EPILOGO

UNA SMODATA PREDILEZIONE PER I COLEOTTERI

Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.

PRIMO LEVI, Appendice a Se questo è un uomo, 1976, p. 251

A proposito delle modeste verità, conquistate a fatica, di cui scrive in questo passaggio Primo Levi, si narra che uno dei più anticonformisti biologi del Novecento, un “bastian contrario iconoclasta” (Gould, 2000, p. 368), nonché fra i padri fondatori della genetica di popolazione, della genetica umana e del darwinismo moderno, John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964), ebbe modo in almeno un’occasione di dire la sua sulla teologia naturale. La citazione è contenuta in una nota sulla prima pagina di un saggio che ha fatto epoca, uscito in occasione del primo centenario della pubblicazione di L’origine delle specie, dal titolo “Omaggio a Santa Rosalia, ovvero perché ci sono così tanti tipi di animali” (1959), del maggiore ecologo evoluzionista di tutti i tempi, George Evelyn Hutchinson. Il peculiare omaggio alla santa palermitana come “patrona degli studi evolutivi” è dovuto a un dettaglio contingente che portò il grande naturalista e intellettuale angloamericano a trovare proprio sotto il santuario dedicato a Santa Rosalia sul Monte Pellegrino un piccolo stagno contenente due specie rarissime di emitteri acquatici del genere Corixa. Il nome di Santa Rosalia fu così legato indelebilmente (e più volte citato in letteratura scientifica) agli studi pionieristici sulle interazioni evolutive delle specie, sulla biodiversità negli ecosistemi e sull’organizzazione delle comunità ecologiche (Massa, 2010, pp. 105-122).

Nella nota Hutchinson attesta che esisterebbe “una storia, forse apocrifa, secondo cui l’autorevole biologo inglese J.B.S. Haldane si trovò un giorno in compagnia di un gruppo di teologi. Essendogli stato chiesto che cosa si potrebbe dedurre in conclusione circa la natura del Creatore a partire dallo studio della Sua creazione, si racconta che Haldane abbia risposto: ‘Una smodata predilezione per i coleotteri’”. Benché la battuta abbia fatto il giro del mondo, sul contesto in cui si sarebbe svolta la conversazione sono fiorite leggende eroiche e controversie, anche considerando la personalità straboccante e irriverente di Haldane, due volte ferito sul fronte della Prima guerra mondiale, brillante relatore, carattere scostante, autore di visionarie predizioni scientifiche forse un po’ troppo entusiastiche, ardito sperimentatore (in primis su se stesso), imprudente sostenitore della guerra chimica nel 1925 (Gould, 2000), membro del Partito comunista britannico ed editorialista del Daily Worker, in tarda età emigrato in India, all’Indian Statistical Institute di Calcutta, anche per protesta contro il colonialismo inglese.

Una frase ben riuscita e su un tema così allettante (come si immagina il Creatore uno scienziato di gran vaglia e tanto enigmatico) è facilmente soggetta a essere erroneamente attribuita a un personaggio più famoso del suo vero autore, a essere riscritta per renderla più ficcante, e a essere inserita in circostanze assai più drammatiche e canoniche di quelle realmente verificatesi. Robert May nel 1989 su Nature interpretò la frase come una risposta di Haldane al classicista Benjamin Jowett durante un pranzo alla tavola alta del Balliol College di Oxford. Ma Jowett era morto nel 1893 e forse la domanda fu da lui rivolta a Thomas H. Huxley o al padre, illustre fisiologo scozzese, di Haldane stesso. Redarguito dai lettori di Nature per l’anacronismo, May rispose deliziosamente: “I vincoli mondani di tempo e di spazio non si applicano alle storie che riguardano Oxford” (citato in Gould, 1995, p. 380). Gli amici sostennero che Haldane aveva una smodata predilezione per quella frase sui coleotteri e che la ripeté in più occasioni conviviali, anche in assenza di austeri teologi invitati. Però non la mise mai per iscritto ed essa compare soltanto, in versione edulcorata, nella trascrizione di un suo discorso tenuto alla British Interplanetary Society nel 1951, circa le forme di vita su altri pianeti.

Qui Haldane, autore della prima teoria matematica della selezione naturale e artificiale (Haldane, 1932), fece notare che considerando l’esistenza di 400mila specie di coleotteri allora nominate, a fronte dei quattromila e poco più mammiferi e di un solo rappresentante rimasto del genere Homo, il problema teologico di spiegare i 400mila tentativi di fare un coleottero perfetto era alquanto preoccupante. A parte l’ironia, c’è qualcosa di saggio nel presupporre che un “significato ultimo” possa risiedere proprio nell’ineguagliata diversità di forme raggiunta da un gruppo di esseri viventi che quasi mai colpiscono la nostra attenzione, e nel fatto che, nonostante tutta la sua arcana bizzarria, la natura biologica dopo Darwin diventa potenzialmente comprensibile nella sua trama di relazioni.

Chiunque osservi onestamente l’albero della vita sa che noi siamo alla periferia dell’impero della biodiversità e che ci siamo fatti largo fin qui in virtù di una congerie di circostanze favorevoli, nonostante la smodata predilezione dell’evoluzione verso coleotteri, icneumonidi e altri insetti (il cui numero di specie attualmente stimato è esorbitante e avrebbe assai compiaciuto Haldane). Al “cospetto” della Terra e della sua diversità lussureggiante (in gran parte microscopica), chi oserebbe ancora dire – scriveva nei taccuini giovanili un appassionato collezionista di coleotteri fin da ragazzo, di nome Darwin – che l’intelletto è l’unico scopo di questo mondo? Ebbene, lo spodestamento dal baricentro della biodiversità reca con sé non soltanto un’inevitabile inquietudine ma anche una conquista nobilitante: il senso di appartenenza a una grande storia naturale comune, che non è fatta a nostra immagine e somiglianza. Ciò di cui si è una piccola parte non può essere né un mezzo per sé, né un fine al di là di sé. Quel che possiamo fare è giocare bene la nostra specificità culturale ed etica, nei gradi di libertà che riusciamo a conquistare. L’orizzonte resta sempre una linea naturale, anche se ogni volta si sposta più in là. Così leggiamo nella conclusione di L’origine delle specie: “Quando considero tutti gli esseri non come creazioni speciali, ma come discendenti in linea diretta di pochi esseri che vissero molto tempo prima della deposizione dei primi strati del sistema cambriano, mi sembra che essi siano nobilitati” (p. 553).

Sì, aveva proprio ragione Laura FitzRoy, quest’uomo ha oltrepassato il segno. Quel segno che Spinoza nell’Ethica, intento a smontare il pregiudizio primario della teleologia, aveva descritto così bene: “Trovando gli umani in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso” (1677, Parte Prima, Appendice, p. 36).

Il segno è stato oltrepassato dall’umiltà evoluzionistica che fece sospettare, ancora a Haldane, in Possible Worlds del 1927, che “l’Universo sia non soltanto più eccentrico di quanto supponiamo, ma più eccentrico di quanto possiamo supporre”. Ne deriva che ogni possibilità di vita realizzata valeva la pena di essere esplorata, proprio per la sua unicità. Se non c’è inferiore e superiore in natura, né gerarchie fra i rami del corallo della vita, l’insieme di fragili opportunità che noi siamo non potrà che ritrovare una maggiore solidarietà. In conclusione, dunque, che cosa ha a che fare questa saggezza naturalistica con la nostra vita? Rovesciando quanto scrive Vito Mancuso nel libro prima citato (2009), possiamo dire che l’uomo “autentico” è sì certo l’uomo che vive per la giustizia, il bene e la verità, ma proprio perché sa che la logica del mondo non è necessariamente indirizzata alla giustizia, al bene, alla verità. Responsabilmente, sa che la natura non offre lezioni morali e che non dobbiamo proiettare i nostri pregiudizi e le nostre personificazioni su di essa. E tuttavia, se mai esistesse, quella “logica del mondo”, che non aveva presagito tutto questo, ha alfine partorito la specie umana e il suo corredo di potenzialità. Come scriveva Stephen J. Gould nel 1998: “Come posizione morale preferisco la teoria della ‘doccia fredda’, secondo la quale la natura può essere davvero ‘crudele’ e ‘indifferente’, in quanto non esiste a nostro beneficio, non sapeva che saremmo venuti e non le importa assolutamente nulla di noi (metaforicamente parlando). Considero tale posizione liberatoria, non deprimente, perché ci dà la capacità di sviluppare un discorso nei nostri termini, liberi dall’illusione di poter leggere passivamente la verità morale nella attualità della natura” (1998, p. 285).

È il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, di un’evoluzione non necessaria ma possibile. Nella meraviglia di questo esistere non pianificato si aprono le opportunità di decidere del proprio futuro. Ed è una possibilità realmente e compiutamente etica proprio perché non la deleghiamo al senso ultimo di un presunto ordine naturale necessitante. Dipende da noi. Siamo liberi e responsabili di fronte a questa possibilità, non certo pretendendo di cambiare velleitariamente la natura umana dall’oggi al domani, ma sperando ragionevolmente di condizionare la sua ulteriore evoluzione, naturale e culturale, a favore di migliori condizioni di esistenza, di dignità per ogni essere umano e di convivenza con l’insieme degli ecosistemi che ci permettono di sopravvivere.

C’è poi un impegno etico, nei confronti dell’Universo, che dobbiamo onorare. Dobbiamo sollevare l’Universo dalle nostre pretese, smettendola di rifugiarci in tautologie rassicuranti: se le costanti fisiche fondamentali dell’Universo fossero state leggermente diverse, la vita non sarebbe possibile. E infatti, la vita basata sul carbonio è stata possibile, questa volta, essendosi adattata alle leggi naturali, e siamo qui, ben felici, a raccontare il fenomeno. Forse la vita impregna persino l’Universo oltre ogni nostra immaginazione e rivendicazione di originalità. Con leggi diverse forse sarebbe stata diversa o non sarebbe possibile: una contingenza anch’essa. Siamo l’unico campione statistico finora noto di vita planetaria macroscopica, aspettiamo di conoscerne altri prima di tirare conclusioni affrettate circa la nostra eccezionalità.

La predisposizione dell’Universo alla comparsa di esseri viventi è una coincidenza favorevole: potremmo prenderne atto e rallegrarcene senza scorgere in essa significati che nessuna indagine scientifica può avallare, come suggerisce saggiamente l’astrofisico padre George Coyne (in Chiaberge, 2008, p. 112). Quanto al piatto forte della teleologia cosmica che di solito viene subito dopo – secondo il quale, in virtù del fatto che la vita umana non esisterebbe con leggi naturali minimamente diverse, allora tali leggi devono essere necessariamente proprio così perché progettate da una mente superiore che prevedeva la nostra presenza di esseri coscienti – sia lecito dire rispettosamente che è davvero l’espressione, finanche commovente, di un antropocentrismo talmente cosmico, e illogico, che non resta che attendere che il supercomputer Pensiero Profondo, dotato di un bonario senso dello humour, dai recessi della radiazione cosmica risponda: “Quarantadue”.

La contingenza non impedisce affatto di vivere per qualcosa di più grande di sé, ma suggerisce di farlo in un modo diverso da quello adottato seguendo troppo entusiasticamente le nostre aspirazioni cosmiche e le nostre fallaci ricostruzioni del passato. Per la specie umana qualcosa di più grande dell’io individuale darwiniano esiste eccome: è il futuro, una dimensione etica di non prossimità, che non ha alcun bisogno del giogo escatologico, nessuna necessità di ipotecare ciò che sarà sulla base di false credenze circa la storia naturale che ha condotto fin qui. Nel futuro possiamo riporre le “speranze congetturali” descritte da Paolo Rossi (2008), cioè speranze affidate a sensate e limitate supposizioni, ancorate a fallibili congetture, e pur tuttavia speranze umane, tipicamente umane (perché non basate su fantomatiche logiche del mondo), speranze di specie, speranze su generazioni a venire, speranze che danno un senso solidale, tutto nostro, a ciò che di per sé un senso non ce l’ha. L’impossibilità di dirigere la storia e di rimuovere la contingenza non annulla quindi il dominio delle finalità, ma lo attribuisce propriamente alle intenzioni umane, alla nostra capacità di darci fini perseguibili e limitati.

Nei confronti della credulità umana possiamo infatti avere un atteggiamento scientifico e capire perché siamo “nati per credere”. La spiegazione non avrà alcunché a che vedere con una giustificazione, ma nemmeno con una miracolosa terapia. Sappiamo infatti che il bisogno di credere – persino in un Universo “fatto per noi” – è più forte di qualsiasi scettica disamina della credulità, o di qualsiasi calcolo di probabilità su teiere volanti, né il bisogno di credere ci dice alcunché sulla reale esistenza o meno di ciò in cui crediamo. Non potremo certo risolvere facilmente un problema se quel problema, per molti, è una soluzione, o una ferita aperta. Potremmo però giocare diversamente la nostra propensione a credere, rivolgere ad altri scopi il precursore naturale che ci rende più facile scommettere su un pensiero anziché su un altro, soprattutto se il credere riguarda ciò che ci è dato sperare e la possibilità di una giustizia, nonostante tutto, nei tempi umani che verranno. In un mondo che poteva fare a meno di noi, ma che ci ha pur dato l’opportunità di comprendere e di abitare il nostro passaggio, si spalanca l’altra metà della notte del tempo, con tutte le sue storie indeterminate che attendono di essere illuminate.

Il film della vita passata, quello dove Pikaia spericolatamente ce la fa e la vita sopravvive a sequenze di svolte generative e di catastrofi al termine delle quali sboccia un ramoscello ominino imprevisto, è ai titoli di coda. Gli scienziati sono convinti che se salissimo in sala di proiezione e facessimo scorrere di nuovo la pellicola, non vedremmo lo stesso finale. Ma non abbiamo modo di verificarlo. Il film della vita futura, invece, è ancora tutto da girare ed è pieno di congetture da controllare, di variabili da saggiare, di possibilità controfattuali da esplorare. Crediamo allora nel futuro, se proprio dobbiamo credere a qualcosa. Perché adesso sappiamo che nessuna necessità ce lo può rubare.