Era una giornata calda calda, che l’aria fumava come il sesso peloso di commare Saveruzza, che da vent’anni non inzapuràva più il gonfiore fecondo della carne.
Don Venanziu la sognò dopo averla incontrata facciaffrùnta alla discesa di Sammarcu, che da Covello tirava un’aria che gelava le ossa, un’aria benedetta quando sbatte sulle carni femminili e le fa intirizzire il sangue e soprattutto i capezzoli, che d’improvviso s’induriscono come ghiande. Don Venanziu quando vide quelle punte affiorare dal tessuto fasciante della maglia bianca gli venne l’acquolina in bocca di succhiarle, che già s’immaginava la lingua ammogghiàrle con fiocchi di saliva, stringerle piano tra i denti come quando si azzanna un chicco d’uva per romperlo piano, succhiarlo come si fa col sangue di certe ferite. Gli venne una gulìa che quasi non resistette, e allora alla comare glielo fece capire con un inchino. Saveruzza, disavvezza a quelle adulazioni, si scialò: non era una cupàna da meritarsi lusinghe e incensamenti, ma in quell’attimo, quando la fantasia erotica di don Venanziu ricamò leccate e mungiùte, essa divenne ai suoi occhi la femmina più desiderabile della terra.
Venanzio Micchiaduru era nato a Girifalco il due febbraio, in una giornata primaverile che c’era nell’aria un profumo di glicini e salsedine. La prima immagine che vide furono le mìnni enormi di Cimmarosa Fraccandera, la nutrice, che s’annacavano a destra e sinistra come due candide culle, che sono fesserie che quando nascono i guagliùni vedono solo ombre, cazzàti, che don Venanziu quello spettacolo se l’arramentò sempre, come la melodia delle campane di Pasqua. Non poteva invece ricordare che quando Cimmarosa lo prese in braccio, lo alzò al cielo come un’ostia e s’avvide del cannolicchio affamato, pronunciò l’indubitabile vaticinio: “Venanzì, Venanzì, alle fìmmani del paese chicàsti come un re màgiu che porta nello stesso pacco oro, ncènzu e mirra. Benidizioni a te e alle fortunate che ti pùannu assapuràra”, e frustò la lingua con un rivolo di saliva che era la scia d’un desiderio affogato.
La Fraccandera di cannoli, cannuloni e cannolicchi se ne intendeva, che ne aveva visti a centinaia, e le sue parole furono un timbro di garanzia come i sigilli di ceralacca rossi che Vicenzuzzu Rosanò metteva sulle botti del suo vino speciale.
È proprio vero che la vita, a saperla leggere come un libro dai caratteri grandi, ha più senso di quanto le sia riconosciuto, e don Venanziu era il manifesto a colori di questa Lebensphilosophie sensata: Natura non si sbaglia mai, che se una cosa te la manda non devi farla cadere e sciupare come sudore, ma raccoglierla e stiparla goccia a goccia come olio spremuto: a Venanzio gli offrì una dote eccezionale, e se una dote l’hai devi svilupparla, che Natura ti ha indicato il giusto sentiero tra le migliaia che l’uomo ha davanti a sé e che spesso manca. E l’erede di Micchiaduru non si poteva sbagliare, che l’esagerata escrescenza che gli pendulijàva tra le gambe non lasciava dubbi sulla sua vocazione. Mozart a tre anni suonava come un maestro, Leopardi a cinque scriveva in greco, lui, Venanzio Micchiaduru, a quella giovane età teneva un miccione che sembrava una melanzana, e cielo volle che non dovette attendere molto per capire a cosa servisse.
A Venanzio il padre era morto che aveva nove anni, e poiché màmmasa era sempre al lavoro, si può dire che a lui lo criscìu Bettina, una vicina di casa che gli passava sette anni. Quando il giovane aveva dodici anni, tre mesi prima che Bettina sposasse un forestiero di Schiddaci, un nove agosto che non c’era nessuno lo fece salire in casa. C’era una sedia appoggiata al muro.
“Assèttati”, gli disse mentre si metteva al centro della stanza. Venanzio sentì nu pilùarciu come quando aveva freddo.
“Io t’ho imparato tutto quello che sai”, cominciò Bettina con una serietà sconosciuta. “T’ho imparato a leggere e scrivere”, disse portandosi le mani sul collo della camicetta. “T’imparai ad acchiappare lucertole”, disse sbottonandosi, “t’imparai come si succhiano le uova”, aggiunse aprendosi la camicetta e togliendola.
Miracolo divino! Le mìnni di Bettina penzulijàrunu come nuvole: la ragazza afferrò quella sinistra con una mano e avanzò verso il ragazzo che la mirava come una Madonna che fuoriesce dal quadro della Matrice.
“Mò è venuto il momento che impari l’ultima cosa, la cchiù importante di tutte, e fa attenzione che questa è come una magia, che se la fai bene il mondo è tuo”, e non aveva finito di parlare che con la destra gli prese i capelli.
“Apri la bocca, aprila bene, che stai per sentire il sapore della vita, che questa è meglio dell’ostia santa, è la vera comunione”, e gli infilò in bocca il capezzolo della mìnna che stringeva con la mano.
Quando sentì la saliva scivolarle piano verso l’ombelico, e col ginocchio avvertì l’eccitazione del giovane, Bettina s’inginocchiò per abbassargli la cerniera dei pantaloni.
“E adesso tocca a me nzapuràra”.
Infilò la mano sotto le mutande e tirò fuori il micciùna, teso come un palo di quercia stagionato.
“Avevo visto che tenevi questa benedizione, Venà, e da allora non faccio che aspettare sto momento”.
Bettina fu come se quel giorno sollevò la tenda che nascondeva il mondo, come se appicciò una luce in una camera scura che Venanzio, nel momento in cui le imbiancò le pareti della bocca assetata col vischioso liquore, comprese cosa avrebbe voluto fare per il resto della vita.
Da quel pomeriggio non guardò più il mondo allo stesso modo: per lui esistevano solo le femmine, e non era mai sazio di guardarle, osservarle, desiderarle tutte: grasse e magre, belle e brutte, formose o sbilenche, vecchie e giovani. Dove sentiva odore di femmina Venanzio si lanciava come un segugio. Quando ampràvano i panni sui balconi, quando si assettàvano sulle scale e le gonne s’alzavano, quando si coglieva olive o si vendemmiava che le femmine si chinavano: Venanzio era lì senza essere visto, che fin da subito, come una vocazione, coltivò il dono della prudenza e della misura, guardare e muoversi senza farsi accorgere, una parcità che non abbandonò mai nella vita. E così nessuno, eccetto le fortunate che avevano assaggiato la sua miracolosa vajàna, sospettava che don Venanziu fosse un erotomane.
Votò la propria esistenza all’arte del sesso, maturando presto l’idea che lui, Venanzio Micchiaduru, non si sarebbe mai sposato, e perché non avrebbe mai potuto obbedire al comandamento della fedeltà, e soprattutto perché quel bene prezioso che teneva tra le gambe era un peccato non farlo conoscere a tutte, ch’era come se Mozart si fosse messo a suonare tutta la vita senza farsi ascoltare o Leopardi avesse trascorso i suoi brevi decenni chiuso nella biblioteca di Monaldo ad autorecitarsi batracomiomachie.
Assecondando la vocazione, il giovane Venanzio andò a bottega da mastro Gatànu sarto. Fu una scelta oculata, che certo non si sarebbe mai messo a fare il falegname o il muratore o lo scarpàru o lo stagnino, perché sin da piccolo sviluppò una certa avversione per gli indumenti e le pelli sporche. Gli piaceva essere elegante e profumato, che sapeva così di attirare l’attenzione femminile. E poi scelse anche quel mestiere perché conosceva le debolezze vestimentarie delle fìmmani.
C’erano altri mastri sarti a Girifalco, ma avevano già un paio di discepoli a testa, mentre mastru Gatànu non tenìa nùddu. Il motivo il giovane Venanziu non lo sapeva ancora, e non capiva perché la madre si ostinava in tutti i modi a non mandarlo da Gatanùzzu, ma lui insistette. Del perché non c’erano altri discepoli e del perché, da quando cominciò a frequentarlo, la gente lo guardava con curiosa ilarità, lo capiscì una settimana dopo, quando mentre gli faceva vedere come si prendono le misure con la fettuccia, il maestro gli toccò il culo. Il ragazzo s’imbarazzò: lì per lì non disse niente ma si limitò a scostarsi.
Tutta la notte non chiuse occhi: gli piaceva stare in quel posto tra forbici e cartamodelli, tessuti e puntaspilli, e allora doveva studiarsi un modo per stare ancora lì senza divenire il manichino speciale di mastru Gatànu.
E così il giorno dopo si fece coraggio e glielo disse chiaro che lui voleva imparare il mestiere e non voleva guai, che poteva toccare chi voleva e fare quello che voleva ma non con lui, e glielo disse con una serietà toccante, che lui un padre non ce l’aveva e allora Gatanùzzu se voleva poteva essere come un padre per lui. Se gli stava bene così se no se ne andava.
Scavò il solco giusto per entrargli al cuore, che a Gatànu un figlio gli era sempre mancato. Non disse né sì né no, ma gli ordinò di prendere il gesso, e Venanzio ubbidì leggero come nu cùacciu de rànu.
I paesani, non sapendo del patto di lealtà, avevano già emesso la sentenza senza revoche né riserve: se andava a bottega da nu ricchiùna, Venanziu era ricchiùna pure lui; e così le sue uscite cominciarono a essere ricamate e nchimàte da lazzi e sollazzi, battute, risolini, ammiccamenti, e non era raro che màmmasa lo vedesse ritornare a casa con un occhio nero.
Furono lunghi mesi di sofferenze, in cui più d’una volta fu tentato di lasciare il mastro per finirla con quella storia, ma la vita insegna che gli eventi sono come i paesaggi, cambiano a seconda da dove si guardano, e Venanzio imparò la lezziòna dei punti di vista un giorno speciale della sua vita che nella bottega trasì Rosamaruzza Sciccatrana.
Si sposava la fìgghia Ndolorata e voleva farsi un vestito summisùra, ma non uno normale, no, uno che quando lo guardano le genti devono meravigliarsi.
“Mi arraccomando, Gatanùzzu, che voi siete il più bravo”.
Rosamaruzza, la moglie dell’appuntato, era una cupàna come ce n’erano poche al paese, con due mìnni che a Venanziu gli ricordavano quelli della balia. All’appuntato Di Loreto la gelosia se lo mangiava fino alle ossa, e alla povera mugghièra, che pure qualche capriccio se lo sarebbe tolto volentieri, non la faceva mai uscire da casa se non scortata dal carabiniere ausiliario Pigafetta, con l’ordine perentorio di non avvicinarsi a lei più di due metri se non voleva essere destinato a qualche sperduta stazioncina friulana.
L’accompagnò il marito in persona, che quello era l’unico posto, visti i gusti del sarto e del suo discepolo, nel quale un uomo poteva ronzarle intorno senza rischiare di buscarsi una pistolettata d’ordinanza. L’appuntato ritornò alla stazione e dall’altra parte del marciapiede lasciò Pigafetta a controllare che non entrasse o uscisse nessuno.
Il sarto la fece accomodare e le portò il campionario dei tessuti. Rosamaruzza se la prese comoda come se stesse sfogliando un’enciclopedia illustrata, e alla fine, dopo una lunga selezione e grazie anche ai consigli del mastro, scelse una mussola verde fiorata.
“Accomodatevi, signora, che vi prendo le misure”, disse, ma mentre faceva strada verso l’angolo dei manichini, scivolò su una toppa di lino caduta dal catalogo. Cudìdda e femori non ebbero conseguenze, ma la mano destra si scavugghiò e gonfiò. Il mastro quasi avrebbe lacrimato dal dolore, mentre Venanziu corse al bar a prendere del ghiaccio.
“Sarà meglio che andate a farvi vedere da Vonella”, disse una dispiaciuta Rosamaruzza, “tanto mi sa che oramai le misure…”.
“Non preoccupatevi, signora mia”, si affrettò a rispondere Gatànu nel timore di perdere una cliente che avrebbe pagato in contanti, “che del dottòra non c’è bisogno, quanto alle misure ci pensa il ragazzo a pigghiàrle, sapete, è proprio portato per questo mestiere”.
“Se lo dite voi”, aggiunse la femmina togliendosi la giacca.
Venanziu si sentì le gambe deboli che prima di quel giorno si era solo esercitato col manichino, e afferrò la fettuccia con mano tremante. Gatanùzzu s’accorse dell’impaccio e lo guardò subito con aria severa, un’occhiata che voleva dire stai attento a quello che fai.
Il profumo della pelle di Rosamaruzza stordiva come un cespuglio di gelsomino fiorito, e u sàngu cominciò a bollirgli. Quando le misurò i fianchi, che il tessuto leggero del vestito faceva intravedere l’elastico delle mutande, il miccio gli s’ingrossò quasi a scoppiargli, come una soppressata troppo inchiùta che u vudìaddu comincia a cedere.
Venne il momento di prendere le misure davanti: Venanzio era imbarazzato, avrebbe voluto mettersi le mani dentro e aggiustarselo per camuffarlo, ma come poteva? E così, impacciato, si trovò di fronte a due splendide mìnne che gli arrivavano proprio alla faccia, con uno spacco che sembrava la discesa per l’inferno. Stordito da quelle gioie, mentre misurava il giro petto, perse l’equilibrio e finì contro la donna.
“Venanziu, chi fai?”, tuonò il sarto precipitandosi sulla signora.
Il ragazzo divenne rosso e abbassò gli occhi dalla vergogna, ma ci pensò Rosamaruzza a proteggerlo: “Non successe niente, mastru Gatànu, sto povero guagliùna è solo scivolato, può succedere. Perdonatelo”.
“Non c’è niente da perdonare, e tu”, disse rivolto al ragazzo, “continua a far quello che stavi facendo”.
Venanzio allora alzò gli occhi grati verso quelli della donna, e vi scorse un’espressione ambigua, perché egli non era l’unico che stava rievocando le intensità dei contatti, che anche Rosamaruzza, quando le cadde addosso, sentì sulla coscia una durezza che non lasciava dubbi sulle fantasie del garzone e che la sorprese perché sapeva le voci che giravano sul conto di quei due mezzòmini. E quando il discepolo arretrò, lei cercò con gli occhi la patta del ragazzo e vide il gonfiore e l’abbondanza sotto le mutande.
Le venne la gulìa in bocca di afferrare quel miccio e farsi prendere altre misure. Il giovane si accorse dello sguardo, allora si avvicinò a lei con meno timore, e fu allora che sentì alzarsi dalle intimità della fìmmana un asprore che egli avrebbe imparato da quel giorno a distinguere in mezzo a mille, l’odore affumicato e pungente del desiderio femminile. Quando finirono, la signora indossò la giacchettina e salutò, lasciando dietro di sé una scia d’incompiutezza, come certi disegni che aspettano d’essere finiti.
Il giovedì di mercato della settimana successiva, che vide mastru Gatànu girare tra le bancarelle, Rosamaruzza con la scusa di provare il vestito si fece accompagnare da Pigafetta alla sartoria. Quando la vide entrare, Venanzio ebbe la certezza di come sarebbe finita, perché lei chiese subito se c’era uno stanzino dove spogliarsi per provare il vestito.
“Ma il vestito non è ancora pronto”.
“Vuol dire che lo misurerò così com’è”.
Il desiderio del primo incontro scoppiò come na bumbarèdda chiusa in un barattolo. La femmina restò rimìsa del miccio di Venanzio e della sua consumata arte amatoria: esperto nel dosare forza e dolcezza, nello sfiorare i punti giusti come se il corpo delle donne fosse una preghiera imparata a memoria.
Quando si rivestì, stravolta come non lo era mai stata, donna come non si era mai sentita, lo fissò: “Sei furbo, cotràru”.
Intento a sistemarsi l’anguilla nelle mutande non capì.
“Proprio furbo. Lo sai le voci che girano su di te, vero?”.
“Sono voci”.
“Me ne sono accorta”, disse con malizia, “ma tu lo fai apposta, te ne stai qui così tutti ti credono innocuo, e invece”.
Quando Rosamaruzza se ne andò, che a vederla da dietro faceva venire ancora voglia, il discepolo pensò a quelle parole e alla saggezza che vi era invischiata.
Il posto in cui si trovava era perfetto, ed era un bene che i paesani pensassero quelle cose di lui, così poteva avvicinare le donne senza destare sospetti. Da quel giorno assecondò maldicenze e pettegolezzi, certo che quella condotta lo avrebbe portato a fottersi le femmine più cupàne del paese.
Mastru Gatànu morì che Venanzio aveva ventitré anni, dopo una lunga malattia durante la quale il giovane lo curò come un padre.
“Venanzì”, gli disse prima di morire, “la bottega è tua, che sei stato come un figlio per me; solo una cosa però devi giurarmi, non lasciare mai la mia tomba senza fiori, che non voglio essere abbandonato e solo dopo la morte come lo sono stato nella vita”.
Venanzio Micchiaduru divenne il sarto più rinomato di Girifalco e dintorni, specializzato in vestiti e tailleur per signora e, segretamente, uno dei più grandi amatori dell’umanità.
Essere stato garzone di mastru Gatànu e vivere in solitudine e senza moglie erano indizi più che sufficienti a certificare la veridicità delle chiacchiere. Sempre elegante, col suo profumo di agrumi e bergamotto, era da tutti rispettato e ben voluto, e per le paesane abituate ad avere intorno uomini sgarbati e graveolenti di vino, andare con lui era come salire su una giostra, come trovarsi dentro una rivista alla moda o vivere alla maniera delle attrici della televisione.
Il retrobottega della sartoria lo attrezzò ad alcova con un letto circolare, le tende intorno, un paio di specchi, i libri delle poesie erotiche di Duonnu Pantu e Ammirà, profumi sul comodino, calendario erotico, e non c’era femmina che, entrata lì dentro per provarsi un abito, non usciva portando sulla pelle l’odore acidulo della sua semenza.
Quella sera, tanti anni dopo, era toccato a commare Saveruzza pulirsi l’inguine dal suo vigoroso schizzo: dopo averla incontrata la mattina, il pomeriggio la vide passare dalla sartoria, le parlò, le disse che aveva un tessuto bello e che se voleva poteva provarlo senza impegno, lei entrò e così, la sera, andò a trovarla a casa sua. Uscì senza farsi vedere, e mentre si sistemava il nodo della cravatta pensò che era una serata bella che ne valeva la pena, e l’improvvisa fragranza di rosmarino e trifoglio fresco che sentì nell’aria la visse come una benedizione dell’universo.