorno di visita, Maria varcò un’altra volta i cancelli del Sant’Artemio e si incontrò con Ardenghi; spiegò il piano che, suo malgrado, aveva elaborato con l’aiuto Gìdio. Tacque su tutto il resto, per pudore e per paura che tutto quel suo gran progetto sulla fuga di Italo potesse andare a monte.

Quella notte, Italo Ardenghi vegliava nella sua branda della camerata numero 12, immobile al buio aspettava che ogni rumore, ogni flebile lamento notturno si spegnessero. Nel pomeriggio era stato ben istruito da Maria, che a lungo l’aveva scongiurato di mettere da parte ogni scrupolo di coscienza e accettare di fuggire dal Sant’Artemio. Lontani da orecchie indiscrete, le istruzioni ricevute da Gìdio, che aveva mantenuto la promessa di aiutarli, erano state pazientemente ripetute più volte. Lo stagnino, avuta Maria, aveva lasciato intendere che per lui si trattava di un lavoro come un altro, il cui compenso, cosa rara, era stato riscosso in anticipo. E Maria ebbe addirittura di che rallegrarsi del fatto che, fortunatamente, non onorare la parola data non rientrava nelle sue meschine abitudini. Ardenghi aspettava e si raccomandava l’anima in silenzio, e il battito accelerato del suo cuore accompagnava ogni preghiera pronunciata a fior di labbra, anche se non era convinto che Dio avrebbe benedetto le richieste di un codardo. Dopo l’ultimo giro di ronda dell’infermiere di turno, era passata da poco mezzanotte, Italo scivolò lentamente fuori dalla branda e, scalzo com’era, attraversò il corridoio e iniziò a scendere le scale. Nessun rumore: come uno spettro, gradino dopo gradino, arrivò nel grande androne; spiò sporgendosi appena dalla tromba delle scale e vide con sollievo che la guardiola era buia e deserta, segno che anche Arduino, il custode, ormai dormiva. Sul fondo dell’androne si apriva la porta che conduceva nell’interrato, dove c’erano le caldaie e la lavanderia a vapore. Le luci notturne, azzurre e spettrali, trasformavano ogni ombra in un fantasma, il rimbombo delle alte volte faceva sembrare ogni scricchiolio l’approssimarsi di un pericolo incombente. Lentamente, strisciando contro il muro, Ardenghi si incamminò verso il fondo dell’androne, sempre accompagnato dal battito impazzito del suo cuore; ma la notte, al di là delle grandi vetrate aperte sulla campagna, era lì a promettere protezione e silenzio. Improvvisamente la luce fioca della guardiola si accese alle sue spalle, Ardenghi se ne accorse, spaventato, dal proiettarsi della sua stessa ombra sul pavimento. Si appiattì contro il vano di una porta laterale, immobile, trattenendo il fiato. Non era solo: qualcun altro vegliava. Certo Arduino, tormentato forse dall’artrite. Passarono al rallentatore i minuti, nel silenzio totale che nessun rumore si era permesso ancora di incrinare; poi la guardiola ripiombò nell’oscurità. Ardenghi attese qualche istante e poi, con pochi passi silenziosi ma decisi, raggiunse la porta dell’interrato, la cui maniglia cedette docilmente. Brancolando nel buio, a tentoni, scese la scala della lavanderia fino all’angusto pianerottolo dove, Gìdio era stato preciso, trovò un mozzicone di candela e dei fiammiferi in una nicchia ricavata nel muro.

Il Sant’Artemio era una struttura moderna, dotata di caldaie e impianti idrici d’avanguardia, e completamente autosufficiente nell’approvvigionamento. Anche le riparazioni venivano effettuate da una squadra di manutentori interni che, da bravi tuttofare, avevano imparato a mettere le mani su ogni impianto. Soltanto per l’autoclave, dove venivano disinfettati i panni dei ricoverati, installata appena prima della guerra, ci si rivolgeva ancora a un operaio esterno. Era questo il motivo per cui Gìdio, uomo rozzo ma pratico del mestiere, poteva entrare e uscire dall’ospedale con una certa facilità.

Oscurando la fiammella con la mano, Ardenghi si fece strada verso il fondo della cantina, dove troneggiava, lucido e misterioso, l’enorme macchinario; l’aggirò e raggiunse lo stretto divisorio tra la caldaia e il muro dove c’erano le valvole e i manometri. Seguendo quanto gli era stato riportato da Maria, attentamente istruita da Gìdio, svitò la valvola più grossa servendosi di una chiave che stava appesa al muro. Anche in questo particolare Gìdio, che evidentemente conosceva l’ambiente come le sue tasche, era stato preciso. Ardenghi allentò alcune guarnizioni e poi richiuse la valvola: la mattina dopo l’autoclave non sarebbe più ripartita, e il custode avrebbe mandato a chiamare Gìdio perché riparasse il guasto.

Poco dopo Ardenghi era di nuovo nel suo letto, e la notte riprese a scorrere nel silenzio degli androni. Dormivano i matti, ognuno avvolto nel proprio bozzolo di follia, ognuno con la propria storia racchiusa nella mente; dormivano i custodi di quell’umanità inquieta, che forse mai avrebbe ritrovato pace e decoro. Dormiva Gìdio, il sonno carico di pensieri di cui solo i bruti possono godere, ignari e capaci come sono di rendere uguali, nell’incoscienza del male, la notte e il giorno. Dormiva Maria, nel sottotetto della locanda della pescheria, con il ventre offeso, piena di trepidante attesa e speranza, legata ormai ad Ardenghi da un sentimento nuovo e misterioso. Soltanto i cadaveri dei soldati abbandonati dalla guerra nella terra di nessuno non dormivano. Loro, che ormai nulla di terreno poteva spaventare, vegliavano, in preda alla paura di essere dimenticati.

La mattina dopo iniziò l’attesa. Senza farsi notare, Ardenghi prese a passeggiare nel cortile, tra l’ingresso e il retro della lavanderia a vapore; guardava gli alberi, coglieva un fiore nelle aiuole, scambiava qualche parola con i ricoverati di passaggio. Era quasi sera quando vide finalmente il carretto di Gìdio avanzare lungo il viale principale; allora cavò di tasca il fazzoletto e lo tenne bene in vista davanti a sé, perché quello era il segnale per farsi riconoscere. Lo stagnino fermò il carretto accanto all’ingresso dove un paio di infermieri, preoccupati per l’accumularsi dei panni, lo stavano già aspettando come si aspetta un messia; lanciò ad Ardenghi uno sguardo in tralice e sparì, inghiottito dal vapore della lavanderia. Quando uscì, nemmeno un’ora dopo, Italo non c’era più. Il carretto riprese la strada, il cavallo, passo dopo passo, percorse tutto il viale, e il Sant’Artemio si allontanava lentamente alle sue spalle, mentre già scendevano le prime tenebre, amiche e complici.

«Sta là ti, sta sito e no state mòver» disse Gìdio quasi parlasse tra sé e sé. Ardenghi, nascosto sotto un telo sul fondo del carretto, ubbidì.

Prima di arrivare alle porte di Treviso, lungo uno di quei viali che ancora dividono le pietre della città dal verde rigoglio della campagna, sbucò da un cespuglio la figura di una donna che fece un timido gesto con la mano. Era Maria che, atteso un segno d’intesa, saltò sul carro e sollevò lesta una cocca del telo. Subito passò a Italo dei pantaloni e una camicia sdrucita che aveva avuto dalla padrona della locanda. Il carretto intanto si era fermato sullo sterrato a lato della carreggiata, il cavallo raspava piano, senza riuscire a raggiungere le frasche lì accanto. Scesero aiutandosi l’una con l’altro, e soltanto Ardenghi, sospettoso e ignaro, salutò Gìdio, che fece schioccare le briglie.

Ardenghi e Maria si incamminarono verso la libertà, tenendosi per mano, tra il fosso e i campi, nascosti a tratti dai gelsi e dalla notte.

Per Italo Ardenghi cominciava così un’altra vita.