Lo scritturale di servizio intinse ancora una volta il pennino nel calamaio, completò la bassa di passaggio e calò il tampone, poi asciugò accuratamente il pennino e ripose la penna nell’astuccio di legno. Impugnò il timbro, ci alitò sopra e completò il documento con un colpo che risuonò secco tra le alte volte dell’ufficio. Solo a quel punto l’anziano capitano si riscosse, alzò la testa dalla scrivania e guardò l’allievo ufficiale che gli stava davanti

«Centoquindicesimo, vero, tenente?» interrogò. «La nuova Brigata Treviso».

«Signorsì!» rispose l’allievo irrigidendosi sull’attenti. «Sottotenente Ardenghi Italo, Centoquindicesimo Reggimento...».

«Comodo, comodo» lo interruppe il superiore con un sorriso malinconico, «stia pur comodo, tenente».

«Grazie, signore!» rispose Ardenghi rimanendo comunque sull’attenti.

Il capitano prese dal cassetto un sottile sigaro, lo accese, e dense spirali di fumo azzurrognolo iniziarono a salire pigramente verso l’alto. Si alzò e raggiunse il centro della stanza attraversando la nuvola di fumo illuminata dal sole; l’ippocastano che stava di fronte alla finestra spalancata stormì brevemente, e dal cortile arrivò il suono dei passi cadenzati della guardia montante al presidio. Il capitano si affacciò e rimase a guardare in silenzio i giovani in divisa, le loro facce chiuse, marziali, gli sguardi fissi sotto la visiera del berretto a tubo. Si appoggiò al davanzale e si incantò su una mezza dozzina di anatre che risalivano pigramente la corrente del fiume. Ardenghi, che non aveva ancora osato muoversi, lo spiò voltando appena la testa. L’ufficiale se ne accorse.

«Riposo, tenente, riposo» invitò ancora una volta sorridendo paternamente nell’accorgersi che il giovane allievo era ancora sull’attenti. «Venga piuttosto qui a vedere».

Ardenghi si avvicinò incerto alla finestra, il capitano si era spostato per fargli posto.

«Guardi che meraviglia, in una giornata come questa si potrebbe andare a passeggiare lungo il Sile: una bella passeggiata sotto ai salici e poi una sosta all’osteria».

Ardenghi si accorse che lo scritturale, seduto al suo posto, guardava il superiore con malcelata ironia, forse con compatimento. Il capitano riprese:

«Vede, tenente, è agosto, questo è vero, ma qui, dove il Sile fa quest’ansa, c’è sempre un po’ di frescura. Basta tenere la finestra aperta» sorrise della sua ingenua scoperta, «non le pare?».

Sull’altra sponda del fiume, lungo riviera Garibaldi, qualche passante affrettava il passo verso casa nella canicola, probabilmente ansioso di mettersi a tavola. Il tenente annuì incerto e lo scritturale, sicuro di non essere visto, fece una smorfia complice, picchiettandosi la tempia con la punta dell’indice.

«Centoquindicesimo Treviso» riprese il capitano, che probabilmente si era accorto di essersi lasciato prendere la mano, fissando il colletto dell’allievo, «mostrine nuove di zecca, eh?».

«Signorsì! Centoquindicesimo fanteria».

La nuova brigata era stata costituita proprio nel marzo del 1915, in fretta e furia, riunendo i depositi del Cinquantacinquesimo, del Cinquanteseiesimo e del Primo Fanteria: tutti soldati delle province venete, contadini e operai. C’era ormai aria di mobilitazione: l’Italia aveva segretamente trattato con la Triplice Intesa e voltato le spalle all’ultimo momento all’Austria-Ungheria e alla Germania, la Triplice Alleanza che, già dall’estate del 1914, aveva scatenato il conflitto in tutta Europa dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, avvenuto il giorno di San Vito a Sarajevo. Il giovane Ardenghi, che suo padre volle chiamare Italo a indelebile conferma della sua fede patriottica, si era arruolato volontario ed era stato spedito alla scuola per allievi ufficiali di Padova, da cui era uscito sottotenente proprio all’inizio di agosto. Il Centoquindicesimo Treviso, il reparto a cui era stato assegnato, si trovava già sull’Altopiano di Vézzena, tra Campo Rosà e Cima Mandriolo, alternando periodi di linea e riposo.

Il capitano raccolse la bassa di passaggio dal tavolo del furiere e la porse al giovane ufficiale, che la piegò riponendola nella tasca interna della giubba.

«Quindi lei adesso parte per raggiungere il reggimento».

«Signorsì, domattina presto».

Il vecchio ufficiale rimase in silenzio per un istante, forse il suo pensiero era lontano da quell’ufficio del distretto. Poi, all’improvviso, congedò l’allievo quasi con eccessiva risolutezza.

«Vada, tenente, vada!».

Ardenghi si irrigidì ancora una volta sull’attenti, lo sguardo fisso nel vuoto, il berretto d’ordinanza sotto il braccio sinistro elegantemente piegato, la mano destra perfettamente allineata con la cucitura dei pantaloni grigioverdi. Fece dietrofront, camminò impettito fino alla grande porta ad arco spalancata, da cui si potevano vedere le scale che scendevano, e qui si voltò e salutò ancora, battendo pesantemente i tacchi. Il legno del pavimento del vestibolo moltiplicò il colpo come una cassa armonica, e il rimbombo lo precedette giù per la tromba delle scale.

Il vecchio capitano era rimasto appoggiato alla scrivania dello scritturale, gli occhi fissi su quel ragazzo che scendeva gli scalini e scompariva, poco a poco, dalla sua vista.

Italo Ardenghi attraversò il cortile sotto il sole che colpiva il selciato come un maglio rovente, controllando che il suo passo fosse sufficientemente marziale: qualcuno, forse, lo stava osservando da dietro una finestra. Avvertì una curiosa soddisfazione sentendo ballare la fondina della Glisenti alla cintura. Sotto al lungo portico d’uscita l’aria era fresca e leggera; riconobbe, stagliata contro il sole che splendeva sul Sile, la sagoma del carabiniere di guardia, con in testa il suo buffo cappello a lucerna. Era appoggiato al muro nell’ombra amica e non l’aveva sentito arrivare. Batté più forte il passo sul selciato e quello si ricompose scattando sull’attenti.

«Oh, mi scusi, signor tenente!».

Ardenghi gli passò davanti con un lieve cenno di saluto e uscì nella calura estiva; le anatre del capitano erano ancora lì che sguazzavano, come sospese sulle lunghe alghe verdi ondeggianti nella corrente.

Attraversò ponte Dante deserto, e passando accanto al piccolo ballatoio sospeso sull’acqua lesse ancora una volta:

«...dove Sile e Cagnan s’accompagna», il passo della Divina Commedia inciso sulla stele di marmo. «...tal signoreggia e va con la testa alta, che già per lui carpir si fa la ragna» completò a mezza voce, citando a memoria. «Canto IX, verso 47» concluse quasi soddisfatto.

Ricordi di liceo ancora freschi e presenti, memorie delle lunghe ore di studio trascorse al suo tavolo, davanti al balcone spalancato, accanto ai libri, la tazza di caffè leggero che suo padre, di tanto in tanto, si preoccupava di riempire. Una canzone nell’aria e nel cassetto la lettera del Regio Esercito con cui lo si accettava alla scuola allievi ufficiali.

La guerra era già scoppiata e l’Italia, al momento, ne era rimasta fuori. Ma la neutralità non sarebbe durata a lungo, ormai lo si era capito. Il babbo a stento tratteneva l’orgoglio per quell’unico figlio che presto si sarebbe diplomato e poi diventato ufficiale, e quasi se ne compiaceva con i vicini. La mamma, dal ritratto nella cornice argentata sul tavolino del salotto, rispondeva con un malinconico sorriso.

Ardenghi, perso nei suoi pensieri, imboccò il vicolo che, staccandosi dalla riva del Sile, risaliva verso il centro della città. Treviso cuoceva sotto l’implacabile sole di agosto, anche la leggera brezza del fiume si era ormai liquefatta, imprigionata dalle pietre e dai muri delle case. Gli scarponi d’ordinanza risuonavano sui ciottoli della carreggiata, dalle finestre spalancate dei primi piani giungeva un tintinnio di posate e stoviglie. L’allievo ufficiale soffocava nella divisa di panno, e le fasce mollettiere gli stringevano i polpacci. Avrebbe voluto almeno slacciare il colletto della giubba, ma non ne aveva il coraggio: le stellette argentate, il berretto con la rigida visiera e la pistola al fianco gli davano un aspetto marziale che non poteva tradire. Italo Ardenghi era ormai un ufficiale del Regio Esercito, e tra poche ore si sarebbe trovato, come aveva letto sulla bassa, «in territorio dichiarato in istato di guerra».

Raggiunse l’osteria affacciata sulla piazzetta, entrò scostando la tendina e gli venne incontro l’odore familiare di mosto e caligine. Fece due passi quasi alla cieca, con negli occhi ancora il riflesso abbacinante della strada, salutò con un secco «buongiorno» il silenzio e sedette nella saletta deserta; soltanto qualche mosca ronzava monotona attorno ai salumi appesi. Si tolse il berretto e lo depose sul tavolo volgendo orgogliosamente il fregio verso l’esterno, proprio in quel momento l’oste riemerse dalla botola della cantina che stava sul fondo dello stanzone. Posò sul banco qualche fiasco e, riconoscendolo, lo guardò di sottecchi con un mezzo sorriso, così come si guarda un bambino capriccioso che ha finalmente ottenuto ciò che desiderava.

«Siamo in partenza allora, vero, signor tenente?».

Ardenghi annuì. L’oste trafficò dietro al banco con aria fintamente assente.

«Alla fine, voi studenti di belle speranze l’avete ottenuta questa benedetta guerra».

«Io non ho voluto un bel niente» replicò secco Ardenghi. «La guerra andava fatta e basta!».

Il vecchio scosse il capo e il tenente subito si pentì di quella risposta quasi rabbiosa. L’oste prese un bicchiere e uno dei fiaschi di vino fresco che aveva portato dalla cantina e si avvicinò al tavolo.

«Bevi un bicchiere, Italo, alla tua salute, e a quella di tuo padre» e aggiunse poi gravemente, a bassa voce: «Che rimane solo».

La paglia del fiasco odorava di umido e di muffa, come la cantina ingombra di cose dimenticate e misteriose che Ardenghi aveva conosciuto sin da bambino. L’oste accostò una sedia e gli si sedette accanto.

«Allora, quando parti?» chiese quasi con tenerezza.

«Domattina, Vittorino, questa è l’ultima notte che passo a casa».

«Cosa dice il vecchio?».

L’allievo fece un gesto vago. «È orgoglioso, però è anche preoccupato».

«Lo capisco» assentì gravemente l’oste incrociando le mani, i gomiti piantati sul tavolo, «là, dalle parti dell’Isonzo, sono già pasticci, a quanto pare. Cadorna dice che per l’autunno sarà tutto finito, ma io non ci credo, non ci ho mai creduto».

«Lo so, Vittorino, tu sei sempre stato contrario all’intervento».

«Salandra doveva farci restare fuori dalla guerra» scandì puntando l’indice ossuto, «e, se andrà male, l’Austria questo tradimento non ce lo perdonerà di sicuro. La guerra fa comodo soltanto agli industriali e a chi produce armi».

«Discorsi da socialisti, Vittorino!» ribatté Ardenghi deciso vuotando il bicchiere. «Giolitti, i cattolici, i riformisti: anche tra voi socialisti c’è qualcuno che è per l’intervento. E poi qui si tratta di completare l’Italia: mancano Trento, il Trentino e Trieste, e presto li avremo. D’Annunzio ha detto...».

«Lassa star quel piàvolo!» saltò su l’oste. «Per lui e le sue puttane tutto è un gioco!».

Il giovane tenente questa volta, rispettosamente, lo lasciò dire. Il vecchio scosse la testa e giocherellò per un momento con il berretto grigioverde appoggiato al tavolo.

«Mah, speriamo. Tu intanto dove sei destinato?».

«Raggiungo la mia brigata che è già in linea in Val d’Assa, poi si vedrà».

Si alzarono senza più parlare, le mosche continuavano il loro infinito girare in tondo. Ardenghi guardò la vecchia pendola, la lama lucida dell’affettatrice, il grosso acquaio di granito con i bicchieri e le caraffe di terraglia, tutte cose che aveva visto quasi ogni giorno.

«In bocca al lupo, tenente» lo congedò l’oste con gli occhi lucidi, «salutami il papà».

«Grazie, Vittorino, sarà fatto».

Si abbracciarono, poi Ardenghi uscì sull’acciottolato rovente, si aggiustò il berretto in testa e, senza più voltarsi indietro, si diresse spedito verso il portone di casa.

Il padre gli aprì la porta composto, forse ancora vergognoso per la commozione, scaturita da un sentimento più materno che paterno, con cui l’aveva accolto due giorni prima quando, dopo mesi di lontananza, se l’era visto tornare dalla scuola ufficiali in divisa e ormai uomo fatto. Qualcuno, certo richiamato dallo scalpiccio sulle scale, si era affacciato alla ringhiera a guardare.

«È Italo» spiegò orgoglioso il padre, «parte domani».

Una vicina disse di aspettare un momento, Ardenghi rimase sul pianerottolo imbarazzato. Dopo un istante, sospinta dalla donna, comparve una bambina con in mano una bandierina:

«Ecco, dalla a Italo che va a fare la guerra». E poi, rivolta al giovane: «Vedrà tenente, che le porterà fortuna!».

Era un piccolo tricolore, uguale a quelli che Italo e i suoi compagni sventolavano quando, decisi a sostenere l’intervento dell’Italia, uscivano dalle aule del liceo e sfilavano per le strade di Treviso, inneggiando a Battisti, Corridoni e D’Annunzio. Un giorno, dalle parti del Calmaggiore, avevano incrociato un drappello di ragazze della vicina scuola magistrale, cinguettanti ed euforiche, che avevano appuntato sulle loro giacche delle coccarde tricolori. Per un lungo attimo gli occhi di Italo si erano incontrati con quelli di una di loro, una ragazzina minuta e infagottata in un lungo cappotto dal collo di pelliccia; aveva sentito le compagne chiamarla Clara. L’aveva poi rivista la domenica pomeriggio, seduta al tavolino di un caffè del centro, in compagnia di un’amica. Quando la salutò con un discreto gesto della mano, lei abbassò lo sguardo ma, uscendo, Italo si accorse che lo stava spiando attraverso le tendine della vetrina, indicandolo all’amica sorridendo. Poco dopo, ottenuto il diploma, era partito per la scuola allievi ufficiali.

Il babbo richiuse la porta alle sue spalle e rimase a guardarlo trepidante:

«Sei stato al distretto?».

«Sì, papà» disse Italo appoggiando alla consolle dell’ingresso la bassa di passaggio, «parto domattina. Alle cinque c’è un treno per Vicenza e da lì, così mi hanno detto, ci sono dei convogli militari che risalgono dalla Valdastico all’altopiano. In qualche modo arriverò».

«Vedrai che andrà tutto bene. Dicono che il fronte alpino è tranquillo: qualche scaramuccia tra pattuglie, qualche colpo d’artiglieria quando si svegliano i forti dell’altopiano. Ho letto proprio ieri che anche sull’Isonzo le cose dovrebbero sbloccarsi presto, e Gorizia sarà italiana, finalmente. Cadorna ha detto che a Natale sarete tutti a casa».

In certi caffè, la sera, si parlava di guerra spiegando i giornali del mattino rimasti sui tavolini. E più lontani dal fronte erano questi caffè, più le congetture diventavano ardite e del tutto ignare di cosa la guerra fosse veramente. I commendatori, inforcati gli occhiali a pince-nez, esibivano sbracciandosi le loro strategie, i colpi di mano e i piani d’assalto, a una platea di attenti avventori, ansiosi di poter dire la loro. Alla Stella d’Oro, il vecchio caffè della borghesia trevigiana, si era addirittura provveduto ad affiggere al muro una carta geografica, dove i clienti potevano seguire e verificare l’andamento dei combattimenti. Quando poi si diffuse la notizia che, in alcuni settori, le linee italiane e austriache si trovavano solo a pochi metri una dall’altra, si diffuse tra i commentatori come un ritornello la frase: «...che problema c’è? Quattro salti e la trincea nemica è presa!». Sommo dileggio per quei poveri fanti che avevano ricevuto l’ordine perentorio di farli, quei quattro salti, e i cui cadaveri, abbandonati nella terra di nessuno, si disfacevano ora al sole di agosto.

Qualche capo ufficio, al sicuro dalla chiamata alle armi per evidenti ragioni anagrafiche e di casta, teneva a man salva pubbliche orazioni ai subalterni trepidanti che, in quell’accozzaglia di discorsi rassicuranti e paternalistici, intravedevano già la possibilità di una raccomandazione, forse addirittura di un esonero. Intanto, solerti dame di carità organizzavano lotterie il cui ricavato sarebbe stato destinato all’acquisto di generi di conforto per i soldati. Altre, ogni pomeriggio, si riunivano nei salotti di famiglie borghesi per confezionare maglie di lana, mentre la padrona di casa, con altrettanta solerzia, serviva tazze di tè e pasticcini. Non dimenticavano mai di inserire nella cucitura di ogni capo un nastrino tricolore, sul collo oppure sul petto, dalla parte del cuore.

Per Italo Ardenghi fu una notte inquieta, piena di timori che presto, nella coscienza incerta del dormiveglia, si tramutarono in funesti presagi. Come in un teatro assisteva alla messa in scena del suo destino, attore e spettatore a un tempo. C’era la guerra adesso, e le sagome contro le quali aveva vuotato i caricatori della sua Glisenti al poligono sarebbero state presto i nemici: uomini come lui, in carne e ossa, che avrebbe dovuto forse uccidere. E i compagni di corso, che aveva comandato quando, per esercizio, gli veniva affidato il plotone, una compagnia di veri soldati che l’avrebbero seguito, armi in pugno, verso le trincee austriache. Poi c’erano l’onore, la silenziosa apprensione di suo padre, la bandiera, gli inni e le nuove stellette d’argento sulle maniche. E il fregio del Centoquindicesimo Treviso sul berretto, la nuova brigata alla quale, come aveva spiegato il colonnello nel congedarlo il giorno prima, doveva essere orgoglioso di appartenere.

Il cielo sopra Treviso, quella notte, fu rischiarato a tratti da una vaga e inspiegabile luminescenza che si diffondeva a oriente; un bagliore fatuo e maligno che certo non poteva essere attribuito alla vampa dei bombardamenti troppo lontani. E il cupo rotolio che si avvertiva nell’aria altro non era che lo sferragliare delle tradotte cariche di truppe, giù alla stazione. Il tossire del padre, certo anche lui insonne, rassicurava il giovane tenente come una carezza; lo traeva dal sonno e poi lo lasciava andare, tra lunghi intervalli di silenzio. Fu un’interminabile notte di attesa, in cui Ardenghi sentiva la vita vibrargli dentro. Forse perché, ma questo non lo poteva sapere, quella notte era l’ultima che avrebbe trascorso nella casa dove era nato, nel suo letto, cullato dal ticchettio ipnotico dell’orologio a pendolo.

Si addormentò appena prima dell’alba, il padre era già in cucina a preparargli una tazza di caffè, riunendo sul tavolo qualche provvista per il viaggio: mezzo salame, delle fette di pan biscotto, un piccolo fiasco di vino e un sacchetto di noci. Poco dopo lo svegliò dolcemente.

«Italo, è ora».

«Sì» rispose lui, con voce ancora bambina.

Arrivò alla stazione a piedi, attraversando la città addormentata, in bocca ancora il gusto del caffè di casa. Stringeva nella stessa mano la spada, infilata nel suo fodero di stoffa grigioverde, e la bassa di passaggio, pronta per essere mostrata all’ufficiale di servizio. Gli androni erano pieni di soldati che avevano bivaccato lì; molti dormivano ancora, la testa sullo zaino. Altri si affaccendavano attorno a magri fuocherelli di sterpi, accesi lungo i marciapiedi. Su tutto, un odore greve di uomini e casermaggio. Un grosso fante, sicuramente un richiamato a cui era toccata una divisa troppo stretta, lo guardò passare masticando parole incomprensibili, certo di disprezzo. Ardenghi finse di non sentire. Nessun altro si curò di lui, e infine Italo salì su un treno che partì poco dopo per Vicenza.

Pochi militari stravaccati sulle panche di legno fumavano o giocavano a carte; anche qui qualcuno dormiva, altri parlavano tra loro, chi ad alta voce, chi piano, come cospiratori. Il nome che veniva ripetuto più spesso era quello di Cadorna, da alcuni a fior di labbra con sommesso timore, come scolari che non vogliono scatenare le ire del maestro; da altri con malcelata, decisa ostilità. Nel silenzio delle frequenti soste in aperta campagna, per lasciar passare convogli con precedenza assoluta, veniva dal vagone accanto il suono querulo di un mandolino. I soldati più anziani si distinguevano per le facce serie e le lettere che leggevano e rileggevano, cavandole continuamente dalle tasche della giubba; certo pensavano alla casa, alle mogli e ai figli, ai lavori nei campi o in bottega. Infastiditi dagli scoppi di risa dei commilitoni di leva, li guardavano in tralice, come si guardano delle vacche portate al macello che non hanno capito verso quale destino si stanno incamminando. La campagna veneta, intanto, sfilava sonnacchiosa ai finestrini, mentre il sole di agosto ormai si alzava all’orizzonte.

Italo Ardenghi, che si era appena appisolato, si riscosse in uno stridore di freni alla stazione di Cittadella. Salirono due donne cariche di fagotti che sapevano di umidità e miseria, e si sedettero proprio di fronte a lui. Quella più giovane, cercando di non dare nell’occhio, iniziò a guardare insistentemente le mostrine sul colletto della giubba di Ardenghi; confabulò sottovoce con la madre che, mentre il treno era appena ripartito, si fece coraggio.

«El me scusa, sior tenente, se me permeto: zé anca lu dea Brigata Treviso?» chiese la vecchia indicando le mostrine. Ardenghi annuì un po’ meravigliato.

«Sì, signora» rispose quasi con dolcezza.

«Forse, par caso, conose me fiòl? Fante Gardelin Angelo, clase ’85, setima compagnia, secondo bataglion».

«Purtroppo no, signora, mi dispiace. Sto raggiungendo adesso il reparto».

«Oh, no l’ zé preocupe: pasienza, no zé niente».

In quell’estate torrida, metà Italia, vestita in grigioverde, raggiungeva il fronte, comandata a fare il proprio dovere, e l’altra metà trepidava per chi andava a combattere. Solo nelle più grandi città lontane dal fronte la vita sembrava continuare indisturbata, come se la guerra non esistesse. Le strade che salivano, lente o ripide, ai campi di battaglia del Carso o dell’altopiano erano come vene, però non portavano sangue o linfe vitali, ma giovani uomini ignari votati allo sfracello e carriaggi carichi di armi terribili. La civilissima Europa aveva ormai dimenticato l’agiata, indolente avventura della Belle Époque, e con essa l’automobile, l’illuminazione elettrica, il telefono, la radio, e tutte le altre mirabili invenzioni che, a cavallo dei due secoli, avevano fatto gridare al miracolo e al progresso. Si era gettata a capofitto nella fornace della guerra, e forse anche gli stessi uomini che per primi avevano impartito gli ordini assistevano ora attoniti all’orrore della tempesta da loro stessi evocata.

Il treno arrivò a Vicenza all’ora di pranzo; la stazione era un viavai continuo di soldati e civili, un indescrivibile groviglio di divise in una babele di corpi e reggimenti. Solo qualche recluta si irrigidiva sull’attenti al passaggio del giovane tenente: la maggior parte continuava a occuparsi del bagaglio, salutava i parenti e si incamminava verso il proprio treno. La tradotta che passando per Thiene l’avrebbe portato alle Rocchette partiva due ore dopo, così uscì presto dalla stazione in cerca di una trattoria. Attraversò Campo Marzo, dove alcune compagnie sostavano in attesa della loro tradotta. Deposti gli zaini e messi i fucili in fascio, sedevano in piccoli gruppi; gli ufficiali camminavano avanti e indietro, fumando e discutendo tra loro. Un capitano fece un cenno di saluto, un altro portò distrattamente due dita alla visiera del chepì, e Italo Ardenghi si accorse che il suo mondo era già lontano.

In una trattoria gremita di soldati, all’angolo del teatro Verdi, trovò un posto nella saletta riservata a ufficiali e sottufficiali; l’oste, sudato e ansimante, lo accolse con ostentata cordialità, asciugandosi le mani nel grembiale. Sedette accanto a un sergente maggiore degli alpini, un omone cupo e roccioso come i monti tra i quali era certamente nato.

«Posso?» chiese Ardenghi spostando la seggiola; l’altro fece un cenno col capo senza parlare e si tirò accanto il cappello che aveva appoggiato sul tavolo. Mangiava curvo sul suo piatto di minestra, come se con le grosse spalle da montanaro volesse proteggerlo. L’allievo ufficiale, cautamente, cercò di attaccare discorso.

«Com’è?» esordì indicando il piatto. «Pare non sia male dall’odore».

L’alpino alzò appena la fronte.

«Si può mangiare. Sempre meglio di quella sbobba che passa l’esercito».

Ardenghi rimase interdetto, perché non si sarebbe mai aspettato una risposta tanto decisa e irrispettosa, soprattutto da un graduato. L’alpino veniva dal fronte, si capiva dalla divisa logora e a tratti chiazzata di fango.

«Di che battaglione sei?».

«Val Brenta, sono sceso questa mattina dall’altopiano».

«Vai in licenza?» chiese Ardenghi, ansioso di non far morire la conversazione.

«No, il vecchio sta male, pare che sia agli ultimi».

«Ah, mi dispiace. Di dove sei?».

«Di un paese dalle parti di Ponte nelle Alpi, il mio treno parte alle tre».

«E il tuo battaglione dove si trova?».

«In linea, sull’Altopiano di Vézzena, a Malga Marcai».

Ardenghi sentì un brivido, e la curiosità per quel soldato che tornava dal fronte crebbe ancora, perché quello era il tratto del fronte in cui era schierato anche il Centoquindicesimo Treviso.

«Devo andare proprio lì: il mio reggimento è già in zona. Sono uscito l’altro giorno dalla scuola ufficiali».

L’alpino lo guardò di traverso, sembrò quasi che stesse per dire qualcosa, ma si trattenne; spostò di lato il piatto ormai vuoto e si mise a frugare nella tasca della giubba. Anche il giovane tenente non disse nulla. L’altro accese una sigaretta, si alzò e si diresse verso l’uscita. Ardenghi, come avesse ricevuto un ordine, lo seguì. Uscirono sulla strada dove il sole batteva forte, così trovarono riparo sotto la tenda di un negozio vicino. L’alpino tirò qualche boccata guardando i soldati in attesa sull’erba di Campo Marzo e poi iniziò a parlare.

«Vedi, tenente, lassù le cose vanno male: gli austriaci se ne stanno nelle loro trincee ben robuste, con le armi spianate, e le trincee hanno profondi reticolati, barriere insuperabili per la fanteria, e mitragliatrici puntate, pronte a far fuoco su di noi. Le loro posizioni stanno in alto, dominano le nostre, e quando si svegliano i cannoni dei forti, be’, allora sono guai peggiori».

Ardenghi ascoltava attento, sembrava quasi che il vociare che arrivava dalla sala della truppa si fosse improvvisamente quietato.

«I nostri duecentottanta sparano da Porta Manazzo, ma è un’altra cosa. Appena iniziata la guerra anche i forti di Verena e Campolongo tiravano continuamente con i grossi calibri contro le loro fortificazioni. Le hanno colpite giorno e notte, tanto che quando il bombardamento cessava si vedevano soltanto dei cumuli di macerie».

Ci fu un’altra pausa, un silenzio pesante, carico di significati oscuri. Poi l’alpino riprese il suo racconto.

«I forti sembravano distrutti, ti dicevo, e gli austriaci annientati, ma appena la nostra fanteria usciva allo scoperto per dare l’assalto, le mitraglie iniziavano a sparare e i nostri cadevano falciati a decine, a centinaia. I comandanti di plotone gridavano di andare avanti, e cadevano per primi, aggrappati ai reticolati. Ero a Pizzo Leve la notte del 30 maggio, quando quelli della Bassano furono mandati all’assalto per cercare di prendere Forte Vézzena. Ero lì come osservatore, costretto ad assistere al massacro: gli alpini andavano avanti con la bandiera in testa, avevano portato anche le armoniche, cantavano. Le mitragliatrici li inchiodarono sui reticolati ancora intatti, fu una carneficina. Da dove stavo, potevo vedere a occhio nudo gli alpini acquattati tra le rocce, e non si capiva perché non avanzavano; ma il primo che alzava la testa dal suo riparo restava lì, freddato sul colpo. Chi riuscì tornò indietro, lasciando sul campo i morti e i feriti che urlavano che li si salvasse per amor di Dio. Qualche pattuglia provò a uscire prima dell’alba, con le croci rosse della sanità ben in vista, ma gli austriaci non si fidavano e stavano all’erta dietro alle loro feritoie; così più di qualcuno ci rimise la pelle».

Ardenghi non sapeva cosa dire: quella era la guerra, e adesso sarebbe toccato a lui combattere e forse morire. L’alpino colse l’imbarazzato silenzio del superiore, rientrò a pagare il suo pasto e a riprendere lo zaino, poi si accomiatò.

«Buona fortuna, tenente, io vado».

Si incamminò verso la stazione ma, dopo pochi passi, si voltò a guardare Ardenghi, che era rimasto fuori dalla trattoria, pensieroso, assente. Accennò ancora un gesto di saluto, poi chiese:

«Scusi, tenente, ma non ve le hanno dette queste cose al corso?».

La tradotta per le Rocchette partì con tre ore di ritardo in una ridda di ordini e contrordini; a Thiene soldati della sussistenza distribuirono pentole di caffè, una per vagone; ma pochi ne bevvero, qualcuno travasò la sua razione nella borraccia. Altri, dopo averlo assaggiato, se lo versarono sugli scarponi, in segno di sfregio. Ardenghi ripensava al colloquio con l’alpino cercando di immaginare il campo di battaglia, i famigerati reticolati, il crepitio delle mitragliatrici.

Alle Rocchette, appena sceso sui binari, un capitano di fanteria gli si fece incontro, l’allievo scattò sull’attenti.

«Comodo, tenente!» esordì quello, quasi con fastidio. «Lei dov’è diretto?».

«Passo delle Vézzene: devo congiungermi con il mio reggimento».

«Le affido il comando della Seconda compagnia Genio Zappatori fino ad Asiago: il trenino che sale all’altopiano vi attende. Una volta lì saranno presi in consegna dal capitano Baroni; lo troverà al comando di tappa. Gli recapiti anche questa lettera, per favore».

«Signorsì!».

Un centinaio di uomini bivaccavano bovini a lato della massicciata, accanto al piccolo convoglio di vagoni merci scoperti già agganciato alla locomotiva. I più vicini avevano seguito lo scambio di consegne e ora, vedendo avanzare Ardenghi verso di loro, di malavoglia si erano alzati in piedi. Il mormorio cessò, e così il rumore dei passi sulla massicciata, appena i sergenti diedero l’ordine di prepararsi alla partenza. Intanto nel cielo grandi nuvole viaggiavano spedite, mentre cumuli pomposi si infagottavano nel tramonto e quasi sbandavano, laggiù verso oriente.

La modesta ferrovia a scartamento ridotto Rocchette-Asiago era stata inaugurata nel 1912, quando sugli altipiani già soffiavano infidi venti di guerra. Dalle Rocchette, in poco più di un’ora, si poteva raggiungere l’altopiano, inoltrandosi, dopo la stazione di Cesuna, nella fitta foresta chiamata dai locali “Bosco Nero”. Ci vivevano galli forcelli, caprioli e molte lepri, selvaggina pregiata che in quegli anni di ristrettezze ravvivava la tavola di cacciatori e bracconieri. Si trattava, in tutto, di un percorso di una ventina di chilometri o poco più, e per superare il dislivello di quasi settecento metri che da Follon di Cogollo si arrampicava verso Asiago, la piccola locomotiva veniva agganciata a una robusta cremagliera. Da Asiago, attraverso la strada della Val d’Assa, si raggiungeva poi il Passo delle Vézzene, dove correva il confine italo-austriaco. Sull’altopiano che si apriva dopo il passo, a dispetto del patto di alleanza firmato da Germania, Austria e Italia, già dall’inizio del secolo era iniziata la costruzione di fortezze e ridotte, collegate da camminamenti e profonde trincee. Opere di guerra che impegnarono per anni anche molti lavoratori locali, sostenendo la precaria economia di quelle valli. Quando le carrozze raggiungevano l’Osteria del Termine, ultimo lembo di terra italiana, due gendarmi austriaci salivano in serpa, provvedendo ad abbassare le tendine perché i passeggeri non potessero vedere il procedere dei lavori di fortificazione.

Il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, capo di Stato Maggiore dell’esercito austroungarico al momento dello scoppio della Grande Guerra, era uomo rigido e di accesi sentimenti anti-italiani. Tristemente noto negli ambienti irredentisti, impartì l’ordine di reprimere a colpi di baionetta e salve di fucileria sparate ad altezza d’uomo, la pacifica protesta dei fuochisti del Lloyd austriaco scoppiata a Trieste nel 1902. Nella primavera del 1909, approfittando del fatto che l’esercito italiano era ancora impegnato a prestare soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto di Messina e Reggio Calabria, cercò di convincere Francesco Giuseppe a sferrare un attacco preventivo contro l’Italia, consiglio che il vecchio imperatore nobilmente ignorò. Anche le sinistre fortezze che presidiavano l’altopiano furono una sua creatura, una difesa di cemento e acciaio contro l’infido alleato italiano. Nacquero così i forti di Busa Verle, Doss delle Somme, Sommo Alto, Cherle, Belvedere, Campo Luserna e Spitz Vézzena che, assieme a qualche altra opera di fiancheggiamento, tra cui il fortino del Basson, costituirono la formidabile “Cintura di Ferro” degli altipiani. A essa si contrapponevano i potenti forti italiani di Campomolon, Campolongo e Verena, dal quale venne sparato contro il forte austriaco di Busa Verle il primo colpo di cannone della Grande Guerra sul fronte italiano.

A Cesuna la locomotiva ebbe l’ultimo rifornimento d’acqua, poi il trenino si inoltrò lentamente nel Bosco Nero. I soldati si fecero silenziosi, uno di loro, sporgendosi dal vagone approfittando della bassa velocità, strappava rami di abete che poi scortecciava con il temperino per farne spiedi per certe succulente salsicce che, così assicurava, avrebbero trovato ad Asiago. Quasi tutti si erano tolti la giubba per il gran caldo: stravaccati sui pianali sconnessi, si godevano il refrigerio nell’ombra fresca della selva. Il convoglio si arrestò definitivamente che faceva sera; Ardenghi fece acquartierare la truppa sotto la pensilina e si recò subito al comando di tappa.

Trovò il capitano Baroni sull’uscio del suo ufficio: appoggiato allo stipite sembrava contemplare la sommità dei pini aggrappati ai primi contrafforti dell’altopiano. Vedendo il giovane tenente si riscosse, gettò sui binari il mozzicone di sigaretta e lo precedette nell’ufficio. Era un uomo alto e massiccio, sulla quarantina; si sarebbe potuto dire un ex lottatore o un pugile, anche se i tratti del volto rivelavano immediatamente un’appartenenza nobile, evidente anche se appena pronunciata. A casa faceva il professore di lettere, e si capiva che aveva accolto la guerra come un fastidio o un grosso grattacapo al quale non era stato possibile sottrarsi. Salutò Ardenghi senza alcuna formalità, dichiarando da subito, quasi a voler ribadire preventivamente la sua estraneità a quanto gli accadeva attorno, che mal digeriva ciò che odorava di casermaggio e regolamento. Quel regolamento che, per via della sua posizione doveva, suo malgrado, far rispettare. Di tutto ciò egli esprimeva, anche se più con l’atteggiamento che con le parole, profondo disagio.

Il comando di tappa, o meglio la dépendance che il capitano Baroni si era arrangiato all’interno della stazione, altro non era che uno stambugio pieno di scartoffie, maleodorante di catrame e alcol. Ardenghi, lievemente imbarazzato, si era accomodato sulla seggiola spagliata che il superiore aveva indicato con un gesto e, tolta dalla tasca della giubba la lettera che aveva preso in consegna alle Rocchette, l’aveva deposta sul tavolo dietro al quale il capitano si era già seduto.

«Notizie da casa!» si rallegrò Baroni annusando la busta. «Aria di città» ribadì ammiccando e poi, sporgendosi attraverso il tavolo, precisò confidenzialmente: «Profumo di donna».

Presto, usando la matita come tagliacarte, aprì la busta, estrasse il foglio e lo spiegò sul tavolo davanti a sé con evidente soddisfazione.

«Lei ci pensa, tenente, che solo qualche giorno fa questo foglio di carta era tra le mani di una signora di classe, moglie di uno stimato industriale milanese?».

Senza attendere risposta si alzò, rovistò in una cassetta di medicazione che stava lì accanto, e portò alla luce un pacco di buste trattenute da un nastro tricolore. Ricompose la lettera appena ricevuta senza leggerne una sola riga e la infilò nel mazzo che rimise nella cassetta.

«Non si stupisca, tenente: alla mia età si impara che saper attendere vale ben più di qualsiasi altro piacere» filosofeggiò indicando la cassetta.

«Ho fatto acquartierare la compagnia Zappatori sotto la tettoia» informò il giovane tenente, che non sapeva bene come comportarsi.

«Certo, ha fatto bene» rispose sbrigativo Baroni. «Lei è di fresca nomina, vero?». Ardenghi annuì.

Il capitano ripescò nella cassetta, cavandone questa volta una bottiglia, bevve un lungo sorso e la rimise al suo posto. Asciugandosi la bocca con il dorso della mano ritornò alla scrivania.

«E allora, tenente» sbottò quasi volesse riprendere un discorso lasciato in sospeso chissà quando, «che mi racconta della città? Si ricordano ancora di noi, poveri scemi che siamo qui da mesi a fare la guerra? Lo sanno di quelle ambulanze che scendono dalla Vézzena grondando sangue, degli ospedali da campo, delle urla dei feriti e delle amputazioni? Lo sanno, eh?».

Il tono si era fatto duro, e anche l’iniziale ironia era ormai scomparsa. Era chiaro che una rabbia indomita covava nel cuore del capitano, la rabbia mortifera di chi sta assistendo a un’ingiustizia, di chi tribola mentre il resto del mondo continua beatamente la propria vita.

«Le hanno insegnato che combattiamo per la patria, vero?» riprese cambiando tono senza convinzione. «Lei, io, e tutta questa gente che se n’è venuta via da casa e adesso si fa ammazzare sul confine, senza sapere bene perché e per chi. Lei crede per davvero che la guerra finirà per Natale come racconta Cadorna? Lo sanno Salandra, Sonnino e i Savoia che qui le cose si stanno complicando, che quella che doveva essere una passeggiata verso Trento e Trieste sta diventando un massacro? E cosa ci aspettavamo, che gli austriaci, saputo che le volevamo, si sarebbero ritirati in buon ordine? E ammesso che finisca per davvero, e finisca con la vittoria dell’Italia, si capisce, chi glielo racconterà a tutti questi morti che il loro sacrificio era proprio necessario? Chi lo dirà alle madri, ai padri, alle spose e ai figli?».

Il capitano Baroni parve calmarsi, tornò a sedere e accese una sigaretta; rimase poi a guardare con straordinaria attenzione la fiammella che consumava il fiammifero. Poi riprese il suo monologo: il tono ora era ambiguamente solenne, quasi accorato: «Qui si tratta di far ammazzare la povera gente, tenente, di far massacrare i nostri ragazzi dall’artiglieria austriaca. Se ne stanno rannicchiati nelle trincee, durante i bombardamenti, aspettano la granata che li disintegri, senza ribellarsi. D’altra parte, alle spalle hanno i carabinieri: basta solo decidere se farsi ammazzare dal nemico o dai nostri». Il capitano parve risalire da un baratro di infinita tristezza. «A me va bene, perché anche se mi ammazzano non ho nessuno, tutt’al più i miei studenti si fregheranno le mani: un rompiscatole di meno! Ma forse in futuro, in un’altra guerra intendo» chiarì quasi con sarcasmo, «toccherà anche a loro. Sa cos’è per me la patria, tenente?» chiese sporgendosi di nuovo attraverso il tavolo e improvvisando un sorriso beffardo. «La patria per me è quel fascio di lettere: messaggi d’amore, forse, che di tanto in tanto arrivano dalla città. Confidenze di donne sedotte, conquistate giorno per giorno, pazientemente, come le trincee sul Carso, una dopo l’altra; magari rubate a un altro uomo, per amore, o solo per sfizio; come noi rubiamo una ridotta agli austriaci che poi se la vengono a riprendere. Chissà, forse qualcuna di queste signore ci rimarrebbe male a sapere che mi hanno ammazzato, anche se qui» e con un gesto eloquente indicò lo stanzino tutt’attorno, «qui sono al sicuro. Prima stavo sul Carso, ho preso parte all’offensiva di giugno: una carneficina quotidiana, un fiume di sangue che correva giù dalle trincee. Lo vede questo?» chiese cavando un proiettile dalla tasca della giubba. «Me lo sono trovato piantato nel portasigarette, regalo di una di quelle signore. Ho sentito solo una gran botta durante un assalto, una botta dalla parte del cuore. Se non fosse stato per quell’aggeggio, sarei anch’io sottoterra con i miei soldati, e la guerra, almeno per me, sarebbe terminata. Invece mi hanno cacciato in questa specie di fureria: hanno scritto scarsa-attitudine-al-comando» sillabò, «credendo così di rovinarmi la carriera. Ma forse, grazie a loro, riporterò a casa la pelle, alla faccia dei miei studenti».

Ardenghi, che aveva ascoltato senza fiatare, guardò il capitano impugnare di nuovo la bottiglia.

«E lei, tenente, dov’è diretto?».

«Al Centoquindicesimo, che si trova già in zona di operazioni».

Il superiore lo squadrò dalla testa ai piedi, quasi se lo fosse trovato davanti solo in quel momento, poi si alzò tendendo informalmente la mano.

«In fondo al marciapede, al primo piano, c’è una cameratina riservata a ufficiali e sottufficiali di passaggio, non è il grand hotel, ma è quel che passa il convento. Rimanga lì questa notte, salirà all’altopiano domattina. Può mangiare al posto di ristoro o, se ha qualche soldo, al paese ci sono ancora un paio di locande aperte. E dia ascolto a me, tenente, si faccia una bella bevuta!».

L’allievo si irrigidì sull’attenti, prese congedo e uscì; i soldati lo guardarono passare indifferenti, ormai era quasi buio.

E fu allora che, seppur lontana, confusa con il vociare della truppa e il rotolio delle ruote di un carro sull’acciottolato, Italo Ardenghi sentì per la prima volta la voce cupa del cannone.

Il capitano Baroni aveva ragione, e dietro a quel suo dichiarato disfattismo, che se ostentato in presenza di superiori o delatori l’avrebbe portato dritto dritto davanti alla corte marziale, faceva capolino la lettura lucida e disincantata della reale essenza della guerra. Tre mesi erano trascorsi dall’entrata dell’Italia nel conflitto, e in direzione di Trento e Trieste non si era ancora ottenuto alcun risultato evidente. Gli alleati chiedevano a gran voce prese di posizione politiche chiare, favorevoli a un coinvolgimento più totale del paese nella guerra, e gli impegni sottoscritti con il Trattato di Londra non potevano essere rimandati oltre. Così l’Italia fu costretta a dichiarare guerra alla Turchia. In quell’agosto torrido e afoso, la popolazione si chiedeva cosa intendesse davvero fare Vittorio Emanuele III: si era dichiarata guerra all’Austria e Ungheria per avere Trento e Trieste e completare così l’ancora vacillante unità, e adesso si dichiarava guerra alla Turchia. Con quali benefici per l’Italia? Intanto altre classi venivano richiamate sotto le armi, sempre più uomini lasciavano i campi, le botteghe, le fabbriche per vestire la divisa, e sempre più donne indossavano il lutto. Le due offensive sferrate tra giugno e agosto sul fronte dell’Isonzo fallirono, ma il loro prezzo in termini di sacrifici umani fu altissimo. Sul fronte dolomitico, per la scarsa intraprendenza del generale Nava, che aveva interpretato a modo suo gli ordini di Cadorna e fu successivamente rimosso dal comando della Quarta armata, gli italiani erano fermi al Passo Monte Croce Comelico. Con una più decisa strategia, considerata la scarsa preparazione delle truppe austriache in quel settore, avrebbero potuto facilmente dilagare nella valle di Sesto e da lì nel cuore dell’Austria. Il sogno di una facile guerra di movimento, alla garibaldina, per intenderci, si era infranto contro i reticolati e i cavalli di Frisia. E la strada per Trieste continuava a essere sbarrata. Fu così che i rapporti tra Cadorna e il capo del governo, Antonio Salandra, finirono per deteriorarsi, e il generale, per quanto controvoglia, decise di ordinare ai suoi soldati aggrappati all’Altopiano di Vézzena di tentare di aprire un varco verso Trento.

Eccolo intanto Italo Ardenghi, tenente di fresca nomina, che lascia proprio ora il comando di tappa di Asiago per risalire la Val d’Assa e andare verso il suo destino. Ancora non sa che, già da qualche settimana, il generale Pasquale Oro, comandante della Trentaquattresima divisione, ha sotto gli occhi i rapporti dei suoi comandanti. È un uomo massiccio, rosso in viso, con grossi baffi grigi; ha fatto le guerre del Risorgimento, e ha un’idea tutta sua della strategia. Studia le carte geografiche dell’altopiano e gli schizzi arrivati sul suo tavolo direttamente dalle mani di capitani e tenenti che, appostati alle feritoie delle loro trincee, hanno preso accuratamente nota della situazione del campo di battaglia e delle postazioni nemiche. Un’offensiva che tenti di scardinare definitivamente le difese in direzione di Trento è ormai imminente: forse solo questione di ore. Dalle alture vicine, immobile tanto da poter essere confusa con una roccia dalla forma bizzarra, la morte osserva compiaciuta il prepararsi delle sue messi.

Quella mattina Italo Ardenghi si congedò dal capitano Baroni, che gli aveva procurato un passaggio su un 18 BL in partenza per Forte Interrotto, una vecchia fortificazione costruita alla fine dell’Ottocento per controllare la sottostante Val d’Assa e che, somigliante come era a un castello medioevale, poco aveva a spartire con le moderne fortezze corazzate dell’altopiano. Il trasporto sarebbe passato da Camporovere, l’ultimo paese a una decina di chilometri dal fronte, facendogli risparmiare un po’ di cammino; poco per la verità, e Ardenghi avrebbe poi dovuto raggiungere il comando a piedi. La strada si snodava docilmente nella fustaia e il camion, carico di vettovaglie, procedeva lento; i due autieri fumavano in silenzio, di tanto in tanto si voltavano a guardare il passeggero che si era sistemato tra le casse e i sacchi, quasi temessero di vederlo volatilizzarsi all’improvviso. Un vecchio che sostava accanto a un capitello li guardò passare e si tolse il berretto facendosi il segno della croce, come se passasse un funerale.

Al bivio Ardenghi scese, il conducente gridò: «Buona fortuna, tenente!» e ripartì. Un augurio che, date le circostanze e il tono con cui era stato pronunciato, assomigliava a una beffa. Si mise in cammino, il paese era ancora in vista che la strada iniziò a salire tra boschi di pini e larici, allargandosi ogni tanto verso il greto dell’Assa, dove gruppi di soldati, abbandonato zaino e fucile, riposavano o si facevano da parte per lasciare il passo a carriaggi o truppe che avevano precedenza assoluta per raggiungere il fronte. Ogni tanto Ardenghi vedeva qualche casera sprangata, una stalla deserta, un casolare il cui camino non fumava più, segno che tutta la popolazione era ormai stata evacuata.

Comparve da dietro una curva un carro che procedeva nella stessa sua direzione, un massiccio carro da montagna tirato da due cavalli che avanzavano con lentezza esasperante, quasi che l’avvicinarsi dell’altopiano li spaventasse. A cassetta c’erano un uomo anziano e un giovanotto, e Ardenghi si stupì di vedere altri civili in zona di guerra. Si fermò all’ombra di un abete, attese che il carro lo raggiungesse e poi, quando i due furono a portata di voce, fece un cenno con la mano e chiese un passaggio. Il giovane fece un gesto di insofferenza, come a dire che se la facesse a piedi, ma il vecchio tirò appena le redini e i cavalli docilmente si fermarono.

«Salga su, tenente, che quella divisa di panno non è abito per la stagione» lo canzonò l’uomo che stava a cassetta, con l’ironia che la veneranda età gli consentiva anche davanti a un ufficiale.

Ardenghi salì, il giovane, intanto, continuava a biascicare qualcosa di incomprensibile ma certamente ostile. Il vecchio gli si rivolse paternamente:

«Bon, Toni, bon! Cossa te ga mai fato el tenente, eh?».

L’ufficiale, che tra sé e sé si stava chiedendo come mai il giovanotto non fosse sotto le armi, si accorse allora che si trattava di un mezzo idiota dallo sguardo perduto, nella cui bocca sembrava che qualcuno si fosse divertito a gettare alla rinfusa una manciata di denti giallastri.

«Grazie per la cortesia, ma come mai vi trovate qui? Questa è zona di operazioni».

«Lo vedrà, tenente, lo vedrà, cosa siamo venuti a fare quassù». E il discorso finì lì. I cavalli procedevano pestando i pesanti zoccoli, il vecchio cavò di tasca la pipa e con gesti assenti prese a riempirla pescando grumi di tabacco dalla tasca; il giovane ora taceva.

Arrivarono a un casone di tre piani, sull’insegna dipinta a grandi lettere al centro della facciata stava scritto: «Albergo Ghèrtele», ma si trattava solo di una locanda dove in passato molti viaggiatori avevano cenato e pernottato in attesa che la diligenza riprendesse, il mattino dopo, la sua corsa verso il Trentino. Sullo spiazzo un gruppo di persone discuteva animatamente: erano civili, tra cui alcune donne e una nuvola di bambini, e in mezzo a loro un capitano di fanteria. Appena in disparte, all’ombra del grande larice al lato della strada, si distinguevano le sagome di quattro carabinieri che, col moschetto ad armacollo, aspettavano.

«Ecco, sior tenente, ecco perché siamo venuti!».

Fece fermare il carro accanto ai carabinieri, raccomandò al giovane di starsene buono a cassetta, e scese, seguito da Ardenghi. La discussione, intanto, saliva di tono, l’ufficiale stava in mezzo al crocchio e sembrava ormai sul punto di perdere le staffe.

«Le vostre famiglie devono lasciare l’albergo immediatamente; sino a ora abbiamo avuto anche troppa pazienza con voi!» scandiva accompagnando il discorso con gesti autoritari. «È già da un pezzo che il generale Oro ha fatto diramare la circolare con l’ordine di sgombero per l’altopiano. C’ero anch’io a Campolongo, saranno tre settimane, che le campane hanno suonato per avvisare di abbandonare paesi e casere! Che cosa volete fare? Ormai questa è zona di operazioni, a nemmeno tre chilometri c’è il fronte. A giugno è caduto un 305 in una valletta qui vicino, un colpo probabilmente destinato al Forte Verena: ve lo siete dimenticato? Insomma, dovete abbandonare l’albergo e tutte le sue dipendenze, lasciando porte e finestre aperte, e avviarvi verso la pianura. Arrivati ad Asiago saprete la vostra destinazione».

Il capitano si voltò verso Ardenghi sbottonandosi il colletto della giubba per il gran caldo; rosso in viso per aver tanto urlato, cercava ora di darsi un contegno. Il giovane tenente scattò ancora una volta sull’attenti.

«Allievo ufficiale Italo Ardenghi, Centoquindicesimo Treviso, sto raggiungendo...».

«Sì sì, tenente, ho capito: ci hanno mandato carne fresca! Adesso mi dia una mano a convincere questa povera gente a far su le proprie cose e andarsene al più presto, che io non ce la faccio più».

Tra le famiglie che da sempre gestivano il Ghèrtele c’erano bambini e giovani donne, i figli e le spose dei due fratelli già richiamati sotto le armi; la vecchia vedova dell’albergatore e un paio di famigli, affezionati come buoni cani fedeli; in tutto una dozzina di persone. Si capiva che erano ormai rassegnati anche se, con sempre meno forza, continuavano a opporsi allo sgombero. La stessa presenza del grosso carro venuto su da Camporovere, probabilmente chiamato dal comando, confermava che non c’era più niente da sperare. Ardenghi fu mosso a compassione per quella gente, un sentimento mai provato, misto al disagio di far parte lui stesso di quel terribile ingranaggio che era la guerra. Approfittando del fatto che il superiore si era allontanato per parlare con i carabinieri, si avvicinò alla vecchia che seguitava a guardarlo severa, le sorrise e toccandole dolcemente il braccio la convinse a scostarsi dal gruppo. I cavalli legati al grande carro raspavano il terreno coperto di aghi di pino, e dalla cucina del Ghèrtele, evidentemente ancora in funzione, arrivava il penetrante profumo dell’ultima minestra.

Era una vecchia stanca, che si tormentava le mani persa in mezzo alla confusione che la guerra aveva portato nelle sue contrade e che lei nemmeno riusciva a capire. Ma lo sguardo era indomito e sicuro, uno sguardo che raccontava della sua esistenza, spesa tutta tra quelle quattro mura. Certo avrebbe preferito farsi fare a pezzi dai cannoni degli austriaci piuttosto che accettare di andare profuga Dio sa dove. I figli erano lontani a combattere sui monti, le nuore attorno a lei: donne fatte e decise anch’esse, che tuttavia aspettavano un segno di quell’autorità che da sempre le era riconosciuta. Ardenghi rimase a osservarla mentre faceva salire lo sguardo fino alle finestre del solaio, al poggiolo pieno di fiori, alla grande insegna riverniciata di fresco; e poi ai suoi monti, ai pini del bosco intorno, ai nipoti che schiamazzavano lì accanto, ignari. La donna incontrò di nuovo lo sguardo di Ardenghi, turbato, quasi commosso, che lei, imbronciata come un bambino offeso, sosteneva fiera.

«Signora, bisogna andare! Ascolti quello che le ha detto il capitano, la prego, c’è davvero pericolo per tutti voi. L’albergo e le vostre case sono troppo vicine al fronte, può succedere una disgrazia; non ci pensa ai piccoli?».

La vecchia fece un gesto vago, come per scacciare una mosca o un pensiero, gridò qualcosa ai bambini, poi si rivolse ad Ardenghi.

«Lei l’ha voluta, signor tenente, questa guerra? Era anche lei tra gli studenti che andavano in piazza con le bandiere? E alla sua mamma non ha pensato, al dolore che proverà se le succederà qualcosa?».

Erano parole semplici e sagge, parole che difficilmente sfuggono di bocca a re e imperatori, e a tutti coloro che comandano; parole dette con pudico accoramento e con tutta la fatica di chi non ha pratica di parlare in lingua.

Ardenghi, imbarazzato, non sapeva trarsi d’impaccio. La vecchia riprese, e vibrava nella sua voce l’angoscia impotente di tutte le madri il cui figlio era partito soldato, e lo strazio delle tante che in quei mesi avevano ricevuto il telegramma con cui si annunciava, con la fredda formula di rito, la sua morte in combattimento.

«Qui è la nostra vita, dei miei nipoti, dei miei figli partiti per la guerra e delle loro spose: cosa penseranno se, tornando, non ci trovassero più? Come faranno a sapere dove ci hanno sfollato?».

L’ufficiale voltò le spalle ai carabinieri e fece un gesto spazientito: voleva concludere presto quella faccenda, tornare al comando per dare la notizia che le famiglie del Ghèrtele erano ormai in cammino verso valle. Ardenghi si avvicinò alla vecchia, guardò con tenerezza la testa bianca, la crocchia appuntata con le forcine e il grembiale da cucina. Poi disse piano:

«Signora, la prego, ascolti il superiore; darò io stesso l’ordine di caricare le vostre cose sul carro. Vedrà che tornerete presto, e altri soldati passeranno, tutti diretti a Trento, con musica e bandiere, perché la guerra sarà vinta e anche i suoi figli torneranno a casa».

I famigli, quasi avessero capito, iniziarono in silenzio a caricare sacchi e ceste, le donne fecero salire i bambini.

La vecchia abbassò il capo, e una lacrima vergognosa le scese lungo una guancia; l’asciugò con il dorso della mano e, proprio in quel momento, un cupo brontolio rotolò giù dalle Vézzene; segno che bisognava davvero fare presto. Cavò dalla tasca del grembiale una medaglietta di bronzo legata a un nastro rosso; da un lato c’era impressa l’immagine di sant’Antonio da Padova, dall’altra quella della Madonna di Monte Berico. Senza dir nulla, l’appuntò con uno spillo alla giubba di Ardenghi, quasi fosse una decorazione guadagnata sul campo, e forse lo era per davvero.

«Ecco, tenente, questa le porterà fortuna e la proteggerà, insieme alle preghiere della sua mamma».

Ardenghi non disse più nulla, e il pensiero andò a quel sorriso malinconico che da molti anni lo vegliava dal ritratto in salotto. Si avvicinò al capitano, che aveva già ordinato ai carabinieri di scortare i profughi giù, fino a Camporovere; i cavalli si mossero lentamente, e dopo aver compiuto quasi con pena una lentissima curva, si avviarono verso valle. La vecchia, accovacciata nel carro accanto alle sue cose, osservava il suo mondo allontanarsi, piangendo in silenzio. I due ufficiali, rimasti soli, si guardarono e non dissero più nulla; passo dopo passo si incamminarono verso l’Osteria del Termine, dove era il comando. Ancora una volta il cannone fece sentire la sua voce che rimbombò sinistra nella valle.

Così il vecchio Ghèrtele rimase solo, mentre strane ombre, prodotte forse dai raggi del sole che filtravano tra i vecchi abeti del bosco, iniziavano indisturbate a prendere possesso delle sue stanze ormai deserte.

La guerra distrugge, annichilisce e terrorizza; divide, e a volte riaccende sentimenti e passioni. Talvolta si fa addirittura beffa di chi la combatte, di chi la subisce e, quando tutto è finito, cerca di dimenticarla. Quanto dolore avrebbe provato la vecchia del Ghèrtele, se qualcuno le avesse sussurrato all’orecchio che nemmeno un anno dopo, era il 23 maggio del 1916, quasi un lugubre anniversario, gli austriaci avrebbero fatto quartiere nel suo albergo, miracolosamente scampato ai colpi dell’artiglieria? Sarebbe stato crudele immaginare il nemico bivaccare nei corridoi, invadere la cucina dove forse sopravviveva ancora l’odore delle sue pentole e far razzia della biancheria delle donne e dei giocattoli dei nipoti. Alle ferite del corpo si sarebbero sovrapposte quelle dell’animo, che poi sopravvivono per generazioni nei racconti e nella memoria.

Come il Ghèrtele, anche l’Osteria al Termine prestò le sue mura alla guerra. Era una costruzione a due piani, lunga e bassa, con un sottotetto, dove un tempo veniva ammucchiato il fieno, ingombro di cose dimenticate e sole. Da tempo immemorabile stava lì, a cavallo tra Veneto e Tirolo, a fiancheggiare la strada che risaliva la Val d’Assa; sentinella di chi si avvicinava al passo e testimone delle storie che i viandanti portavano con sé. All’epoca della Serenissima, era qui che venivano fermati gli ammalati di peste che, occultando le piaghe sotto il mantello, cercavano di entrare nei territori della Repubblica. Fu nel XII secolo che, sostituita con muri di pietra sgrossata e calce la vecchia struttura di tronchi di abete, divenne posto di confine tra le terre del vescovo di Trento e quelle della Reggenza dei Sette Comuni. Nel ’48 ospitò, e spesso nascose, patrioti italiani e, pochi anni dopo – il confine italo-austriaco era già stato segnato – vide il passaggio di centinaia di emigranti che attraverso i sentieri dei menadori andavano a cercar fortuna lontano da casa. Per tutti c’era un piatto di minestra d’orzo e qualche fetta di polenta e, dopo una tazza di grappa che riscaldava il corpo e il cuore, ognuno riprendeva il cammino. Anche durante i lunghi e rigidi inverni, quando i proprietari scendevano a valle dopo aver sprangato porte e finestre, per ordine della Reggenza un vano doveva restare aperto: chi fosse stato sorpreso lungo il cammino dalla notte o dalla tormenta avrebbe trovato rifugio, una scorta di legna per accendere il fuoco e un giaciglio di paglia su cui riposare.

All’inizio della Grande Guerra, data la sua posizione strategica a qualche chilometro dal fronte, l’osteria era stata espropriata per ospitare il comando italiano. A differenza di quanto avvenne al Ghèrtele, i proprietari se ne andarono senza tante storie, lasciando molte damigiane di vino, farina da polenta e un po’ di salumi per gli ufficiali. Sullo spiazzo antistante iniziarono allora a sostare carriaggi del Regio Esercito, traini d’artiglieria e truppe fresche salite dalla pianura ignare del proprio destino. Davanti alla sua insegna passavano, in senso inverso, ambulanze cariche di feriti che dagli ospedali da campo a ridosso della prima linea venivano trasferiti, quando ne valeva la pena, nelle retrovie per essere rimessi in sesto e rispediti al fronte appena possibile. Qui il comandante della Trentaquattresima divisione, il generale Pasquale Oro, spiegava le carte militari e firmava dispacci. Era il 22 agosto del 1915, una giornata tersa e afosa, quando il generale chiamò a rapporto i suoi ufficiali per annunciare l’imminente attacco alle linee austriache. L’intenzione era quella di aprire un varco verso Trento. Solo qualche vento ignaro si aggirava in quota, facendo muovere a tratti la bandiera tricolore che sovrastava la spianata dell’osteria, mentre sulle vallate passavano vaste ombre inquiete.

Raggiunto il posto di comando di Osteria del Termine, Italo Ardenghi, lasciato il capitano che si era precipitato a riferire del definitivo abbandono del Ghèrtele, andò alla fontana a darsi una rassettata prima di presentarsi ai superiori. Fu proprio mentre cercava di togliersi la polvere dalla giubba che si sentì chiamare per nome. Sorpreso, si voltò cercando di mettere a fuoco la fisionomia del soldato che, sbracciandosi animatamente, gli stava andando incontro.

Riconobbe la camminata stramba di Leonardo Pecchioli, compagno di corso alla scuola ufficiali, che ignorava fosse stato assegnato anche lui al Centoquindicesimo. Non aveva dimenticato la sua figura gioviale di toscano indomito, il sorriso aperto e le gambe ercoline, che lo facevano assomigliare più a un tenente di cavalleria che di fanteria.

«Italo, non ci posso credere! Non dirmi che ti hanno assegnato alla Treviso».

«Così pare, Leonardo, mi fa piacere vederti».

Ardenghi ci mise un po’ per raccapezzarsi: Pecchioli, per come era conciato, sembrava fosse al fronte da secoli. La divisa era già sformata e consunta, la pelle degli scarponi portava i segni delle rocce e dei rovi, e la fibbia del cinturone di ordinanza, quella con impressa l’aquila dei Savoia, era stata resa opaca, probabilmente sfregandola con la tela smeriglio. Lo sguardo si fissò sul berretto: era così schiacciato sul davanti da farlo sembrare quello dei garibaldini immortalati all’assalto alla baionetta nel grande quadro della sala mensa della scuola allievi ufficiali.

«Mi guardi il berretto, eh?» ridacchiò Pecchioli. «Vedrai, vedrai: se ti presenti in trincea con quel tubo di stufa, per gli austriaci sarà uno spasso farci il tirassegno! Vieni, che ti porto a bere qualcosa».

Sottobraccio attraversarono il piazzale. Entrarono nel­l’ombra dell’osteria, nella sala un gruppo di ufficiali discuteva del più e del meno; i due giovani salutarono e si appartarono in uno stanzino con le imposte sprangate, in fondo al corridoio. Pecchioli prese dalla cappa del camino una grossa brocca di terraglia e spillò il vino di una damigiana posta su una cassa di munizioni; dalle fessure delle imposte, prepotenti lame di luce illuminavano la stanza. Bevvero a turno, dalla caraffa, perché bicchieri non ce n’erano, ma il vino era aspro e buono. L’amico cavò dalla madia una grossa pagnotta e la spezzò con un gesto deciso; iniziarono a masticare lentamente, ognuno seguendo i propri pensieri. Ardenghi, passata la sorpresa per quel felice incontro, sentiva salirgli alle labbra una tempesta di domande, ma continuò a masticare perché aveva fame, e i primi sorsi di vino non erano bastati a togliergli dalla gola la sete e la polvere della strada. Pecchioli deglutì in fretta, e il pomo di Adamo gli andava su e giù come quello di un tacchino. Poi, quasi avesse capito che l’altro smaniava per sapere cosa l’aspettava, iniziò a raccontare.

«Siamo arrivati qui, sull’Altopiano di Vézzena, che era il 3 giugno, ci siamo accampati tra Campo Rosà, le casere di Manderiolo e Monte Costesin, che poi sarebbe quel monticello laggiù» disse indicando un punto indefinito ma lontano. «Appena arrivato, la prima cosa che ho avuto chiara è che tutto quello che ci hanno insegnato alla scuola non ci sarebbe servito a nulla o quasi. Noi ufficiali ci siamo adattati subito alle nuove regole, che poi sono le regole della guerra quella vera: via la sciabola, via le spalline e le stelle. I cecchini austriaci hanno buona mira e lo sanno, loro, che se c’è un assalto, messi fuori uso gli ufficiali, la partita è vinta. Già quel giorno abbiamo capito, ufficiali e truppa, come andavano le cose: saranno state le sette di sera che ci siamo trovati una pattuglia austriaca qui al Termine, arrivata indisturbata fino al nostro comando. Il capitano Bosentino della Seconda compagnia, che stava facendo ispezione, è stato sfiorato da due proiettili: mancato per un pelo. I nostri sparano, feriscono il sergente austriaco e la pattuglia se la dà a gambe. Allora i soldati prendono quel povero cristo del sergente per un piede e lo trascinano fino al comando, dove arriva cadavere. Era un veterano, e l’abbiamo frugato: nelle tasche aveva la foto di moglie e figli e delle carte, dove risultava che aveva già combattuto in Galizia. L’abbiamo sepolto proprio qui dietro, la sera stessa. La mattina dopo, quasi si trattasse di una vendetta, gli austriaci hanno iniziato a tirare sulle Mandrielle, dove ci sono le cucine da campo, e ci hanno ammazzato il cuoco, il primo morto del reggimento. Buffo: il primo caduto è stato proprio uno a cui tutti davano dell’imboscato. Eh, caro mio» concluse calcando il suo accento toscano, «qui la morte fa bottino!».

Ardenghi ascoltava senza parlare, e intanto il suo pensiero correva, quasi cercasse di mettersi al passo al più presto con quella nuova, inaspettata realtà. Era chiaro che tre mesi sull’altopiano avevano già spento nel compagno ogni residuo delle baldanze fantasticate alla scuola ufficiali. Ma il racconto di Pecchioli era sagace, a tratti addirittura ironico, e la sua ironia era semplicemente una difesa, o meglio, l’antidoto contro gli orrori dei quali aveva già avuto un abbondante assaggio. Dopo un altro sorso di vino il racconto riprese:

«Qui le cose hanno cominciato a migliorare a giugno, quando siamo arrivati noi della Brigata Treviso, perché quelli dell’Ivrea, poveracci, da soli non sapevano più come pigliarsi. Ma il servizio per noi ufficiali, finora, è abbastanza semplice: pattuglie notturne, ispezioni ai piccoli posti e alle vedette. Certo bisogna fare attenzione, perché gli austriaci non scherzano mica: basta un attimo di distrazione, magari alzi la testa dalla trincea, e qualche cecchino ti prende di mira. Per il resto te ne stai rintanato nel tuo ricovero aspettando che succeda qualcosa. Tra l’altro è un pezzo che si sente parlare di elmetti, ma non li abbiamo ancora visti; certo non saranno a prova di bomba, ma da qualcosa ripareranno, dico io». Pecchioli travasò il vino rimasto nella damigiana. «Sai già a che compagnia ti hanno assegnato?».

«No, non ancora, anzi adesso vado a presentarmi».

«Vai, vai. Questa sera, se non mi mettono di servizio, ti porto sulla ridotta del Costesin, così ti fai un’idea del fronte».

Ardenghi si ricompose, riabbottonò il colletto della giubba e andò a sciacquarsi la bocca perché non voleva che qualcuno si accorgesse che aveva bevuto del vino. Poi bussò alla porta del comando: il piantone di servizio lo annunciò al colonnello Riveri.

Il colonnello Mario Riveri era un ufficiale di solide concezioni militari, ardimentoso, ligio al dovere e onorato di indossare la divisa e, forse, di dover morire per la patria. Uomo dell’Ottocento, ebbe i gradi di sottotenente degli alpini già nell’81, a diciotto anni, e dall’87 al ’96 combatté quattro campagne d’Africa, in Eritrea e in Libia. Nel ’14, dopo aspri e violentissimi combattimenti contro i ribelli libici, conquistò la zavia di Nufilia, meritando la medaglia d’argento al valor militare. Sul campo di battaglia indossava sempre l’alta uniforme con sciarpa azzurra, spalline dorate e guanti bianchi e, dopo che all’inizio del conflitto gli fu assegnato il comando del Centoquindicesimo, portava le mostrine del reggimento sopra le fiamme verdi da alpino, quasi a ribadire la sua appartenenza e la tempra di soldato fedele e ottimo camminatore. Alto ed elegante, frustino sempre alla mano e sigaretta tra le labbra, mai si preoccupava di curvarsi superando i punti scoperti della linea, ed era considerato dai suoi soldati poco meno di un padre. Ma le esperienze delle campagne d’Africa non aiutavano certo le sue convinzioni tattiche, perché ora la guerra era cambiata.

Ardenghi fu sbrigativamente assegnato alla Quinta compagnia comandata dal capitano Gennari, appartenente al Secondo battaglione. Il colonnello Riveri gli strinse la mano guardandolo fisso negli occhi, e il giovane tenente provò uno strano imbarazzo, quasi che il superiore potesse leggere in uno sguardo i suoi pensieri. Emozioni mai provate, e certo poco militaresche, come l’accorata pena per gli sfollati del Ghèrtele, o il silenzio quasi complice davanti al disfattismo del capitano Baroni.

Ecco che dal commiato dal capitano del distretto di Treviso sono trascorsi soltanto due giorni e due notti, ma per Italo Ardenghi, che proprio ora si è rimesso in cammino sulla strada polverosa delle Vézzene verso i baraccamenti della sua compagnia, le cose stanno cambiando. E quella guerra, per la quale aveva animosamente sostenuto l’intervento dell’Italia, e che ora gli appariva tanto diversa da quella che aveva vagheggiato, forse non l’avrebbe più voluta combattere.

Era una sera limpida e calda, rondini chiassose e ignare sorvolavano quasi allegre le alture del Costesin; i due allievi, ben mimetizzati tra certe rupi coperte di muschio secco ai piccoli posti, osservavano l’altopiano.

«Ecco, da qui puoi farti un’idea del fronte: quel picco a destra è la Cima di Vézzena, là c’è un fortino blindato, una via di mezzo tra un osservatorio e una grande casamatta, da cui si domina tutto l’altopiano e la Valsugana. Gli alpini del Bassano hanno cercato di pigliarlo alla fine di maggio, ma ne è uscita una carneficina».

«Me l’ha raccontato un sergente che ho conosciuto ieri a Vicenza» rispose Ardenghi, «ma pensavo esagerasse».

Pecchioli sorrise a mezza bocca e riprese, descrivendo con il braccio un breve arco verso le linee nemiche:

«Più a sinistra, verso valle, dove adesso vedi levarsi quel fumo, c’è il Busa Verle, il forte che continua a darci tanti fastidi. Le artiglierie di Porta Manazzo lo tengono costantemente sotto tiro, ci sparano addosso da quindici giorni, quasi ininterrottamente, anche con due 305 che fanno tremare tutto l’altopiano. Ma proprio quando sembra ormai ridotto in macerie, quello ricomincia a sparare. E se la nostra artiglieria ci mette tutto questo impegno...».

E il pensiero pesava greve su di loro, come una funesta previsione. Ardenghi, a cui non era sfuggita l’intenzione del collega, continuando a fissare l’orizzonte chiese:

«Pensi a un attacco?».

«Potrebbe anche essere».

Ardenghi, a quel punto, chissà perché, non raccontò della frase pronunciata dal colonnello Riveri congedandolo: «Si tenga pronto tenente, grandi azioni s’approssimano!». Gli aveva dato il valore di un semplice incoraggiamento, forse un generico stimolo a fare il proprio dovere; ma ora che Pecchioli aveva spiegato, quella frase buttata lì diventava un sinistro presagio. Un paio di fucilate passarono sibilando maligne sopra le loro teste, un sergente del Centosedicesimo che stava nella ridotta poco distante, scambiandoli per due reclute, gridò in malo modo di abbassare la testa. Quando si accorse che si trattava di ufficiali, si scusò a voce. Pecchioli, sorridente, lo ringraziò con un gesto e riprese:

«Qui davanti a noi c’è il fortino del Basson, un campo trincerato con tre ordini di reticolati che raccorda Busa Verle con il Forte Luserna, un altro dei padroni dell’altopiano».

Ardenghi ora osservava interdetto: capiva bene la pericolosità dei forti corazzati, dei loro obici nelle torrette blindate e delle potenti casematte dalle quali le mitraglie imperiali facevano fuoco, ma quella specie di montagnola irta di reticolati a lui non sembrava altro che un alpeggio aggrovigliato alla buona nel filo spinato.

«Non lo sottovalutare!» lo rimproverò bonariamente il compagno, che gli aveva letto il pensiero. «Se c’è una strada per arrivare a Trento, quella passa proprio attraverso il Basson».

Si sedettero a terra al riparo delle rocce, Pecchioli tolse di tasca un mozzicone di sigaretta e l’accese; intanto cominciava finalmente a far buio. Risuonò sull’altopiano una mezza dozzina di colpi di cannone.

«Shrapnel, roba piccola» disse Pecchioli con l’indifferenza di chi ne ha viste di peggiori. «Sono i nostri 149 che tengono all’erta il Busa Verle, casomai gli austriaci avessero idea di farsi un pisolino».

Ardenghi mise il naso fuori dalla roccia e vide delle piccole nuvolette di fumo bianco che si allontanavano dissolvendosi pigramente verso est; non erano troppo diverse da quelle dei fuochi d’artificio della sagra di San Liberale.

«Leonardo, tu che dici, se il comando ordina un attacco, ce la faremo a passare?».

«E chi lo sa? Dal Pizzo di Vézzena a Forte Luserna è tutto un reticolato, in doppio ordine, nei salienti arrivano anche a tre o quattro ordini, profondi cinque o sei metri. L’artiglieria dovrebbe averli già fatti a pezzi, invece le pattuglie raccontano che, a parte qualche squarcio di poco conto, sono ancora tutti interi. Sai cosa vuol dire questo? Che bisognerà andarci sotto e farli saltare con i tubi di gelatina o tranciarli con le pinze. Ma le pinze sono poche, e poco taglienti, e i volontari per i tubi, vista la fine che hanno fatto i compagni ai primi tentativi, stentano a farsi avanti. Allora sceglie il capo plotone, e spesso tocca a noi accompagnarli là fuori, mentre gli austriaci ci tirano addosso con le Schwarzlose, mitragliatrici da cinquecento colpi al minuto. Anche in quello ci sono superiori. Noi abbiamo un paio di sezioni di Perino che sono delle trappole e sono anche poche. Nemmeno l’acqua abbiamo» sbottò, «che ce la portano su con i carri botte!».

«Ma si sa qualcosa di sicuro?» chiese Ardenghi sempre più preoccupato

«Di sicuro no, ma quando i soldati ne parlano, qualcosa di vero nell’aria c’è. Addirittura si pensa sia per questa settimana».

«Vuoi scherzare? Non ci manderanno all’assalto con il pieno di luna!».

«Sarà quel che sarà, Italo, che vuoi che ti dica? A ogni modo, domani c’è consiglio dei comandanti di brigata alle casere delle Mandrielle, e lì qualcosa ne esce di sicuro. Ci andrò anch’io per accompagnare due grossi papaveri, così vedo di capirci qualcosa».

Mentre i due tenenti scendevano al campo, il buio saliva lentamente dal fondo della valle. Nessuno parlò più: si coricarono uno accanto all’altro nella tenda dei sottufficiali, stesi sulle brandine da campo ascoltavano i rumori della foresta e della notte di guerra. Ardenghi ripensò a Clara, e al suo viso fine incorniciato dal collo di pelliccia, ma fu solo un attimo, perché la notte iniziava ormai ad avvolgere l’accampamento e il sonno lo sorprese inaspettato.

Nella notte, di tanto in tanto, una mitraglia iniziava a spettegolare, forse disturbata da qualche pattuglia, e allora un razzo si alzava dalle linee austriache illuminando la terra di nessuno con la sua luce livida e spettrale. Per tutta risposta, qualche calibro di artiglieria lasciava partire un colpo, cercando di imporre di nuovo il silenzio nei valloni. Capitava così che certi boati, per motivi inesplicabili, continuassero a rimbalzare a lungo per l’altopiano: sostenuti da echi dispettosi, rotolavano giù per i costoni e nelle forre, fino ad andare a morire sulle pietraie di Pizzo Leve. Su quelle balze, i cadaveri degli alpini della Val Brenta, inchiodati da maggio ai reticolati, si liquefacevano lentamente al sole di agosto, ormai inutili come lanternini di carta dopo un temporale.

Era ormai abbondantemente passata l’ora del rancio, quando il tenente Leonardo Pecchioli, lasciatosi alle spalle le casere delle Mandrielle dopo la conferenza del generale Oro, tornava con passo di tempesta verso l’accampamento del Centoquindicesimo ai piedi del Costesin. Con il cuore in tumulto, non vedeva l’ora di incontrare Ardenghi per metterlo a conoscenza delle sconvolgenti notizie che era riuscito a raccogliere. Mentre scendeva trafelato verso il reggimento, anche il freddo fatalismo ostentato davanti all’amico la sera prima andava scomparendo. Persino la sua ironia si dileguava, per lasciar posto a un vasto senso di inquietudine che, se non fosse riuscito ad arginarlo ricordando a se stesso di essere un ufficiale, si sarebbe presto trasformato in paura. Meglio non sapere, mille volte meglio, pensava lungo il cammino. Gli uomini del suo plotone stavano riposando ignari, forse giocavano a carte o erano intenti a scrivere faticosamente qualche riga a casa. Lui invece sapeva, e gli era così negato persino il diritto di godere di quelle ultime ore di serena incoscienza.

Lo scoppio di uno shrapnel lo fece trasalire all’improvviso, svelto come un gatto si buttò in un avvallamento accanto al sentiero; sentì il cuore battere forte, ma l’ansia per quella cannonata solitaria, certo non indirizzata a lui, era nulla a confronto di quanto portava nell’animo. Perché Pecchioli ormai sapeva che l’attacco frontale, quello con il quale si sarebbe cercato di travolgere le difese nemiche nella speranza di aprire un varco verso Trento, sarebbe stato sferrato quella notte stessa.

Ardenghi, quasi avesse saputo del suo arrivo, gli andò incontro lungo la mulattiera, e già prima di arrivargli vicino capì che le notizie che portava non erano buone. A un gesto di Pecchioli, in silenzio, si inoltrarono nel bosco, uno dietro l’altro, e appena furono penetrati quanto bastava per essere invisibili a chi poteva transitare sulla carrareccia, sedettero sul tronco di un albero schiantato da una granata. Pecchioli iniziò a raccontare.

Quel mattino, arrivando alle Mandrielle, dopo essere scattato sull’attenti infinite volte per salutare tutti i superiori, Leonardo si era disposto ad aspettare pazientemente la fine della riunione alla quale, a parte gli ufficiali a rapporto, nessuno poteva assistere. Nessuno, salvo i due carabinieri di servizio. E fu proprio corrompendo uno di questi, con una scatola di Toscani e la promessa di una bottiglia di grappa, che Pecchioli venne a sapere dell’imminente operazione.

Il carabiniere raccontò per sommi capi che il generale Oro aveva comunicato ai presenti che quella notte, alle ventitré in punto, la Brigata Ivrea avrebbe mosso verso il forte Busa Verle, mentre agli alpini del Val Brenta sarebbe spettato il compito di occupare le posizioni nemiche di Cima Vézzena, espugnando il forte osservatorio della vetta. Il Centoquindicesimo, con il sostegno del Centosedicesimo, avrebbe dato l’assalto al fortino del Basson anche se, a quanto si disse, l’intervento dei due reggimenti avrebbe dovuto avere solo scopi dimostrativi e di fiancheggiamento. L’artiglieria avrebbe continuato a battere le fortificazioni nemiche e i reticolati antistanti fino alle ventuno e, subito dopo, con il favore delle tenebre, sarebbero uscite dalle trincee squadre di guastatori per completare l’opera facendo esplodere cariche di gelatina sotto ai reticolati oppure, dove queste non fossero bastate, li avrebbero tranciati usando le pinze tagliafili. L’ordine, a quanto aveva saputo, era già stato notificato dai carabinieri ai vari comandi.

Ardenghi rimase annichilito: già immaginava se stesso, pistola in pugno, correre su per il pendio alla testa del suo plotone, raggiungere i reticolati, che in realtà non aveva ancora visto da vicino, incitando i suoi uomini a infilarsi nei varchi aperti dall’artiglieria. E poi piombare nella trincea nemica, sparare a bruciapelo a chi si fosse trovato davanti nell’inferno del corpo a corpo. Uccidere, quindi, o forse essere ucciso.

«Il carabiniere mi ha assicurato» riprese il compagno «che il colonnello Riveri, che più volte aveva spinto le pattuglie lungo la linea nemica, ha fatto notare insistentemente che i reticolati sono pressoché intatti, quindi l’azione delle fanterie si sarebbe trasformata in un’ecatombe. Ma il generale Oro, che è un ufficiale rigido, all’antica, non ha accettato l’osservazione e ha risposto stizzito che i reticolati si aprono con i denti o con i petti».

«Con i denti o con i petti?» ripeté Ardenghi esterrefatto.

«Pare sia andata proprio così. Allora Riveri, risentito, e temendo di essere stato frainteso e scambiato quindi per un codardo, ha chiesto l’autorizzazione a far entrare in campo anche il Centoquindicesimo, qualora il momento fosse stato propizio, con l’obiettivo di raggiungere e conquistare la posizione di Costa Alta».

Le parole morirono, e rimase soltanto il silenzio del bosco, perché ormai c’era poco da aggiungere: poche ore e anche Ardenghi avrebbe avuto il suo battesimo del fuoco.

Come si è detto, il giovane ufficiale, il cui occhio era certo poco allenato a cogliere gli aspetti meno evidenti della tattica e della strategia militare, osservandolo dalle alture del Costesin la sera prima, aveva valutato il Basson come un ostacolo di poco conto, certo facilmente superabile con lo slancio e l’ardimento con cui, alla scuola ufficiali, gli avevano insegnato si potesse portare a termine brillantemente qualsiasi azione e oltrepassare ogni ostacolo. Come in piazza d’armi, o come era accaduto sui campi di battaglia garibaldini o, ancor prima, napoleonici. La posizione di Malga Basson di Sopra, così era chiamata all’inizio del 1914 nei rapporti ufficiali, posta naturalmente a presidio della strada che dal fondovalle portava all’omonimo passo, era invece considerata dal nemico uno dei punti chiave del suo schieramento sull’Altopiano di Vézzena.

Proprio da dietro quell’insignificante rilievo un tempo erboso, sarà sparato poco tempo dopo, il 15 maggio 1916, il primo colpo di cannone contro Asiago. Si trattava del proietto di un potente Škoda 35/45, infidamente acquattato come un rospo al riparo delle linee, il cui tiro non cessò fino alla completa distruzione della cittadina. La popolazione fuggì verso Gallio: una fiumana di povera gente in preda alla disperazione che avrebbe perso tutto sotto i colpi di maglio di quel mostro d’acciaio.

Il trincerone del fortino del Basson, scavato profondamente, e in parte blindato con lamiere di zinco ricoperte di terra, era stato subito notato dagli informatori italiani che, nelle vesti di semplici turisti, viandanti o naturalisti, già dal 1909 avevano effettuato rilievi dell’altopiano, stendendo rapporti spesso corredati da ampie documentazioni fotografiche che puntualmente arrivavano sui tavoli dello Stato Maggiore italiano. Nella seconda parte della relazione al comando della Prima armata relativa all’Altopiano di Lavarone e Luserna, si evidenziava che il fortino era composto di due grandi trincee circolari, una attorno al cocuzzolo, e altre due, ad arco, sul piano sottostante, sempre difese da tre ordini ininterrotti di reticolati. Gli informatori italiani avvertivano coscienziosamente della presenza di postazioni per lanciabombe, lanciafiamme e cannoni in casamatta. L’intera opera, infine, era collegata alle alture di Costa Alta da una trincea/camminamento che tagliava il pianoro da est a ovest e, di fatto, rappresentava il cordone ombelicale attraverso il quale i difensori della quota comunicavano con le retrovie. Con l’entrata in guerra dell’Italia il lavoro degli informatori cessò e, dopo l’emanazione dell’ordine di evacuazione, anche la popolazione abbandonò l’altopiano. Rimane un mistero come il generale Pasquale Oro, che non era certo un ufficiale di primo pelo, abbia potuto prendere sottogamba tali dettagliate informazioni. Forse – fa bene pensarlo per non sgorbiare del tutto la sua figura di ufficiale e uomo – fu spinto da ragioni politiche internazionali, come se fosse necessario riequilibrare con un colpo di mano nel Trentino lo stallo delle operazioni sull’Isonzo.

La giornata del 24 agosto passò senza storia. Il colonnello Riveri, nel pomeriggio, aveva chiamato a rapporto gli ufficiali del Centoquindicesimo, e altrettanto avevano fatto i comandanti degli altri reggimenti che sarebbero stati impegnati nella notte; quindi ormai la notizia si era diffusa tra i comandi. I soldati, come d’uso in questi casi, non avevano ricevuto alcun ordine, così che, se nel frattempo gli austriaci avessero fatto qualche prigioniero, la notizia non sarebbe passata al nemico. Ma gli uomini, in gran parte contadini delle campagne di Treviso e Pordenone, abituati a leggere nelle nuvole i segni del tempo e delle stagioni, non avevano mancato di cogliere negli occhi dei loro ufficiali l’incertezza e la preoccupazione per quanto stava per accadere. Ardenghi, praticamente sconosciuto agli uomini del suo plotone, applicò scrupolosamente il regolamento ispezionando fucili, baionette e munizioni. Presenziò egli stesso alla distribuzione di bombe a mano e viveri di riserva e chiamò a rapporto i capi squadra.

I soldati guardavano sospettosi quell’ufficiale mai visto prima e per giunta così giovane, soprattutto i più anziani, strappati dalla guerra alle loro case e in pena per la campagna, le bestie, la moglie sola e i figli ancora troppo piccoli per dare una mano nei campi. Sarebbero stati proprio loro, quei veneti contadini, onesti e testardi come muli, i più difficili da convincere a saltar fuori dalla trincea al momento dell’assalto. I giovani, pieni di illusioni e belle speranze, avrebbero mostrato il petto alle mitraglie imperiali senza farsi troppe domande, mentre loro, i vecchi, più attaccati alla vita e consapevoli dei drammi che lasciavano, si sarebbero fatti ammazzare in silenzio solo perché dovevano, combattendo come gli altri, ma senza alcun entusiasmo.

Espletate le poche altre incombenze che spettavano a un sottotenente nell’attesa dell’azione, Ardenghi si ritirò nella sua tenda; sedette sulla brandina da campo, cavò dal sacco un quadernino e si apprestò a scrivere al padre. Attorno a lui solo i rumori della foresta che iniziava a riconoscere e più lontano, verso Porta Manazzo, un brontolio cupo e continuo: colpi di cannone che andavano a colpire le corazze o il calcestruzzo di Forte Busa Verle o di Forte Luserna, umide casematte dai muri gocciolanti simili a tombe dove, alla luce fioca di una lampadina collegata a un generatore, altri giovani uomini aspettavano il momento in cui si sarebbe deciso della loro vita. Il foglio era pronto, e così la penna, ma l’inchiostro stentava a uscire, come se improvvisamente i pensieri si fossero accorti che la fessura del pennino era troppo angusta per lasciarli sgusciar fuori trasformati in parole. Poi l’inchiostro iniziò a scorrere, e le parole si composero, ordinate una dietro l’altra, sulla pagina. Avrebbe voluto scrivere una lettera piena di belle parole, di speranza per la guerra e l’Italia: la fedeltà al re, Trento, Trieste e la facile vittoria auspicata dagli alati versi di d’Annunzio. E poi raccontare del solitario viaggio tra i monti e degli incontri, dell’amico Leonardo ritrovato, e dell’imminente battaglia certamente vittoriosa. Rassicurare così il suo vecchio che l’aspettava a Treviso, dirgli che la guerra non era poi così brutta; confidargli che sì, qualcuno certe volte muore, ma muore per la patria, quindi diventa un eroe, e anche la morte non fa male. Non avrebbe dimenticato un saluto a Vittorino, l’oste burbero compagno e complice della sua infanzia. Ma gli vennero alla mente le sue parole severe e i suoi occhi lucidi nel salutarlo, e i pensieri gli si confusero. Ne uscì così una lettera vuota e piena di retorica, e nel rileggerla gli sembrò che le parole imitassero gli scritti dei martiri del Risorgimento che aveva letto a scuola, nemmeno troppi anni prima. La ripose nella tasca della giubba, assieme alla coccarda che gli aveva appuntato sulla giacca Clara il giorno in cui l’aveva incontrata in Calmaggiore. Chissà se si ricordava ancora di lui e se sapeva che adesso era a fare la guerra.

Un suono di cornette e tamburi lo riportò alla realtà, si precipitò fuori dalla tenda cercando di capire cosa stesse accadendo: non c’erano dubbi, la musica proveniva dal folto della foresta. Ardenghi diede una voce a un caporalmaggiore che passava sul sentiero.

«Caporale, cos’è questo chiasso?».

Il soldato scattò sull’attenti.

«È la banda del reggimento, signor tenente, che si sta esercitando».

Ardenghi non poteva ancora saperlo, ma il generale Oro aveva deciso che l’imminente battaglia sarebbe stata accompagnata dalle note della Marcia reale, suonata dalla Musica nascosta nel bosco. Quale migliore sostegno, aveva pensato il vecchio ufficiale, per i suoi ragazzi mandati a morire.

Pecchioli venne a cercarlo verso sera, dopo aver ritrovato, in parte, la solita baldanza.

«Coraggio, Italo, vedrai che quando andremo borghesi ci rideremo anche su» buttò lì senza convinzione, «si esce dal bosco, quattro pistolettate ed è tutto finito!».

«Speriamo proprio che tu abbia ragione, Leonardo. Hai scritto a casa?».

«Sì, ecco la mia lettera: tienila tu, nel caso dovesse succedermi qualcosa».

Ardenghi guardò negli occhi l’amico, poi prese la busta e la ripose in tasca, e senza una parola gli consegnò la sua. A quel punto non restava altro da dire: ognuno sarebbe stato testimone del destino dell’altro. Il giorno intanto stava morendo, la foresta si tingeva dei colori cupi della notte che, ancora una volta, saliva lentamente dalle valli; il rancio serale era stato già distribuito e i soldati – la notizia dell’attacco, anche se non confermata, si era ormai diffusa – aspettavano fumando, scarabocchiando qualche lettera di saluto o cantando sottovoce certe loro canzoni dalle parole consumate come i ciottoli di un torrente.

Mai il bosco era sembrato loro tanto ospitale, mai come allora l’intrico degli abeti e dei larici secolari assomigliava a una fortezza in cui, se nessuno avesse ordinato di dare l’assalto, avrebbero potuto continuare a vivere per sempre, rinunciando alla battaglia.

Fu proprio a quell’ora che a un alpino del Val Brenta, uno di quelli che stavano di vedetta acquattati tra le pietre, in un piccolo posto sul Pizzo Leve, verso la cima del Vézzena, parve di vedere qualcosa animarsi sui reticolati, qualche centinaio di metri più a monte, proprio là dove giacevano insepolti i corpi dei compagni caduti a maggio. Per un momento ebbe come l’impressione che qualcuno agitasse un braccio, quasi un gesto di grave ammonimento o di avviso. Stupito, distolse lo sguardo, si fece prestare il binocolo dal tenente che gli stava accanto e riprese a osservare: ora tutto era perfettamente immobile, solo i mostruosi fantocci grigioverdi, goffamente aggrappati ai reticolati, bisbigliavano tra loro nell’incomprensibile linguaggio dei morti.

I due amici si salutarono con un abbraccio lungo e silenzioso, e poi si incamminarono, ognuno per tornare al proprio plotone.

Erano le ventuno quando, dopo che il buio aveva ormai sbiadito i contorni di ogni cosa, gli esploratori e i guastatori uscirono dal bosco per constatare lo stato dei reticolati nemici ed, eventualmente, aprire i varchi necessari al passaggio delle fanterie. Nell’oscurità erano solo delle ombre indefinite, che poco risaltavano sul verde scuro del pianoro, ma appena iniziarono a risalire il pendio, la luna uscì da Cima Mandriolo, e la sua luce diafana e spettrale ne svelò presto l’avanzata. Dalle posizioni nemiche l’occhio maligno dei riflettori frugava in cerca di carne da ghermire, mentre mitraglie e artiglierie aprivano il fuoco contro le ombre appiattite sul terreno. I plotoni di guastatori dovettero desistere dall’impresa, lasciando sul campo una trentina di uomini tra morti e feriti, e i reticolati, già risparmiati dall’artiglieria se non per un breve tratto, rimasero inviolati.

Ardenghi, alla testa del suo plotone sul limitare del bosco, osservava la scena annichilito; uno dei suoi soldati, un vecchio contadino dal viso rotondo e pallido come la luna, un uomo che per età avrebbe potuto essergli padre, gli toccò il braccio e gli si rivolse con inaspettata confidenza.

«Sior tenente, qua i ne manda a morir tuti quanti» sussurrò accorato. «Mi go tre puteli a casa che me speta».

«Di dove sei?» chiese dolcemente.

«De Vedelago, sior tenente».

«Coraggio, fatti coraggio: sarà quel che sarà. Tieni» lo incoraggiò porgendogli la medaglietta che gli aveva regalato la vecchia del Ghèrtele il giorno prima, «sant’Antonio ti proteggerà!».

Un quarto d’ora dopo, erano le 22.45 in punto, a un cenno del capitano Gennari, un uomo dopo l’altro e in silenzio, la Quinta e l’Ottava compagnia raggiunsero le posizioni di attesa assegnate, da dove avrebbero mosso l’attacco alle trincee austriache. Ancora un lungo momento, poi il colonnello Riveri diede l’ordine, e il trombettiere suonò il segnale «Centoquindicesimo fanteria alla baionetta». Ardenghi sfoderò la Glisenti e, al grido di «Savoia!», uscì per primo.

La prima cosa che vide, mentre già correva verso le posizioni austriache seguito dai suoi uomini, fu il levarsi dalle trincee nemiche di un’esplosione di razzi che illuminò a giorno l’altopiano. Contemporaneamente, si aprì il fuoco di sbarramento, che riempì l’aria di boati e detonazioni, mentre le mitragliatrici iniziavano a sgranare nell’oscurità la loro funebre litania di morte. Busa Verle e Luserna, creduti ormai incapaci di reazione dopo essere stati bersagliati per giorni dall’artiglieria italiana, sparavano invece a tiro rapido sulla massa in avanzata, e a ogni colpo uomini come fantocci di panno volavano in aria e ricadevano inanimati al suolo.

Sentì un lamento strozzato accanto a lui: voltandosi fece a tempo a vedere il vecchio soldato che gli stava accanto raggomitolarsi su se stesso e cadere, lasciando il fucile. «Quinta compagnia avanti! Quinta compagnia avanti!» qualcuno gridò a destra. Ardenghi ripeté a sua volta l’ordine più volte. Si voltò ancora, e vide una massa di uomini scuri, curvi sotto le pallottole che fischiavano maligne, arrancare verso l’altura; i soldati sfidavano il piombo con volontà sovrumana, tale era il potere diabolico dell’ordine ricevuto da altri uomini. Molti venivano fulminati dopo pochi metri, e le loro gambe continuavano a muoversi, ad arrancare come potessero ancora avanzare di qualche metro. Poi si piegavano come burattini e scomparivano inghiottiti dalla terra, mentre il viso si contraeva in una maschera di dolore. Altri, già caduti e lasciati indietro nell’assalto, spiravano con dipinta sul volto un’espressione di infinito stupore. La luce fredda e indifferente del plenilunio rendeva il loro pallore ancora più disumano e spettrale.

I boati scuotevano l’aria e, tra uno scoppio e l’altro, chiare giungevano sul campo di battaglia le note della Marcia reale, scandite dalla Musica che stava nel folto del bosco. Ardenghi vide qualcosa volteggiare nell’aria e ricadere davanti ai suoi piedi: era un braccio troncato nella manica grigioverde; la mano rosea, ancora palpitante vita, stringeva in pugno un rosario.

Altri uomini si scagliavano ora a rotta di collo su per il pendio, molti cadevano fulminati sotto il tiro incrociato delle mitragliatrici, altri cercavano rifugio nei rari anfratti del terreno o dietro ai compagni caduti, ma la gran parte avanzava di corsa verso il primo ordine di reticolati. Anche i pochi che riuscivano a scappare verso il bosco venivano presto raggiunti dai proiettili nemici. Un’improvvisa scarica, arrivata come un’onda malefica dalla prima linea austriaca, creò il vuoto attorno ad Ardenghi che, Dio sa come, rimase illeso, ritrovandosi alla testa di uomini di altre compagnie. «Avanti! Avanti!» ripeteva brandendo la pistola. «Avanti!».

Sulla zona del Basson continuavano a cadere i colpi di Forte Luserna, e tutto attorno sorgevano fontane di terra che sollevavano corpi dilaniati. A un tratto Ardenghi si sentì chiamare: era l’amico Pecchioli che, nemmeno una ventina di passi dietro a lui, gli arrancava incontro. In un attimo lo vide scomparire, polverizzato dall’esplosione di una granata che l’aveva investito in pieno. Di lui non rimase più nulla. Ad Ardenghi si annebbiò la vista e il sangue caldo gli colò sul viso, come fosse una maschera: qualcosa l’aveva colpito di striscio alla fronte, forse una scheggia della stessa granata che aveva disintegrato Pecchioli. Cavò di tasca un pacchetto di medicazione e premette la garza sulla ferita; attorno a lui le mitragliatrici continuavano a falciare vite. Su tutto il campo di battaglia ristagnava ora un odore acre di fumo e di sangue bruciato.

Anche i soldati della Brigata Ivrea si trovavano in grave difficoltà, inchiodati davanti ai reticolati intatti del Busa Verle. I mitraglieri austriaci, murati vivi nelle loro casematte, spiavano il campo di battaglia; cercavano dalle feritoie i fanti italiani appiattiti contro il terreno e premevano il pulsante di sparo, mentre l’arma divorava nastri di colpi. Intanto gli alpini del Val Brenta, aggrappati con le unghie e i denti alle pendici di Cima Vézzena, disperavano ormai di riuscire ad aver ragione dei pochi difensori del forte osservatorio.

Pagando un prezzo di vite altissimo, gli uomini del Centoquindicesimo, ormai frammischiati a quelli del Centosedicesimo, raggiunsero il primo ordine di reticolati del fortino del Basson dove, inaspettatamente, trovarono dei varchi prodotti dall’artiglieria o dalle pinze dei guastatori. Ardenghi, tra i primi, si infilò nella ragnatela di ferro e piombò, seguito da altri soldati, nella trincea del primo anello difensivo nemico, dal quale gli ultimi territoriali non erano ancora riusciti a ritirarsi. Si trovò davanti un gigantesco sergente degli Standschützen con un paio di baffoni spioventi che brandiva una bomba a mano. Ardenghi puntò la Glisenti alla cieca, chiuse gli occhi e premette il grilletto. Quando li riaprì, il sergente era accasciato contro la parete della trincea, colpito in piena fronte dal proiettile che l’aveva freddato. Il piccolo drappello rimase immobile nella trincea conquistata, domandandosi quale miracolo li avesse conservati vivi in quell’inferno. Per un momento parve loro di poter godere di un attimo di tregua, mentre sulle loro teste imperversava il crepitio della fucileria e l’esplosione di bombe a mano e shrapnel. Nei rari momenti di brevissima tregua, le urla dei feriti abbandonati nella terra di nessuno straziavano il cuore, ed era meglio il fragore della battaglia, perché per loro nulla si poteva ormai fare. Ardenghi poggiò la testa alla parete della trincea e gli occhi gli si riempirono di lacrime, lacrime mescolate al suo stesso sangue. Rivide Leonardo venirgli incontro e sparire nella vampa dell’esplosione, ripensò a quanta morte aveva visto attorno a sé e alla sua vita, che forse era arrivata alla fine. Vicinissima, una mitragliatrice riprese a intonare il suo monotono spettegolare facendolo trasalire, mentre la luna, complice involontaria del massacro e ormai alta nel cielo, stava a guardare. Cercò l’orologio, e si accorse che era stato fracassato; in quel momento sarebbe stato impossibile dire quanto tempo fosse trascorso dall’inizio dell’azione perché, nell’attesa della morte, i minuti durano ore, e le ore si fanno beffa dell’uomo e si consumano in pochi attimi. Incessantemente, come traboccati dal campo di battaglia, altri soldati rotolavano nella trincea, alcuni miracolosamente incolumi, altri feriti o morenti, trascinati dai compagni che non volevano lasciarli a farsi fare a pezzi dall’artiglieria. Uno di questi, che ad Ardenghi sulle prime era sembrato un fagotto di stracci, aveva le gambe amputate sopra al ginocchio, e dai moncherini scaturiva il sangue che presto formò una pozza sotto di lui. Stava in silenzio, inebetito, e in quel silenzio ebete spirò. Un altro ricadde nella trincea tenendosi il ventre squarciato da cui fuoriuscivano gli intestini; chiedeva ai compagni che lo guardavano impotenti di finirlo, ma nessuno aveva il coraggio di sparare. Ci pensò un lanciabombe austriaco che lo colpì in pieno, ferendo anche altri due soldati.

A quel punto il colonnello Riveri, ritenendo che il momento fosse favorevole, lanciò all’assalto il resto del reggimento, con il risultato che chi si trovava già nella trincea finì schiacciato contro i reticolati intatti dai compagni sopraggiunti. Il trincerone della seconda linea, quello che ininterrottamente collegava Forte Luserna a Cima Vézzena, rimase imprendibile. Intanto le mitraglie e la fucileria nemica continuavano a tirare nel mucchio, provocando uno strazio di carne umana.

A dispetto della carneficina in corso, nelle retrovie arrivavano notizie di tutt’altro genere: il Basson sembrava ormai in mano italiana, e così il Busa Verle che, a detta degli informatori, era stato addirittura superato. Il generale Oro, nel suo quartier generale al Termine, a tre chilometri dal fronte, dove i clangori della battaglia giungevano appena attenuati, attendeva in silenzio, dispiegando e ripiegando continuamente le sue mappe sul tavolo.

Il bombardamento austriaco sulla linea raggiunta dalle truppe italiane continuò per quasi un’ora, e sembrava impossibile che qualcuno ancora vivesse davanti ai reticolati, in mezzo a quella tempesta di ferro e fuoco. Gli uomini stavano raggomitolati uno accanto all’altro, immobili. Altri invece si spostavano di continuo, rifugiandosi nel cratere di un proietto appena caduto, secondo la regola, spesso priva di fondamento, che mai un colpo cade dove ne è caduto uno in precedenza. Ardenghi stringeva in pugno la pistola e, di tanto in tanto, come altri soldati, sparava qualche colpo alla cieca contro la trincea nemica. Ma a un tratto, un drappello di soldati austriaci uscì dalla seconda trincea per cercare di ricacciare gli attaccanti dalla loro posizione: ne scaturì un furioso corpo a corpo a colpi di baionetta e tremendi fendenti assestati con le vanghette. Gli italiani si battevano con ardimento inaspettato, certo figlio dell’adrenalina accumulata mentre, impotenti, subivano il bombardamento nemico. Ardenghi fu tra loro e, colto da un’ubriacatura di sangue e violenza, si batté eroicamente, con forza e accanimento che lui stesso non sospettava di possedere. Scaricata la Glisenti, raccolse il fucile di un caduto e, brandendolo come una clava, colpì un austriaco che cercava di portarlo a tiro della sua baionetta; poi sferrò un tremendo colpo in faccia a un altro, ed ebbe il tempo di vederlo sputare denti e sangue. Infine, radunati alcuni uomini, iniziò ad avanzare per ricacciare gli attaccanti entro le loro linee ma, a quel punto, sentì la testa esplodere, e per lui anche l’ormai incerta luce lunare che illuminava la scena si spense.

Il cielo iniziava a scolorire e solo quando l’alba sollevò il pietoso sudario di tenebra, il massacro apparve in tutto il suo orrore.

Il colonnello Riveri, gravemente ferito, fu condotto al riparo nella trincea occupata, e da lì impartiva ordini perché fosse recuperata la bandiera del reggimento che, portata avanti dal tenente colonnello Marchetti, poi colpito a morte, si temeva caduta in mano nemica. La bandiera fu fortunosamente recuperata e a quel punto – erano ormai le sei del mattino – fu chiesto al colonnello di concedere la ritirata. Il vecchio ufficiale fu irremovibile, deciso a rimanere, seppur ferito, sulle posizioni conquistate in attesa di rincalzi. Fu due ore dopo che, nuovamente ferito da pallette di shrapnel e quasi svenuto, diede finalmente l’ordine di ripiegare. Una decisione sofferta la sua, che da rigido soldato non ammetteva la sconfitta, ma provvidenziale, perché gli austriaci, ottenuti rinforzi, stavano preparando un contrattacco.

Il fuoco nemico lentamente diminuì d’intensità senza spegnersi del tutto, mentre quello che restava del Centoquindicesimo e Centosedicesimo rientrava nelle posizioni di partenza portando con sé i feriti meno gravi. Gli austriaci continuavano a sparacchiare di tanto in tanto, disturbando il ripiegamento, mentre varie pattuglie uscivano per rastrellare i feriti rimasti sul campo e fare prigionieri. Da Malga Marcai, gli alpini del Bassano assistevano impotenti al doloroso epilogo.

Alle ore tredici del 25 agosto l’azione era definitivamente conclusa. Dalle linee italiane si potevano scorgere gli austriaci ancora intenti a raccogliere feriti italiani davanti alle loro trincee. Gli animali del bosco, cessato l’assordante rumore di battaglia, uscirono dalle loro tane, prima ancora incerti, poi sereni per il sole che inondava di nuovo l’altopiano: per loro era un giorno come tutti gli altri.

Un prete spuntò dalle linee austriache a benedire i morti e a dissetare i feriti con le fiaschette tolte ai caduti; chino sui morenti, impartiva l’estrema unzione e raccoglieva le ultime suppliche. Ovunque si levavano lamenti e richieste di aiuto; il prete scavalcava i morti che giacevano abbandonati uno sull’altro nelle pose più grottesche e proseguiva la sua opera. Lui stesso indicava ai feriti che potevano reggersi in piedi le retrovie austriache, dove incamminarsi verso la prigionia e la salvezza. Anche il colonnello Riveri fu raccolto con un telo da tenda dagli ufficiali che gli erano rimasti accanto, anch’essi prigionieri, e avviato verso un ospedale da campo; passando, videro a terra il cadavere del tenente colonnello Marchetti attorniato da ufficiali austriaci che controllavano i documenti trovati nelle tasche della sua giubba. Il giorno dopo la battaglia, con il sole di agosto ormai alto nel cielo, i feriti erano stati tutti evacuati. Rimanevano i morti, enormi cataste di cadaveri per cui si stava provvedendo a scavare appena dietro la linea del fronte, nel vicino cimitero di Costa Alta, delle fosse capaci di quaranta salme ciascuna. Ci sarebbero voluti giorni di lavoro e così, nel frattempo, pattuglie austriache, la fascia della Croce Rossa al braccio, iniziarono a cospargere i cadaveri di cloruro di calcio. Sul Basson si diffuse un pestilenziale fetore di morte. Di tanto in tanto, nello stupore dei disinfestatori, qualche gemito isolato si levava ancora dalla massa dei cadaveri.

Accadde nel primo pomeriggio del 27 agosto, secondo giorno dopo la battaglia. Gli austriaci, concluso il pietoso compito, erano ormai rientrati nelle loro linee, e davanti al Basson, dopo tanto clamore, regnava un silenzio spettrale. Un vento leggero accarezzava i corpi dei caduti ancora in attesa di sepoltura; li contava, per essere ben certo che tutto quello scempio fosse davvero opera dell’uomo. E quello stesso vento che portava lontano l’odore insopportabile di carne corrotta e cloro scostò una ciocca di capelli di Ardenghi, la cui testa spuntava appena da una massa informe di corpi calcinati. Il giovane tenente aprì gli occhi e rimase abbacinato dalla luce, così ancora per qualche minuto rimase immobile. Poi, lentamente e con enorme fatica, sfilò il suo povero corpo dalla catasta di morti e rimase per alcuni minuti in ginocchio, come stesse pregando. Da un lato della testa gli pendeva una zolla di terra secca, nera di sangue rappreso: forse il motivo della sua salvezza. Riuscì a mettersi in piedi, si guardò le mani bianche, come bianche erano la divisa, le fasce e gli scarponi; la Glisenti gli penzolava dal collo, ancora appesa al correggiolo di ordinanza. Mosse alcuni passi e ricadde a terra, privo di forze, e così rimase per un tempo indefinito. Le vedette austriache, anche grazie alla pendenza del terreno, non si erano accorte di nulla. Era ormai sera quando riuscì a rimettersi in piedi e riprese a scendere il declivio verso le linee italiane. I suoi occhi erano sbarrati, e lo sguardo vuoto, vuoto come quello dei morti da cui, con passo sempre più incerto, poco a poco si stava allontanando. Erano occhi ormai senza luce, come lo sono quelli degli alienati, in cui tutti sanno leggere la follia, ma dietro i quali nessuno sa dire con certezza cosa si annidi. Protetto dalla luce incerta del crepuscolo, avanzava simile a un automa, barcollando e rovinando a volte nei crateri lasciati dall’artiglieria, dove rimaneva a lungo prostrato e senza respiro. Quando ormai aveva raggiunto il pianoro, fu scorto da un ufficiale austriaco che osservava al binocolo la terra di nessuno ma che, intuito cosa stava accadendo, distolse lo sguardo e finse di non aver visto. Intanto qualche vedetta italiana aveva dato l’allarme. Ma i fucili presto vennero abbassati, e due uomini della sanità gli si mossero incontro. Trovandoseli davanti, Ardenghi cercò di impugnare la pistola che gli penzolava tra le gambe e poi di fuggire con passi incerti, ma lo rincorsero e, avuta presto ragione della sua debole resistenza, lo condussero verso le linee italiane. Allora una vedetta austriaca, messa in allarme dal tramestio improvviso, sparò qualche colpo, ma ormai era scesa la notte, e già il profilo dei larici riempiva l’altopiano di misteriose ombre.

Anche il vento se n’era andato altrove, e sul Vézzena regnava l’irreale e assoluto silenzio delle montagne.