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La secca

Era una giornata calda calda, che l’aria vugghìa come morzìaddu nella tiàna.

Concetta l’aveva messo sul fuoco già di mattina, che il segreto per farlo venire bene era lasciarlo cucinare a lungo. Con quel caldo non le andava di stare ai fornelli, ma il giorno prima al marito era venuta gulìa di mangiarselo dentro la pìtta, e allora la sera stessa Cuncettina era passata da Pinnazzu a prendere un chilo di frattaglie: le aveva pulite e lasciate a marinare con olio, limone e aceto tutta notte.

Era andata da Pinnazzu perché alla guccerìa di Nina Curàtula, che pure era a sedici metri da casa sua, non ci andava più dal giorno in cui quel masculàzzu sanguilordo che squartava agnelli e vacche come fossero nucìddi le aveva detto di essere incinta del quarto figlio.

Concetta Licatedda, figlia di Antonio e Maria Rondinelli, era nata a Girifalco il ventiquattro giugno. Quando venne al mondo, il padre lo annunciò dal balcone, salendo su una sedia e mostrandola come un trofeo urlando: “Sonàti, sonàti li campàni, ca nescìu Cuncettedda mia”. Era stata attesa come un gesù bambino, che Mariuzza Rondinelli, per cinque anni di matrimonio, non era riuscita a ingravidarsi.

Sembrava che la pancia le si fosse seccata come argilla tosta, che la semenza che quasi quotidianamente, come una preghiera, Ntonuzzu spargeva nelle profonde e segrete navate della moglie fosse di razza scadente, che invece d’innescare il miracolo atteso si spiaccicava inutilmente sulle pareti uterine come moscerini sul parabrezza, in attesa che la prima pisciata li restituisse alla meravigliosa e mai raccontata storia delle vite mancate dell’umanità.

Ma ad Antonuzzu della Storia Mancata non gli fregava nu cazzu, che lui voleva solo un figlio per rinnovare il padre e non destinare anche al suo cognome l’infruttuoso spandimento del seme. A camminare per strada in quelle condizioni, si sentiva gli occhi addosso, e pareva che il mondo non facesse che chiatàrlo.

Tutti erano buoni a figliare, perfino quel poveraccio di Turi Imbaracchiu che non sapeva spiaccicare nemmeno due parole una dietro l’altra. Se fosse stato colpa della mugghièra gli sarebbe pesato di meno, ma il dubbio che li cacciava il sonno era che veramente lui non era in grado, e ogni volta che si liberava, quel miccio tra le gambe gli sembrava una doppietta scarica, un guscio senza vovolàcio.

I pensieri di Maria non erano meno desolanti, che una donna incapace di figliare è inutile pure che sta al mondo, che fosse stato per lei si sarebbe vestita di nero, a lutto, che non poter avere figli o averli morti è la medesima tragedia. Appaciàtevi, le ripetevano le vecchie vicine, è la cura migliore, ma già il ricorso a quella parola la diceva lunga sul fatto che chi non figliasse era malata.

E al medico ci andavano abitualmente, Ntuani e Maria, persino a Catanzaro, dove li aveva mandati Vonella, ma non c’era niente da fare, che la femmina sembrava secca come una pietra. Dopo due anni di sposalizio e l’interminabile catena di visite mediche al capoluogo, di cure a base di uova di quaglia e brodo di gallina e di accoppiate in coincidenza di lune piene, Maria continuava a purificare le mutande col flusso sanguigno e vinoso che le rammentava, a cadenza mensile, d’essere una femmina a metà.

“Ntuani”, gli disse una sera che la luna piena spargeva a mani piene biancori di nostalgia, “la colpa è solo mia, solo mia, che non dovevi sposarmi, che la natura mi ha fatto disgraziata, e se vuoi lasciarmi…”.

L’uomo sentì il cuore squagghiàrsi e se l’abbracciò come una cosa preziosa.

“Maria mia, io non ti lascio, e se è destino non avere figli vuol dire che il Signore vuole così”.

Quelle brevi parole e quegli abbracci allontanarono mareggiate e nuvole dagli animi dei due sventurati, che ritrovarono una sufficiente serenità.

Da quella sera trascorsero tre anni nei quali Ntuani e Maria avevano deposto desideri e speranze. Poi una sera, che erano rimasti a dormire alla casèdda perché c’era da mietere fino a tardi, a Ntuani gli venne la mattana di prendere la moglie in mezzo alle spighe, come aveva visto fare ai cavalli quella mattina, sotto una luna che era un lampione, e a Maria gli sembrò una meraviglia sentirsi riempire mentre guardava le stelle e respirava odore di terra e pane.

Quella notte fu concepita Concetta.

Quando a Maria la pancia cominciò a gonfiarsi, a casa Licatedda fu come se si fosse posata una nuvola gravida di sorrisi e benedizioni. Ntuani la trattò come una principessa: per farla riposare fece venire una femmina a occuparsi della casa, e non tornava mai senza un piccolo dono per lei: un fiore di campo, una collana di more, un pugno di vrasciùamuli. Maria avrebbe voluto restare incinta tutta la vita, che girare le strade accarezzandosi la pancia le procurava una felicità smisurata.

Quando nacque Cuncettina, attesa come una stella cometa, a casa Licatedda fecero festa per una settimana. Alla piccolina furono riservate le scarpe più belle, il vestitino più elegante, tutti i zaccàri immaginabili e possibili. E poi tante bambole, di ogni manifattura, che la piccola curava con la stessa attenzione che la madre riservava a lei: faceva i bagnetti, preparava da mangiare, le imboccava, le metteva nelle culle cantando dolci ninnananne.

Cominciò a studiare per maestra, alle magistrali di Catanzaro Lido: Ntoni Licatedda sudava camicie e maglincàrne per non farle mancare niente, e la fatica e la cudìdda che sembrava spezzarsi era nulla rispetto all’idea che una Licatedda, Cuncettina sua, sarebbe divenuta maestra.

Un destino segnato, che appena finì le magistrali Cuncettina entrò nell’asilo di Girifalco a coronare i sogni di Ntonuzzu e la metà dei suoi desideri.

Per quell’altra metà doveva cominciare a darsi da fare, e poiché aveva un lavoro e l’età era quella giusta, bisognava maritarsi.

Tre o quattro paesani le avevano fatto avere ambasciate di matrimonio, ma nessuna soddisfacente. Poi un giorno, mentre andava all’asilo, davanti al cancello trovò a terra un ciucciotto di caucciù. Lo raccolse, lo pulì sommariamente della terra che vi era appiccicata e lo conservò nella borsa convinta che le avrebbe portato fortuna. E non fu un’inutile coincidenza il fatto che poco dopo vide Cosimo Vaiti scendere a volo dalla Vespa con un salto e lei si innamorò di quella leggerezza. Quando gli passò accanto, lo fissò e sorrise, e prima di entrare a scuola si voltò e gli sorrise ancora, e Cosimo pensò che la figlia di Ntonuzzu Licatedda vuole proprio a me. Così un gesto semplice e quotidiano come la discesa a volo da una lambretta e il ritrovamento casuale di un ciucciotto decisero quel matrimonio.

Si sposarono alla chiesa delle Croci, e la sposa volle essere accompagnata dai bambini della sua scuola.

“È arrivato il momento”, le sussurrò la madre prima di lasciarla da sola la prima notte, “e adesso, adesso figlia mia non aspettare nemmeno un giorno”.

Chissà chi o cosa decide ciò che siamo! Chissà da quale minima combinazione nucleare deriva il colore degli occhi, il numero del piede, o quale soffio molecolare ha deciso della nostra riservatezza, della nostra tracotanza. Un’urna che gira, una pallina fra le migliaia che cade dal buco e su cui sono scritte, come su un ricettario, le dosi della nostra felicità o del nostro dolore, di che speranze vivremo, di che morte finiremo. E chiedersi perché quella pallina? Perché questa vita e non una delle altre migliaia e migliaia di possibilità? In rispetto di quelle leggi misteriose e segrete che ci muovono con fili invisibili, Cuncettina, con il bellissimo colore nocciola dei capelli di mamma sua, ne ereditò anche le segrete disgrazie.

Sposatasi nel mese di luglio, avrebbe giurato che sarebbe stata l’ultima estate della sua vita senza figli, che già sognava il pancione, i piedi gonfi, i primi calci nella pancia. E invece dopo un anno, ancora niente.

No, non può essere, pensava, non può essere, sarà solo un contrattempo, la foga di diventare madre, non può essere altro, che il Signore non è così crudele da mettere le ali a un uccello e poi legargli la zampa al ramo.

L’aridità della carne che non fruttifica aveva cominciato a proiettare le sue ombre sul corpo della giovane fanciulla. Màmmasa Maria, che già sapeva le sofferenze della sterilità, cercava di dileguarle dettandole pazienza, suggerendole fiducia, intimandole costanza, che tu arrivasti quando ogni speranza era perduta, quando già la sciagura della rassegnazione m’aveva prosciugato e seccato l’anima. E invece arrivasti tu, luce mia, quando la vita era una notte senza stelle, e mò siamo qui e io ti dico che anche per te arriverà la luce, che già me la vedo alla neputèdda mia girarmi per casa.

Ma non ci fu niente di tutto questo, e nell’oscurità degli universi e delle vite che mancano la loro traiettoria Cuncettedda incastonò la propria nebulosa.

Aveva un carattere mite, come certi colombi che s’accontentano di beccare molliche e niente più: non bestemmiava né andava in escandescenze, e teneva tutta la delusione e il dolore per la mancata maternità tra gli anfratti sfibrati del corpo, che come silenziose mareggiate erodevano le rive di carne un granello per volta, un granello per volta, sufficiente ad avverare l’irrimediabile destino di dissolvenza delle coste sabbiose.

Cuncettedda sapeva a memoria i racconti della madre e della nonna su quanto lungo e disperato fosse stato il suo concepimento, e la difficoltà a sgravarsi le era familiare come na faràfula della buonanotte. Questo l’aiutò perché i primi tempi si disse che sarebbe successo con lei quello che successe a màmmasa, cosicché ogni qual volta al mese Natura commemorava con i suoi lutti sanguinolenti la siccità della carne, ella rimandava al mese successivo, stabilendo che cinque anni, lunghi a passare, sarebbero stati il termine della possibilità.

Ma il lustro si consumò presto, troppo, e allora Cuncettedda capì che forse tutto ciò che sognava da piccirìdda non sarebbe stato, che non avrebbe mai avuto una pancia gravida, bambini da cullare e civàre, un marmocchio che la chiamasse mamma.

Quando sapeva di qualche paesana incinta si chiudeva in casa al buio come una condannata a morte, in attesa di rivivere sul proprio corpo la passione della crocifissione e della momentanea resurrezione della carne. E sembrava, nella sua fantasia macchiata, che tutte le donne del mondo non facessero altro che figliare, che dovunque si voltasse scopriva segni universali di Fertilità: pance gravide, neonati, passeggini, come se il mondo provasse gusto a sputarle in faccia l’elenco dei suoi malanni.

A vivere queste piccole morti quotidiane, il cervello di Cuncettedda ogni tanto usciva dal sentiero, come quando Cosimo tornava a casa e la trovava che faceva il letto nella cameretta del bambino mancato canticchiando litanie infantili, o come quelle sere in cui, con la mano sulla pancia, se ne stava sul terrazzo a piangere guardando disutili stelle cadenti.

Esaurimento nervoso, aveva sentenziato più volte Vonella, dovete lasciarla tranquilla e non crearle problemi.

Cosimo si era rassegnato: nel suo corpo breccioso e rappreso la speranza di avere figli s’era prosciugata come una fiumara d’estate. Con gli anni aveva imparato a vivere accanto alla sua sposa con la stessa quotidiana incertezza di chi si trova a navigare, sperando nel mare calmo, rassegnandosi di fronte a tempeste e mareggiate, scrutando oltre i banchi di nuvole i raggi forieri di sole. E quando, di nascosto, la sentiva parlare in camera con nessuno, il cuore gli si stringeva al punto che usciva e stava fuori tutto il giorno, sperando che quando sarebbe tornato a casa, la sera tardi, lei avesse chiuso gli occhi per coltivare Follia nei campi dei sogni. E come prendersela con quella donna che lo trattava come un principe?

Come quella sera, che solo per aver pronunciato un desiderio, s’era ritrovato a cenare con una pìtta càdda piena di delizioso morzello. Si calò pure un paio di bicchieri di vino, quanto bastava perché si sentisse brillo, capace così di far capire alla mugghièra qual era l’ultima cosa che doveva dargli perché quella giornata si concludesse degnamente. Cuncettina andò in bagno, a pettinarsi i capelli e mettersi la sottana trasparente a fiori. Quando lo raggiunse nel letto, c’era nell’aria un profumo nuovo, di rosmarino e trifoglio.

“Sei tu?”, le chiese mentre le abbassava la spallina del reggipetto.

“No, arriva da fuori”, sospirò la moglie.

Più tardi Cosimo, voltandosi sul fianco, pensò che a collezionare più giorni a quel modo la vita poteva avere un sapore buono, e mentre in bagno Cuncettina si lavava gli inguini da quella inutile semenza che la ripugnava come spurgo di lumaca, il profumo di rosmarino e trifoglio entrò ancora più forte dalla finestra, persistente come un richiamo.