Era una giornata calda calda, che l’aria candalijàva come i ferri arroventati con i quali Ruaccu Conte marchiava il vello del suo pecorame.
Archidemu se ne accorse che ancora non aveva aperto gli occhi, che mentre s’arrisbigghiàva confondendo sogni e pensieri, sentì il fastidio delle lenzuola madide di sudore: si scoprì, si rivoltò sul fianco e cercò di riaddormentarsi.
Ma la meccanica terrestre aveva già messo in moto gli ingranaggi nei quali anche lui era stato considerato, e così dopo qualche minuto d’illusorio ristoro, lo ridestò la voce squillante dell’ambulante di turno: Zzipànguliiiiiiii, zzipànguliiiiiiiiiiii all’assagiooooooo. Si alzò frastornato e andò in bagno, e mentre si svuotava, s’arricordò che non volìa svegliarsi perché era mattina del nove agosto.
Archidemu Cucuzzuna Crisippu era nato a Girifalco, figlio di Musoniu e Maria Imperatrice Vonella, terzogenito dopo Aristinu e Doduru e prima di Maria Ausiliatrice e Maria Beata.
Lu ngiùru Cucuzzuna risaliva al bisavolo paterno e alla sua calvizie ereditaria, che da sempre i maschi di casa Crisippu erano pelati come cucùzze.
Nato scapìddi, che già dalla nascita onorava l’illustre casata, Archidemu venne al mondo il due febbraio, giorno paesano della candelòra, che al primo vagito il padre Musoniu recitò a sé stesso l’antico detto Cu nèscia jùarnu de la candelòra, càddu de mani e frìddu de còra.
Il sortilegio del distacco e dell’indifferenza gli si posò in testa come una corona e lo protesse dagli strali appuntiti e velenosi della vita. Sin da piccolo, Archidemu accettava gli eventi del mondo con la stessa impassibilità con cui u ciùcciu di Colajizzu si buscava le frustate del padrone, vasciàndu la testa e continuando ad arrancare. Si trattava d’un vizio ereditario, che sembrava che a quella famiglia i geni delle azioni e delle decisioni si depositassero nei capelli che non avevano, e così vagavano per il mondo di generazione in generazione, in un perenne autunno in cui essi erano le foglie staccate dai rami e sopraffatte da scirocchi e ponenti.
L’inedia della famiglia Crisippu non era un dogma pedagogico ma rientrava tra le misteriose qualità celate in qualche impalpabile e microscopico gene che per tutta la sua breve esistenza si sparpàgghia tra nervi e muscoli, tra cavità e metacarpi per poi adagiarsi, al momento giusto, in quell’altrettanto minuscola particella di semenza che sopravvivrà all’annientamento del Nulla.
Certo, a crescere in una famiglia che s’incriscìa a fare tutto, diciamo che il gene era come sospinto verso il dirupo dell’accidia: poteva cadere il mondo davanti ai loro piedi, i Crisippu non muovevano unghia, e crescere affianco a cristiani che non s’alzavano dalla sedia manco per cogghìrsi u maccatùra o versarsi l’acqua nel bicchiere offriva ai guagliunìaddi un modello di mondo, e l’abitudine alla rinuncia e alla inoperosità diveniva il loro abito quotidiano.
Stando così le cose, i Crisippu non avrebbero superato le quattro generazioni fossero stati pure cùnni, e invece la selezione naturale volle che affianco al gene della nullaggine s’insediasse quello della scaltrezza.
Fedeli ai loro assiomi rinunciatari, i Crisippu profondevano il loro latente e clandestino ingegno nel costruirsi la gabbia entro cui campare senza penzìari, e al fine di stemperare le asperità dell’esistenza che quotidianamente mettevano a dura prova la loro indifferenza terrestre, si prodigavano a fare bene due cose: trovarsi un lavoro che non li facesse sudare e accasarsi con una femmina che sudasse al posto loro. Riuscire in questi due compiti significava per quella scioperata famiglia la garanzia di una felice esistenza all’insegna dell’ozio e dell’atarassia.
E bisogna concordare che i Crisippu, al riguardo, si dimostrarono ingegnosi. Il padre di Archidemu, Musoniu, s’era impiegato messo comunale, il di lui fratello Vacchianu centralinista alla provincia, il loro genitore Mucciuni usciere all’ospedale civile di Catanzaro, il bisnonno Lentinu primo guardiano del cimitero. Un’illustre famiglia, che i Crisippu potevano vantarsi di non aver avuto mai muratori e contadini, che la fatica e il sudore erano più malvisti di diarree e amputazioni.
Per quanto riguarda le mugghière, il compito scivolava via liscio come l’olio, che trovare in un paesino meridionale fìmmane sottomesse era più facile che trovare alla Contìsa dopo una nottata d’acqua sprucchiamàmmi e rossiduovo.
Che la prescelta fosse una cupàna era cosa secondaria, visto anche la non eccelsa avvenenza dei Crisippu: l’importante era che fosse in grado di badare alla casa, allevare da sola i figli, spaccare legna, fare la sàrza e la coddàra, pagare le bollette, andare ai funerali e ai matrimoni, ottemperare agli impegni ufficiali. La mugghièra dei Crisippu dovìa essere un vulcano sempre attivo.
Finora era andata bene, che tutti s’erano accasati come sultani. E soprattutto Maria Imperatrice Vonella, mamma di Archidemu, era una fìmmana come non se ne trovava più, operosa come un’ape, forte come un toro, caparbia come un mulo ma, scentìna ìdda, brutticèdda come una malògna.
Riguardo alle mugghière, Archidemu fu un’eccezione, perché di avere una femmina in casa non volle saperne. Mai una zzìta, mai una compagna di scuola a cui rubare una vasàta, mai un’amica a cui confidarsi. Le femmine per lui erano un mondo sconosciuto, una stanza buia nella quale preferiva non entrare. E così Archidemu restò vergine a vita, puro e immacolato come la statua di santu Ruaccu. Per gli affari di casa c’era Rosetta Mpalisata, una cotrarèdda di Carrùsi che ogni settimana andava a pulire casa e sbrigargli gli affari.
Per quanto riguarda il lavoro, fedele al motto familiare di non fare nu cazzu, Archidemu si mise a studiare assai, e gli piacque la filosofia e si diplomò al ginnasio, e si laureò all’università e cominciò a insegnare, divenendo così il primo e unico filosofo della dinastia Crisippu.
Un filosofo stoico, per l’esattezza.
Un giorno di gallilèa che tutta la famiglia era riunita nei terreni di Mangraviti, intorno al lungo tavolo imbandito, Archidemu, fresco di primo esame di storia della filosofia a Messina, s’alzò, chiese il silenzio di tutti e cominciò a parlare dicendo pomposamente una catena di parole per la maggior parte incomprensibile: che tanti secoli prima c’era un gruppo di filosofi che la pensavano come loro, gente importante, che predicavano le virtù dell’autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, che il loro ideale era l’apatia, cioè il pieno e totale controllo delle passioni, causa di ogni male, che bisogna vivere in modo conforme alla natura del mondo, senza opporsi agli eventi ma assecondandoli, abstine substine, che si deve sopportare e astenersi, accogliendo con serenità ciò che il destino ci riserva. I Crisippu, fedeli al loro sangue, dopo due minuti già sbadigliavano e si stiracchiavano. Si ridestarono un pochettino quando ascoltarono la storia del cane legato al carro che gli conveniva camminare per non farsi vrusciàre il culo; ma quando l’oratore ebbe l’ardire di condirla con una citazione senechiana, ducunt volentem fata, nolentem trahunt, tutti crollarono dal sonno, russando e ronfando, al punto che il triste oratore fu costretto a tagliare il discorso e a concludere, brevemente, che cùnni non sìmu ma stoici, che diventò una formula, il motto da iscrivere sullo stemma di famiglia e che i Crisippu impararono a memoria e pronunciarono ogni qual volta un paesano commentava la loro scioperataggine.
La scoperta dello stoicismo fu, per Archidemu, una rivelazione, che il vero motivo che lo spinse allo studio della filosofia fu conoscere a fondo quel gruppo di genti strane che, come la sua famiglia, si piegava agli eventi del mondo, di più, li accoglieva come necessari. Fu una febbre da cui non guarì mai e che anzi rafforzò la sua attitudine al non fare; di più, la nobilitò.
Si convinse, Archidemu, che qualche suo lontano avo ne sapeva più di quanto poteva far intendere, che quei nomi sempre uguali che ritornavano tra i Crisippu erano presi pari pari da quel gruppo di pensatori rassegnati, e forse il loro sangue discendeva direttamente da quel manipolo di magnigreci. Non era forse il loro cognome una dialettizzazione di quello di Crisippo di Soli, uno dei celebri maestri della Stoà Pecìle? E i nomi di Archedemo e Musonio Rufo? E il fatto che tutti gli stoici nei busti erano ritratti senza capelli al punto che persino uno di loro, Aristone, era detto il calvo? Nzòmma, la sua famiglia era di sangue e nobiltà stoica. E allora per qualche mese cominciò persino a portare la loro mantellina, come Marco Aurelio dodicenne.
Archidemu aveva un fratello, Sciachineddu, più piccolo di sei anni, nu guagliunìaddu che veramente non sembrava un Crisippu, curioso e arzillo, si muoveva come nu nìmalu, una pispicèdda che faceva disperare tutti. Era l’ombra di Archidemu: lo seguiva dappertutto, si faceva spiegare il mondo, voleva fare tutto quello che faceva lui.
Sciachineddu pendeva dalle labbra di Archidemu, il quale lo adorava più di ogni altra cosa al mondo, e il distacco che praticava verso la terra decadeva di fronte ai sorrisi e agli abbracci del piccolo. Dormivano perfino nello stesso letto, e dopo che Sciachineddu si era addormentato, non prima di farsi raccontare una faràfula dal fratello, Archidemu lo guardava ammirato, che avrebbe rinunciato alla sua vita per quella di quell’essere che sembrava un angelo. Archidemu invidiava il carattere forte e deciso di Sciachineddu, così come Sciachineddu avrebbe voluto avere la saggezza del fratello maggiore. Sembravano due facce della stessa medaglia, due manici della stessa vòzza, due frammenti del mondo che eccezionalmente si erano ritrovati e combaciati.
Ma accadde l’Evento, il Pragma, l’episodio che torcìja la vita come uno straccio da strizzare.
Era un nove agosto e la famiglia Crisippu si era ritrovata in campagna, come spesso accadeva per fuggire il cociore del paese. Dopo pranzo Sciachineddu chiese al fratello se andavano a raccogliere more: ad Archidemu di seguire il fratello tra i boschi di Covello sotto quel caldo non li nda calàva neanche cu la cucchiàra, ma per nessun motivo al mondo lo avrebbe lasciato solo e così, mentre il resto dei Crisippu, unici sopravvissuti alla millenaria diaspora stoica, si cercavano un pezzo d’ombra per stirarsi e addormentarsi, i due s’incamminarono verso il bosco. Conoscevano bene quei posti, e tuttavia Archidemu raccomandò Sciachineddu di stargli vicino, e in ogni caso di non andare oltre lo spiazzo. Quell’angolo di bosco sembrava un altro mondo: la frescura dell’ombra e i rami fitti ne facevano un luogo senza tempo, e i raggi di sole che di tanto in tanto filtravano dalle foglie cadevano sul terriccio come una benedizione. Archidemu si guardava intorno incantato, ma all’improvviso sentì frusciare ai suoi piedi. Abbassò lo sguardo e vide una serpe che gli lambiva la scarpa. S’appagurò ma ebbe la forza di restare impalato: non mosse la testa e solo con gli occhi seguì l’andatura strisciante della viperide: immobile come gli avevano insegnato bisognava stare di fronte a quella presenza, Archidemu aspettò che il rettile scomparisse per riprendere a respirare, a far entrare il sangue in circolo, a pensare se indietreggiare lentamente o correre, e fu a quel punto che alzò la testa per cercare Sciachineddu. Sciachiné Sciachiné, urlò, Sciachiné corri qua che c’è na vipera! Non vide né sentì nessuno. Urlò di nuovo il nome del fratello, e tra il frusciare del vento gli sembrò di sentire una voce provenire dalla parte della piana. Dimentico del morso venefico e con la sola idea di proteggere il fratello, Archidemu si lanciò in quella direzione. La fitta pineta finiva e sbucava in un prato di cespugli. Archidemu si guardò intorno: Sciachiné Sciachiné, ma solo le cicale frinivano. Fu come se il mondo si fermasse: corse in tutte le direzioni facendo echeggiare quel nome, ma del fratello nemmeno l’ombra. Subito dopo lo spiazzo cespuglioso si apriva un bosco ancora più fitto: Archidemu vi andò incontro convinto che il fratello si fosse infilato lì dentro: si fermò ai primi alberi, vide alcune more cadute a terra e allora continuò fin quando arrivò a un punto che se non fosse tornato indietro si sarebbe perso anche lui. A sole riacquistato, Archidemu cominciò a piangere e urlare il nome del fratello. Ritornò correndo dai familiari, disse che Sciachineddu s’era perso e che dovevano fare in fretta. Tutti tornarono sul posto a cercarlo. Fu allora che Archidemu, tornando lì dove aveva visto l’ultima traccia di un passaggio umano, un ramo spezzato e delle more cadute a terra, s’accorse di qualcosa che si muoveva sotto un cespuglio. Si fermò un attimo: qualcosa si mosse ancora. Allora si avvicinò piano e spostò il cespite per meglio vedere. E fu lì che trovò l’ultimo ricordo terreno del fratello.
Dopo mezz’ora di inutili ricerche, Mucciuni corse ad avvertire i carabinieri: la notizia s’era sparsa in paese e si organizzarono squadre di ricerca che andarono avanti tutta notte. Inutilmente. Da quel nove agosto, di Sciachineddu Crisippu non si seppe più niente. Per la prima volta Archidemu visse come gli altri uomini, sentendo sulla pelle il soffio della vita, insozzandosi i piedi nella fanghiglia di un mondo che non gli apparteneva. L’introverso Archidemu, con una disperazione che gli sbrindellò il cuore, divenne ancora più schivo e si esiliò dal consorzio umano per quei sensi di colpa che gli disturbavano il sonno e i pensieri come uno sciamare di zanzare, che lo schiacciavano ogni giorno e che solo la filosofia, talvolta, riusciva ad alleggerire, giusto il necessario per sopravvivere.
Dal giorno della tragedia, il rimorso si succhiò la sua vita come un uovo. Quando andò a vivere da solo, a ricordo di Sciachineddu eresse in casa un piccolo altarino con la sua foto e una candela che non faceva mai spegnere, e per ricordare al mondo che lui era un uomo perennemente in lutto attaccò sui vestiti un bottone di tessuto nero.
Quella mattina, che il grido del fruttivendolo lo riportò al mondo, era il giorno più brutto dell’anno: come ogni anniversario, ritornava a piedi, come un pellegrinaggio, verso il luogo in cui era scomparso il fratello, passando in rassegna i ricordi dell’unica persona che aveva amato più di sé stesso, snocciolando come un rosario la sua vita di colpe e rimorsi.
Stette là fino alle cinque del pomeriggio, poi tornò a casa e si mise a leggere anche se la testa era lontana.
Non cenò, e la sera si distese sulla sdraio in balcone per guardare il cielo stellato, così, senza cannocchiale, come tutte le volte che abbisognava di consolazione, perché l’uomo triste beneficia delle prove reali della sua condizione, che almeno gli resta il conforto dell’oggettività, e ad Archidemu gli piacque consapevolizzarsi a quel modo, mettendosi di fronte al cielo scuro e sentendo sulla pelle come un vento di ponente l’infinita grandezza dell’universo, l’incommensurabile vastità della galassia, la trascurabile minutezza degli uomini.
Poco prima di alzarsi per andare a letto e archiviare quell’inutile giornata assieme alle altre centinaia e migliaia di giornate inutili della sua vita, sentì una fragranza nuova nell’aria, di rosmarino e trifoglio fresco.