Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa! [...]
Trilussa, Fra cent’anni
Caro Italo,
perdona se ti vengo a disturbare là, dove sei finito dopo aver combattuto e poi penato, come tanti altri tuoi compagni figli di quella sciagurata madre che è la guerra. So bene che i morti si dovrebbero lasciare in pace, ma tu sei morto per finta, perché sei solo un personaggio, un tenentino di fresca nomina fatto di carta, che ho creato al solo scopo di raccontare una storia, pure quella di fantasia, ma che potrebbe anche essere stata vera. Ti ho fatto venire al mondo a Treviso, città di guerra, e ti ho messo vicino un padre trepidante, più materno che paterno, una madre morta presto, e un grillo parlante travestito da oste burbero e buono che però, proprio come Pinocchio, non hai saputo ascoltare. Ti ho dato un nome e un cognome: Italo, da buon figlio di patria, e poi Ardenghi, declinato da quello spirito guerriero che mi suonava così odoroso di ardore e giovanile veemenza. Alla fine, come si fa con le marionette, ti ho sbattuto su un campo di battaglia – questo vero, purtroppo –, dove tanti ragazzi come te hanno lasciato la vita, sotto una luna di agosto che, in altri luoghi e in altri tempi, sarebbe stata buona complice d’avventura. La tua guerra è finita presto perché, cuore impavido e pistola in pugno, sei andato all’assalto alla testa della tua compagnia e, nell’orribile mischia del corpo a corpo, hai perduto la ragione.
E dire che l’idea di raccontare la tua storia, o meglio la mia storia di cui ti sei ritrovato, tuo malgrado, protagonista, è saltata fuori (Dio solo sa, poi, da dove vengano le storie) soltanto per caso, quando mi è capitata tra le mani una foto di scena di una commedia di Annibale Ruccello ambientata al tempo dei Borbone. Nell’immagine una donna e un uomo: lei, bellezza ormai sfiorita dal trucco di scena, discinta nella sua candida camicia da notte e lui, prestante e molto più giovane di lei, completamente nudo. Si intuiva tra loro un’intesa, un rapporto molto intimo. Nulla di più sapevo e nulla di più volli sapere: presi la foto e la misi da parte.
Qualche giorno dopo, mentre la neve stava ormai levando l’assedio al piccolo paese delle Dolomiti in cui per caso mi trovavo, un amico salutò una passante, e quella donna, istantaneamente, diede sembianza a Maria, tua salvatrice e protagonista femminile di questo romanzo. L’amico la salutò, lei mi passò accanto senza notarmi e sparì. Tanto mi è bastato: dall’immagine dei due amanti della commedia e da quell’incontro banale e fortuito, venne il desiderio di raccontare un rapporto dissimmetrico, in cui l’amore materno potesse tracimare in quello carnale, senza che su di esso gravasse l’ombra pesante dell’incesto.
Tempo dopo, seguendo le vicende della Grande Guerra che, ti confesso, mi hanno avvinto sin dall’infanzia, mi capitò tra le mani un libro, anzi un opuscolo, stampato in proprio e donatomi generosamente da Camillo Pavan, il suo autore, che narrava della battaglia del Basson, uno dei primi massacri sul nostro fronte, causato dall’assoluta imperizia degli stati maggiori, impreparati ai combattimenti di una guerra nuova, moderna e spietata. Iniziai così a pensare che le due storie potevano fondersi in un unico racconto, e la vicenda bellica, per quanto trasfigurata dalla narrazione, avrebbe potuto fare da sfondo.
Ebbe inizio una ricerca quasi maniacale di libri e dispacci, testimonianze e diari: avevo bisogno di sapere, conoscere la storia del Basson come se l’avessi vissuta accanto a te, immedesimarmi nel dramma dei fanti che uscivano alla disperata dalla trincea, e anche, forse, in quello del nemico (chi sia stato il tuo nemico, a cent’anni di distanza, resta da definire) che, con l’occhio nel mirino della mitragliatrice, dispensava morte da dietro un reticolato. Lessi il leggibile, cercando caparbio libri quasi introvabili e scomodando esperti – primo fra tutti Daniele Girardini, presidente dell’Associazione Cimeetrincee – e gli archivisti di alcuni quotidiani; approfondii la mia conoscenza di armi, calibri, strategie e divise, riuscendo a metter mano addirittura sull’archivio del Centoquindicesimo Treviso, il tuo disgraziato reggimento, sfortunato protagonista dello scontro.
Come sai, ho sempre confidato nel valore della mappatura del territorio di cui si scrive, del sopralluogo indispensabile a stabilire la topografia dei luoghi della narrazione, nonché nella possibilità di reperire sul campo spunti e nuove idee. Lo scrittore, è risaputo, deve saper inventare, costruire mondi figli della fantasia: alla fine, questo è il suo mestiere. Ma certe volte ha bisogno di toccare con mano, e per raccontare un muro deve andare a toccarlo, saggiarne la consistenza e valutarne l’umidità: poggiare la mano dove altri mille l’hanno poggiata, lasciando la loro impercettibile traccia. Quella traccia di verità che del racconto è l’anima.
Quindi, calzate scarpe buone per camminare lungo i sentieri, partii alla volta del Passo Vézzena, sul cui altopiano si trova il Basson, per venirti a cercare in quel campo di morte e scoprire – contrariamente all’immagine che mi ero fatto nella mente – che quel modestissimo rilievo erboso, chiavistello fortificato di quella che all’epoca veniva definita “la porta verso Trento”, è soltanto un’anonima collinetta trapassata dalle gallerie di marmotte ignare. Ma sapevo che sulle sue balze, la notte di plenilunio tra il 24 e il 25 agosto 1915, in poco più di un paio d’ore, malefica potenza della guerra, avevano trovato la morte ben millecento soldati, accompagnati al martirio con musica e bandiere. Quasi tutti veneti come te, soprattutto contadini delle province di Treviso e Pordenone, tanto che il Centoquindicesimo Treviso a cui appartenevi fu presto ribattezzato ironicamente “brigata clintòn”.
Studiai il campo di battaglia da varie posizioni, scattai foto e, carte d’epoca alla mano, risalii i pendii più volte, mentre una cupa tristezza mi seguiva passo passo, invadendomi l’animo. A un certo punto mi è sembrato addirittura che tu fossi al mio fianco, con la tua divisa e il berretto ancora nuovo. Forse anch’io ero in divisa e portavo un fucile. Ma si trattava soltanto di un gioco di ombre, un abbaglio del sole che, proprio in quel momento, era spuntato dallo Spitz Vézzena. Poco a poco riconobbi sul terreno le tracce dello scontro, la curva del trincerone austriaco, inutilmente preso d’assalto dagli italiani e i crateri delle granate, ancora ben visibili. In cima al Basson, centodue anni dopo la battaglia, c’era ancora un sentore di morte, e l’alito che passava tra l’erba e i cespugli era forse lo stesso che aveva disperso, allora, le urla dei feriti abbandonati sul campo. Il mio animo era invaso da un dolore sordo e impotente, ma trovai il coraggio di cavare di tasca una piccola armonica e suonare Il silenzio per te e i tuoi compagni che non sono tornati. Le note, ingenue ma sincere come quelle scaturite dall’ocarina del vecchio Celso, finirono chissà dove, portate lontano dallo stesso vento immemore.
Ho camminato sui tuoi passi, ho provato anche a correre su per quella collina maledetta, fingendo di andare all’assalto ma, siccome non ho più l’età per fare il soldato, il fiato mi è mancato, e sono rimasto a guardarmi intorno, mentre una marmotta fischiava per avvertire le compagne che un estraneo stava violando il loro regno, turbando la pace dei fantasmi che lo abitavano.
Poi, man mano che il lavoro di scrittura procedeva, si fece avanti la necessità di saperne di più su matti e manicomi, perché è lì che avevo deciso che saresti finito dopo quel colpo di vanghetta alla testa ricevuto in battaglia. E qui le cose si complicarono alquanto: cosa fanno i matti? Come spendono il loro tempo? E se qualcuno guarisce – come avevo previsto accadesse a te – attraverso quali strade riacquista la ragione? Ancora una volta mi buttai a capofitto nello studio di saggi e relazioni su pazzi di guerra e simulatori, sistemi di contenzione e cure; ma l’aiuto più grande venne dalle rivelazioni di un custode del museo dell’ex ospedale psichiatrico veneziano dell’isola di San Servolo trasformato, anni dopo essere stato dismesso, in sede universitaria. Mi raccontò delle docce fredde, delle febbri malariche usate come tentativo di cura, delle urla notturne e dei silenzi improvvisi. Poi dell’oblio. Quell’angelo informatore, ne sono sicuro, me l’hai mandato proprio tu che, vistomi in impaccio, hai deciso di darmi una mano.
Considerata la mia intenzione di raccontare le sofferenze dei mutilati del volto – argomento di cui raramente ci si è presa la briga di parlare e che mi stava molto a cuore – cercai in rete, e davanti a me, che per fortuna la guerra non l’avevo mai vissuta, si spalancò il baratro dell’orrore. Ciò che Ernst Friedrich ha documentato nel suo Guerra alla guerra, è nulla davanti a quanto oggi internet ci ha messo a disposizione: volti straziati, ridotti a poltiglia sanguinolenta e poi trasformati in grottesche maschere di dolore dai primi, volonterosi tentativi di ricostruzione estetica, comparivano sul monitor come mostri, popolando i miei sogni di apparizioni orribili: meglio la battaglia, mille volte meglio la morte sul campo. Invece la potenza mostruosa della guerra aveva saputo creare anche questo: giovani ancora forti e sani nel corpo, e miracolosamente scampati alla morte come il tuo amico Svuàl, costretti a fuggire i loro simili per il resto dei giorni, incapaci di sostenere l’orrore che il loro aspetto provocava. Molti di loro spesero la vita impegnati in lavori di semplice artigianato in ospedali inaccessibili a chiunque; altri – meno deturpati – si adattarono a mendicare il pane con il volto coperto dietro pietosi e grotteschi posticci. Per altri ancora – forse con il loro stesso consenso – fu comunicato alle famiglie il decesso: morti prima della morte e sepolti là dove nessuno avrebbe più pensato di andare a cercarli.
E tutti furono dimenticati. Persino dal fascismo che, così interessato al sostegno di reduci e mutilati di guerra, mai li avrebbe voluti accanto ai loro gagliardetti alle sfilate, probabilmente perché, alla vista di quei volti straziati, nessuno avrebbe più voluto sentir parlare di armi e guerre.
Per darti rifugio, dal momento che eri ormai un disertore in fuga, la mia fantasia scelse Rucorvo, località davvero esistente – come, d’altra parte, l’Altopiano di Vézzena e il Sant’Artemio di Treviso – dalle parti di Perarolo di Cadore. Ma qui l’immaginazione prese il sopravvento e decise di darti un po’ di pace inventando tabià, alpeggi, fontane e granai. Pensando alla groppa delle mucche che fuma al mattino sotto ai raggi del sole e al crepitio dei sacconi di scartocci di pannocchia, il cuore si scaldava nello scrivere, e «quello sputo di paese ai piedi delle Dolomiti» prendeva sempre più l’aspetto di un piccolo mondo dove anch’io avrei potuto scomparire, dimenticato dal mondo e del mondo dimentico. O forse da dove avrei potuto continuare a guardarlo, il mondo, magari attraverso il cannocchiale rovesciato della fantasia. Certo, magari a lumi spenti, un buono psicologo saprebbe spiegare come mai in ogni mio libro si può leggere, in filigrana, un desiderio di fuga, di oblio, forse di grande cambiamento. Comunque, di sicuro, tra le quattro case di Rucorvo, ti avrei incontrato, Italo, conosciuto; forse ti sarei stato amico se non consigliere, come lo è stato per me Graziano Tognolo, prodigo di notizie sul dialetto e la vita nel Cadore.
Alla fine, seguendo le vicende semplici tue e di Maria, la mia scrittura si è adattata al passo giusto per raccontare di sentieri sconosciuti, case abbandonate e spelonche avvolte dalle tenebre notturne, quando misteriosi gocciolamenti turbano il riposo del viandante che tra quelle mura ha trovato precario rifugio. E su quel mondo, l’odore del fumo della legna che arde nel larìn, del panno delle divise inzuppato di pioggia e di cucina antica e frugale. Ma anche il profumo accogliente del fieno, quando il sole lo riscalda penetrando nei granai e fa venir voglia di stendersi sopra a fare l’amore come facevate tu e Maria. E almeno in questo, mio giovane amico, non avresti avuto bisogno di suggerimenti né consigli, perché la tua era l’età giusta per dimenticare il mondo, e persino la guerra, tra le braccia di un’innamorata.
Ma c’è forse ancora qualcosa. Di te il lettore viene a sapere poco e, salvo che sei un giovane studente e allievo ufficiale vicino ai movimenti interventisti, favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Triplice Intesa, nulla del tutto del tuo carattere e delle tue attitudini. Quel poco che si sa è decisamente sovrapponibile alla sbiadita cartolina d’epoca di fanti con le mani da contadino, o ufficialetti di cavalleria in posa davanti all’obiettivo. Facce già pronte per essere stampate sulle foto listate a lutto da distribuire ai parenti e consegnare al passato.
Se avessi deciso di “spiegarti” con le parole, anziché lasciare che fossi tu stesso a raccontarti con i tuoi rari atteggiamenti – a volte, lasciamelo dire, di retorico pragmatismo, altre di legittimo stupore –, avrei rischiato di fare di te un personaggio da operetta. Il classico giovane ufficiale di fresca nomina e belle speranze che, poco dopo l’arrivo in trincea, cozza inevitabilmente contro un proiettile nemico o la devastante realtà bellica fatta di sangue, mutilazioni, inutili sofferenze e morte. Tutto ciò avrebbe pericolosamente aggregato queste mie pagine alla schiera dei romanzetti d’appendice, letture leziose e, in definitiva, inutili. E questo, lo so per certo, a noi due non sarebbe andato bene.
Il mio obiettivo, invece, è stato quello di fare di te semplicemente “colui che incontra”, o meglio, “colui che ascolta” gli altri personaggi nella prima parte del racconto: il padre trepidante, l’oste Vittorino anti-interventista convinto, il sergente maggiore degli alpini, il cinico capitano Baroni e l’ironico ex compagno di corso Pecchioli. Hai ascoltato, spesso con malcelato stupore, le loro rivelazioni sulla guerra, che hanno assunto spesso alle tue orecchie i connotati di una macabra e spietata epifania. Il viaggio verso il fronte si è quindi trasformato in un vero e proprio percorso iniziatico e in un’indispensabile e doverosa presa di coscienza.
Questo stratagemma letterario ha avuto un solo e unico scopo: lasciare che alla tua figura si sovrapponesse quella del lettore che, almeno nelle intenzioni, sarebbe diventato – spero mi vorrai perdonare – il vero protagonista della storia.
Devi sapere, caro Italo, che ero stato preso dalla tentazione tutta letteraria di scrivere la parola guerra con l’iniziale maiuscola, come si trattasse di uno dei personaggi del romanzo. Invece, ho deciso di calpestare sentieri forse meno poetici ma più ortodossi; tuttavia nella mia mente il pensiero rimane: la Guerra – quella con la maiuscola del nome proprio –, spettro maligno evocato dall’uomo, gioca con i destini e li scompagina a suo piacimento. Riunisce le storie dei soldati nella trincea e le separa brutalmente quando – beffa del destino – il colpo arriva, e di chi un attimo prima era vivo rimane soltanto qualche brandello insanguinato, come decisi dovesse accadere al povero Pecchioli. Tutto può cambiare in un momento: i confini come la sorte degli uomini, e così il tuo destino. Tu, Italo, ritenuto ormai spacciato, ritorni a vivere, chissà dopo quali avventure, in uno sperduto paesino austriaco. E, nella finzione del romanzo, sarà proprio tuo figlio a raccontare la storia, narratore immaginario, impossessatosi a tradimento della mia penna.
I nostri lettori potrebbero farsi altre, legittime domande: cosa ti è accaduto una volta giunto in Austria? Come riuscì la pietosa Katharina a salvarti dalla malattia e forse dal campo di prigionia? Come decidesti – se fosti tu a decidere – di sposarla e avere un figlio da lei? E fu questo il motivo per cui Maria, che continuava a nutrirsi di dolore, non ebbe più notizie? Fu per il timore della condanna per diserzione che nemmeno tuo padre seppe più nulla di te?
Chissà, forse in un altro momento la storia dello scemo di guerra, la tua storia, Italo, potrebbe ritrovare la strada per essere raccontata ancora, cominciando proprio da quei giorni del 1917, quando quell’ambulanza traballante si allontanò nella pioggia. Ma intanto sono passati cent’anni.
Così ti abbraccio, soldato di carta più vero del vero: salvati da tutte le guerre, magari scappando un’altra volta in qualche posto dimenticato da Dio. E abbi cura di te.
Paolo Ganz, autunno 2018