Era una giornata calda calda, che l’aria abbampulijàva come ginestra secca sui pagghiàri notte di Sant’Antonio.
Mararosa, appena aprì gli occhi e sentì sulla pelle come le fiamme d’un falò, si preoccupò delle povere gràste sul balcone e così, senza nemmeno lavarsi e col suttanìno rosa addosso, riempì un paio di bottiglie di plastica e corse ad annaffiarle.
Ciccaredda, la petunia, era la peggio messa, che quando la vide afflosciata come un girasole per poco non le pigliò un colpo, che non solo divacò nel suo vaso l’intera bottiglia e si affrettò ad allungare la tenda e adombrarla, ma prese perfino il suo ventaglio preferito e cominciò a fare aria. Quando le sembrò di aver fatto abbastanza, andò in cucina a prepararsi la zuppa di latte col pane.
Mariarosa Praganà era nata a Girifalco il diciotto ottobre, la prima dei due figli di Petrantuani Praganà e Vicenza Pirritanu. La Sportùna, ripeteva, se l’abbracciò come un’amante appena venne al mondo, che già un’ora dopo i primi vagiti, la stufa cominciò a prendere fuoco e cacciò un fumo nero che annigricò ogni cosa: i muri, i mobili, i panni, e màmmasa scappò in strada con la figghiolèdda in braccio che parìa tinta col carbone. Del perché quell’incidente Petrantuani non ne venne mai a capo, ma Vicenza, che credeva alle vaticinazioni come don Guari alla misericordia divina, interpretò il fumo nero come la scia di qualche spirito malauguroso ch’era entrato in casa assieme alla nascitura, e così, secondo i dettami di Nicuzzu Trincaduru, lavò la pelle della piccola con latte di ciùccia e uovo sbattuto di piciùna e le mise sotto il cuscino un ramo fiorito di rosmarino.
Mararosa, quando seppe da grande di quegli agnostici sortilegi, gli sputò in faccia una maledizione che a Nicuzzu lo colpì anche morto, che per colpa sua e della sua schifosa mistura non solo la pelle le era rimasta jànca cùamu lenzòla di vergine, immune a ogni minima abbronzatura, ma non poteva avvicinarsi a un cespuglio fiorito di rosmarino senza che s’avvomicàsse.
Vicenza, nel dubbio che l’infausto spirito pagano potesse essere un angelo che aveva sbagliato casa, s’affidò anche alle cure ortodosse del prete, consistenti in una spruzzatina d’incenso, tre ceri appicciàti e cìncu avimarìa. Ma doveva trattarsi d’un genio tetragono perché ogni tentativo fu inutile e la povera piccirìdda, che la prima notte della sua vita la passò nel freddo di un magazzino, non si tolse di dosso la coperta di sciagura e malasorte che l’avvolse come nu foddàla.
Il fumo nero disseminò sulla sua fanciullezza miasmi d’invidia e bruttezza, e la sua anima tenera s’innestò in un corpo pingue e butirroso che assomigliava a certi tronchi d’olivàra cresciuti mozzi, mancanti della metà più bella di rami fogliati e olive argentine.
Non c’era uomo o donna al mondo che lei non invidiasse o una dote altrui che non avrebbe voluto per sé: la pelle vellutata di Annicedda Cucchiàra, le scarpe di vernice nera della figlia di don Rivaschiari, i capelli biondi di Ninetta o la gonna a quadri della Vaccarisa. Mararosa provava astio per tutti coloro che avevano qualcosa di più, e poiché ai suoi occhi lei mancava di tutto, il suo legame col mondo era fatto di rancore e acrimonia. Neanche alla sorella risparmiò le sue frustate di malevolenza, che quando la vide baciarsi de mucciùni, corse invidiosa al padre a raccontarglielo, e lei ebbe la sua razione giornaliera di cinghiate sotto il suo sguardo inclemente.
Scentìna, Mararosa, quando ampràva i panni sul balcone e vedeva per strada gli innamorati che si guardavano, quando passava intere giornate costretta a renducìra la casa mentre i profumi della fanciullezza soffiavano lontani per strada.
Tra le sue compagne spiccava come una cornacchia in mezzo a uno stormo di colombe bianche. Non aveva amiche perché non aveva segreti da confidare o confessioni da custodire e così, nei pochi momenti liberi, si rifugiava in soffitta, apriva la sua cassa segreta con le amate riviste che odoravano di solitudine e illusioni, e guardava ammirata le spiagge esotiche che sapevano di zucchero e caramello, le città con i grattacieli o i deserti bruciati, e di fronte a ogni immagine sognava che un giorno quelle cose le avrebbe viste di persona, le avrebbe fotografate, annusate, assaporate. Poi all’improvviso giungeva la voce di màmmasa e dall’albergo in cima alla torre Eiffel ripiombava a Castagnaredda, e s’affrettava a richiudere la cassa dei sogni e correre in cucina ad apparecchiare.
Il mondo è fatto accussì: c’è chi nasce bella e c’è chi nasce brutta, e chi le tocca di vivere nell’ombra passa le giornate a chiedersi perché proprio a me? Perché non sono bella come le altre? Perché? Le cose della vita sono come una lotteria, pensava Mararosa, come quando si tira un numero alla tombola, che quello che ti arriva poteva benissimo essere un’altra cosa, che non è un tuo merito o demerito quanto ti è stato assegnato, ma dopo sì, dopo c’è poco da fare, dopo tu sei quello che ti è stato sorteggiato, ed è inutile rimanere lì a chiederti perché tutto va storto, il mondo è storto, e la felicità è solo per gli altri.
Mararosa si sentiva come un’attrice che aveva imparato la parte ma poco prima dello spettacolo era stata sostituita e costretta a sedersi in platea, a ripetere nella mente le battute che erano sue e che un’altra recitava male.
Mararosa non faceva niente per celare la sua perfidia: alle lucertole tagliava la coda e le gustava vederle andare per il mondo con metà del corpo, i formicai li spianava senza rimorsi e girava sottosopra i pistasàli gustandoseli annaspare le zampe all’aria. Le piaceva uniformare il mondo al sé mancante.
Poi un giorno màmmasa la scoprì nell’orto, dietro la nucàra, infilzare con uno spillo le ali di una farfalla, e di fronte a quella scena di gratuita crudeltà Vicenza non seppe controllarsi e le arringò uno schiaffo che le restò il segno per una settimana.
“A ttìa sbagliai il nome, Malarosa dovevo chiamarti, Malarosa”, sentenziò la madre vestendole addosso un neologismo che lei indossò da quel giorno come una collana d’ametista da far balenare sotto il sole.
“Sì, su mala”, le rispose accarezzandosi la guancia ferita, “ma il resto del mondo non è migliore di me. Manco sta farfalla”, disse scaraventandola lontano.
Malarosa avrebbe voluto avere un fidanzato, che quando fantasticava sulle immagini delle riviste c’era sempre qualcuno al suo fianco, che anche lei sognava un giorno di potersi sposare, avere una casa sua, invitare genti a cena o andarsene a mangiare la pizza sulla terrazza di qualche lido di Soverato. Ma chi l’avrebbe voluta a quel modo slargata come una melangiàna?
Sarvatùra Chiricu aveva aperto da un paio di mesi una bottega di generi alimentari in mezzo alla Chiàzza, un locale come fino allora in paese non se ne erano visti, grande, illuminato, stipato d’ogni cannarutìa possibile, che quando Malarosa entrò la prima volta, assieme a màmmasa, le parve d’aver attraversato una pagina delle sue riviste.
Tutto lindo e ordinato, tutto tranne una scatola di bicarbonato che qualcuno aveva accidentalmente urtato. Per Mararosa fu come se l’avesse punta una vìaddusa: si avvicinò all’indisciplinata confezione con l’urgenza d’una fisiologica svacantatura, si alzò sulle punte e con una leggiadria di tocco che nessuno le avrebbe cucito addosso ricollocò il bicarbonato nel disciplinato ordine del mondo.
Sarvatùra notò la scena e dentro gli si accese nu focarìaddu, che una femmina così garbata e attenta avrebbe fatto la fortuna del suo negozio e chissà, anche della sua vita, ch’era pure essa un ammasso di scaffali ammucchiati e impolverati.
“Avarìa bisogno di una fìmmana garbata come vostra figlia qui dentro”, apostrofò guardando negli occhi Vicenza, e non era solo una proposta di lavoro.
Màmmasa capì e fissò la figliola le cui guance si erano arrossate: quel contegno non glielo aveva mai visto, e allora scacciò l’imbarazzo generale ordinando tre etti di mortadella e un pezzo di provolone piccante.
Per tutto il giorno e quelli a seguire Mararosa sentì come un pungolo nelle carni, le parole di Sarvatùra le risuonavano dentro come rintocchi di campana e annunciavano sposalizi e battesimi. Le mani che tiravano le corde non erano solo quelle del cuore, che all’idea di diventare la padrona di quel regno della mercanzia, di stare dietro un bancone illuminato a festa e farsi salutare come una signora, vedere sfilare davanti a sé una per una le genti del paese che la invidiavano come una regina, finalmente essere compiaciuta, finalmente essere portata anche nei sogni come essa sognava sempre gli altri, a queste idee il cuore le traballava come nu crivu giorno di mietitura.
Gli stessi pensieri si erano ficcati nella testa di Sarvatùra: con la testa grossa, il corpo basso e tozzo e la pelle spugnosa, sembrava uno sprucchiamàmma che cammina, troppo impegnato a fare soldi e comprare terreni per occuparsi di donne.
Ma quel gesto di Mararosa nel negozio, che era indice di una natura alla sua affine, gli inseminò la testa di pensieri fastidiosi come coriandoli nei capelli, che per la prima volta gli fece balenare il proposito di accasarsi. Che Mararosa fosse brutta a lui non importava, che si pettegolasse che fosse mala non gliene fotteva, anzi, la malignità negli affari paga e ripaga, e inoltre era figlia di Petrantuani Praganà, un uomo come ce n’erano pochi a Girifalco, lavoratore ingegnoso con terreni a Jìdari e Mangraviti. E quindi, facendo calcoli su calcoli alla maniera di un affare, Sarvatùra sommò gli addendi e concluse che il matrimonio si poteva fare.
È strano, l’amore: imponderabile, incomprensibile, misterioso come un volo di mosche, capace di nascere all’improvviso per morire con altrettanta rapidità, pronto a scovare e infilarsi nell’unica intercapedine possibile, caparbio a crescere sulle pietre come il muschio, cangiante come un panno steso a ponente. Strano, l’amore, che nella testa di Sarvatùra e Mararosa entrò di soppiatto, sotto forma di rivalse e vendette, computi e riporti. In entrambi la luce che proveniva dai rispettivi calcoli finì per illuminare di riflesso anche il tramite di quel progetto, così che nel giro di qualche mese si resero più belli uno agli occhi dell’altro e i cuori batterono all’unisono.
Dopo tre mesi Sarvatùra si decise a fare il passo importante, e sera del nove agosto si presentò assieme alla madre e allo zio Francesco, fratello del padre morto in guerra, a casa di Petrantuani Praganà.
Comare Peddasicca aveva già ambasciato, per cui sul tavolino del soggiorno c’erano già la guantèra pronta col vermut e i dùrci. Mararosa era assettàta al fianco di Vicenza, gli ospiti andarono ad accomodarsi sul divano di fronte.
Appena entrò lo zio, quella camera fu come arrumbulàta da un lenzuolo freddo e gelido, e Mararosa non sapeva perché il padre all’improvviso socchiuse gli occhi come quando prendeva a odiare il mondo. Le sembrò di respirare il fumo nero della sua nascita.
Fu lo zio di Sarvatùra a prendere la parola e dire le solite frasi di circostanza sulla sempiterna virtù del matrimonio, sul nobile lignaggio dei promessi, sui figli che sarebbero venuti su sanìzzi come i Chiricu…
“Perché noi Praganà non siamo sanìzzi?”.
“Certo, Petrantuani, stavo per dirlo”.
“E dovevate dirlo per prima!”.
Il tono autoritario e scortese sorprese tutti. A Petrantuani era come se gli avevano messo un paio d’occhiali che gli faceva vedere nero, che lui era un signore, persona squisita, ma c’era una cosa che lo faceva arraggiàre più d’ogni altra, la gelosia per la moglie, e tanti anni prima, quando già era fidanzato che Vicenza era una cotràra bella e gulijùsa, Francesco un giorno le aveva mandato una lettera. Petrantuani lo affrontò che non doveva permettersi mai più. Dopo qualche anno Francesco aveva ripreso a salutarlo e lui rispondeva, ma ogni volta il sangue gli ribolliva.
E quando trent’anni dopo seppe che Sarvatùra volìa alla figlia, lui era assai contento, e pensò che lo zio non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi a casa sua. E invece Francesco venne, convinto che tutti quegli anni avessero sepolto ogni rancore; non solo, quando entrò in casa ebbe l’ardire di salutare la moglie baciandole la mano, e la visione di quelle labbra d’uomo sulla pelle di Vicenza sua gli fece perdere il lume della ragione, che nessuno gli cacciava dalla testa che quel fetùsu era venuto lì apposta.
Francesco Chiricu neanche pendeva, che lui il sangue caldo c’è l’aveva sempre, e così allo sgarbo del padrone di casa rispose con un tono provocatorio: “C’è qualcosa che non va?”.
“Voi lo sapete, Francesco, cosa c’è che non va, che non dovevate presentarvi a casa mia”.
“Vìnni per educazione e rispetto”.
“E quando mai avete avuto rispetto in vita vostra?”.
Mararosa fu fatta uscire: alla scentìna le pàrze di camminare su un assito di tavole marce pronte a cedere. Si chiuse in camera e cominciò a piangere, accorata ma silenziosa, nell’impossibile tentativo di usciolare quanto avveniva di sotto.
Furono minuti lunghi quanto anni, e poi sentì uno scendere di scale repentino, il portone sbattuto con forza. Corse a guardare in strada, e attraverso lo schermo di lacrime che le imbarazzava gli occhi, vide Francesco affrettarsi verso il Piano, seguito dalla sùaru e da Sarvatùra.
Appoggiò una mano sul vetro come a trattenerlo, e i singhiozzi divennero i rintocchi di un mortorio che annunciava al mondo lo squagliarsi dei suoi sogni di donna arrivata, il bancone illuminato, le paesane che l’avrebbero salutata e riverita, il terrazzo di Soverato odorante di grigliate e fritture.
Quando fu in mezzo la via, Sarvatùra si fermò e si voltò verso di lei: Mararosa non dimenticò la faccia smunta e dolorante, gli occhi tristi e rassegnati. E allora pianse, spingendo ancora di più la mano sul vetro, e così se la portò nel cuore Sarvatùra, afflitta come l’immaginetta sacra di una martire.
Come certi cani idrofobi, che quando vengono presi a calci non si quietano ma accrescono di più la loro ferocia, così Mararosa divenne ancora più accanita contro le genti, riversando sporte di odio e malevolenze in ogni angolo di mondo.
Quando, un anno dopo, seppe del fidanzamento in casa tra Sarvatùra e Rorò Partitaru, Malarosa si gonfiò dalla ràggia a tal punto che pensò di farsi scoppiare, che sentendosi satolla degli schiaffi che la vita le aveva dato, il giorno delle nozze decise d’ammazzarsi, e quando le campane della Matrice annunciarono al paese lo sposalizio, essa, chiusa nel palmento, si calò un bicchiere di sorfàtu.
Solo quando la trovò a quel modo, che un filo di bava azzurro le scolava sulla guancia, Petrantuani capì l’irreparabile tragedia che aveva causato: il dottore Vonella le fece con urgenza una lavanda gastrica e Malarosa fu salvata, che poi si maledisse pensando che non era neanche buona per i diavoli dell’inferno.
Rassegnata alla sua sfortunata esistenza, e maledicendo Nicuzzu Trincaduru, la morte e la vita, Malarosa tornò al mondo con la freddezza di chi al mondo ci ha già rinunciato.
Due anni dopo Càrru Curajìsima, meccanico a servizio, andò da Petrantuani a chiedergli la mano di Mararosa, la quale accettò con la stessa rassegnazione di Gerolamo Scalogna quando il mastro gli dava metà della paga pattuita: o questo o vai via.
Andarono ad abitare nella casa che Petrantuani le aveva costruito, un nido intrecciato di roveti e spinari dove iniziò la salita al Golgota di Mararosa, che non sopportava di vedersi quell’uomo con le mani sempre lorde d’olio che le sporcava la casa, che neanche i soldi per mangiare portava certe volte, e lei costretta a cucinare per intere giornate le patate che il padre le scendeva da Mangraviti e a cambiare strada quando il giovedì arrivava il furgoncino di Peppa Treqquarti stipato di gamberi e calamari.
L’unica sua gioia, ma magra, troppo magra consolazione, fu la figlia Barbarina, che nacque nove mesi esatti dopo il matrimonio. Fu un breve soffio di vento, che il fumo nero tornò lesto ad annigricàrle l’esistenza: Càrru Curajìsima morì otto anni dopo mpitteddàtu dalla carcassa di una macchina, e Malarosa si crebbe da sola quella piccirìdda che assorbì come una spugna le disillusioni materne.
A diciannove anni, Barbarina si sposò con un borgìsa e andò ad abitare al suo paese, così che Malarosa rimase sola, a confrontarsi con una vita mancata, a maledire la Sfortuna che se l’era abbracciata appena nata come un’amante, a jestimmàra le cose belle del mondo come quel magnifico profumo di rosmarino e trifoglio fresco che quella sera, all’improvviso, aveva preso a soffiare lì come se Girifalco fosse un paese di Provenza durante la fioritura della lavanda.