6

La venturata

Era una giornata calda calda, che l’aria bruciava come i mattoni del forno di Mariuzza dopo aver sfornato tutta notte cuzzùpi, cassàti e piattienìpita.

A Rorò Partitaru tuttavia non l’arrivigghiò il calore, ma il fischiettìo di cumpàra Scianùrzu che le tagliava l’erba del giardino. Rorò si crogiolava tra le lenzuola, che quando avrebbe aperto gli occhi non ci sarebbe rimasta male, che per lei sognare o vivere erano la stessa cosa. Lo erano, precisamente, da ventitré anni due mesi sei giorni e quattro ore, dal benedetto attimo in cui Sarvatùra Chiricu suonò al modesto portone della casicèdda di màmmasa con un mazzo di fiori in mano e l’intenzione di chiederla come sposa. E Rorò era assai contenta d’accasarsi, che Sarvatùra era un uomo buono, lavoratore serio e rispettoso.

Rosaria Partitaru, figlia di Girolamu e Gioiosa Mbarazzu, nacque a Girifalco il diciotto ottobre. Il sangue che l’annunciò al mondo striò il candore del lenzuolo come un tappeto di velluto rosso sul cui morbidume Rorò scivolò nella luce della vita. Nessun gemito, che la madre per qualche secondo si spanticò d’aver partorito un cadaverino, ma poi se la vide tra le braccia, serena e sorridente.

“Fìmmana serena cu non cìangia per la pena”, sentenziò mammina Maraggemma mentre le staccava il cordone, e Rosaria, chiamata in quel modo per voto alla Madonna del Rosario, sembrò davvero la figlia prediletta di Maria, che il destino la vestì di una mantellina per proteggerla dai fastidi, piccoli e grandi, che punzecchiavano il resto dell’umanità.

All’età di quattro anni non sapeva ancora cosa volesse dire piangere: gli altri neonati avevano le coliche e lei niente; mal d’orecchie manco a parlarne, morbillo e varicella manco a pronunciarne, che quando il cugino Linardu si ammalò di una russàina così potente che rischiò di mandarlo all’altro mondo e Rosaria venne fatta stare con lui una giornata sana sana con la speranza di pagare tributo a quella malattia pericolosa se presa da gravida, la piccolina se ne uscì dalla stanza infettata e ammorbata più sanìzza di come era trasùta.

Quella volta, a dir la verità, Gioiosa Mbarazzu un po’ si preoccupò e ammucciùni da Girolamu, che interpretava quella sanità come marchio vigoroso della razza, andò dal dottor Vonella.

“Signora”, disse l’illustre medico alla mamma preoccupata, “di solito qui le genti vengono che sono malate e si lamentano di pillole e ndiziùani, ma dolersi per la troppa salute mi sembra un affronto al Signore!”.

“Dottòra mia, sta guagliunèdda non fu mai malata, mai: non conosce febbri, mal di pancia, cacarelle. A mìa non mi pare normale”.

In quel momento dalla sala d’attesa giunse l’eco d’un tossio lugubre e cavernoso.

“Avete sentito? Non fatemi perdere tempo, che c’è gente che ha davvero bisogno di me, e la prossima volta che avete qualche dubbio andate alla Matrice e appicciàte un cero alla Madonna per avervi fatto una bimba accussì sanìzza”.

Quelle parole tranquillizzarono Gioiosa, e giunsero inoltre le assicurazioni di Illuminatuzza Coraranda, la madre, alla quale un giorno, vedendo Rosaria cadere màrgi màrgi senza nemmeno graffiarsi, le chiese se anche lei quand’era guagliunèdda era accussì sanìzza.

“Fìgghiama, tu eri Gioiosa di nome e di fatto, che come Rosaria non ti lamentavi di niente, che la prima volta che ti allettasti fu solo a dodici anni, ma una bronchite così brutta che certe notti che avevi la febbre a quarantuno ti ciangìa per morta. E il dottore che venne a visitarti disse che in un botto pagavi anni e anni di salute, che le cose vanno così al mondo, che arriva il tempo in cui pianti e risa si spartono in menzìni uguali”.

Gioiosa si tranquillizzò ma sperò che màmmasa non avesse ragione del tutto, che se Rorò doveva pagare tutto in una volta quella botta di salute celeste, povera scentìna che fine avrebbe fatto!

L’unica cosa che stonava tra quelle benevole venture era la paura, quasi il terrore, che la pìcciula aveva del fuoco: non poteva vedere accendersi un fiammifero che scappava disperata, al punto che da casa Partitaru furono banditi vrascìari e stufi. Chissà perché quella paura, pensava màmmasa, che però era cuntenta che rendeva la fìgghia più normale.

Rorò aveva sette anni quando l’aureola di luce e fortuna con cui la Madonna l’aveva inghirlandata cominciò a farsi notare ai paesani. Era giorno della grande fiera di Sant’Antonio, la più grande fiera d’animali della provincia: tutto il paese, dal manicomio al cimitero, dall’Annunciata a Sammarcu, sembrava un’immensa stalla dove pascolavano le mandrie di tutta la provincia. Era un giorno di festa, che le scuole chiudevano e i bar e le potìghe restavano aperte tutto il giorno e mettevano i tavoli sui marciapiedi come a San Rocco.

Anche Rorò prese parte alla festa: di fronte al ponta dell’Aceduzzu, Girolamu Partitaru aveva portato a vendere conìgghi e gaddìni, e allora Gioiosa Mbarazzu ne aveva approfittato per farsi un giro che doveva accattare uno scampolo di raso. Era una bella giornata di primavera, e Rorò, con lo stecchetto di liquirizia in mano e la bambulèdda di pezza appena accattàtale, stava attaccata alla suttana di màmmasa che in chìddu ribèllu sennò rischiava di perdersi. Poi all’improvviso, quand’erano all’altezza della casa del pittore Lamantea, dalla parte della fontana cominciarono ad alzarsi urla e grida e clamori. Fu un momento di panico, che le genti scappavano strepitando e ammucciàndosi nei portoni, dietro gli alberi, i più agili sui balconi. Gioiosa ci mise un attimo a capire cosa stava succedendo, ma poi quando la muraglia di gente cominciò a squagghiàrsi vide in fondo alla strada un toro imbestialito e minaccioso che pezziàva ogni cosa trovava intorno, fossero le gaggie con gaddìni e conigli o la gamba del malcapitato Marvinu, che giaceva dolorante a terra. Gioiosa corse con la fìgghia sulla scala di Bettinuzza Sampò insieme a una capannina di genti. Corso Teodosio, con i cristiani assiepati ai bordi, sembrava come mattina di Pasqua quando passavano le statue sante della Cunfrunta. Il toro s’avvicinava sbuffando, cercando minaccioso il bersaglio contro cui scagliare la propria furia.

Fu in quel momento che a Gioiuzza le sembrò di morire, che nell’attimo in cui spostò gli occhi dall’animale si accorse che la bambolèdda di pezza della figlia era rimasta lì, in mezzo al viale, e che Rorò, inavvertitamente staccatasi dalla sua mano, era già oltre il marciapiede che andava a raccoglierla. Quando lanciò un urlo che terrorizzò tutti era troppo tardi, che ormai il toro era a qualche metro dalla guagliunèdda. Ci fu un silenzio da messa: i più deboli si misero le mani sugli occhi per non assistere alla macellazione del povero corpo. Ma come in un miracolo, il toro furioso, avvicinatosi alla bambina, divenne n’agneddùzzu, e Rorò perfino gli sorrise prima di ritornare, con la bambola che aveva raccolto, tra le braccia tremanti della madre.

Il toro si calmò, e così in quattro poterono legarlo e portarlo via, ma intorno ormai c’era come una luce, il biancore stupito che lasciano le apparizioni, e la gente cominciò a mormorare, e l’insistente mormorio che si diffuse per l’intero paese come un vento bussò ai portoni e alle finestre riferendo che la fìgghia di Girolamu Partitaru era stata miracolata dalla Madonna, che non solo era una cotrarèdda sanìzza ma pure santa. Gioiosa Mbarazzu, che si spagnàva di quei mormorii, decise di farli subito quetare, cominciando dal giorno successivo a rendere umana la salute di fìgghiasa.

La sera stessa le fasciò il braccio e glielo appese al collo con un maccatùra e il giorno dopo la mandò in lungo e in largo per il paese a dire che un toro glielo aveva scavugghiàtu e che tutta notte non aveva chiuso occhio per il dolore. Dopo una decina di giorni, màmmasa la recluse in casa per una settimana sana dicendo a chiunque incontrava che s’era presa una febbre di cavallo, forse a causa del terribile spavento. Chi era quel giorno presente era pronto a giurare sull’ossa di màmmasa che quell’animale inferocito non si era avvicinato alla bambina neanche di un metro, ma di fronte all’evidenza della fasciatura e, soprattutto, conoscendo l’onestà della famiglia, si convinsero che forse non avevano visto bene, che il toro di sicuro l’aveva toccata alla cotrarèdda.

Le false infermità procurate da Gioiosa colpirono a segno perché nel giro di un mese Rosaria tornò a essere una guagliùna uguale a tutte le altre. Almeno così sembrava alla gente, che invece le preoccupazioni di mamma sua crescevano ogni giorno, come quando cadde da una scala senza scorciarsi, come quando andarono a fare legna e prese in mano una vipera senza essere morsa, come quando uno sciame di vìaddusi invelenite la circondò, nel mezzo dei terreni di Brovìari, senza nemmeno sfiorarla.

Finita la terza media, Rorò s’era messa in testa che voleva fare la pasticciera.

L’unica pasticceria del paese era quella dei Macrì, alla sagghiùta del manicomio, ma le sorelle proprietarie, Cittìna e Maretta, avevano già due guagliunèdde che le aiutavano, e a Gioiosa le dissero che tre sarebbero state troppe.

“Mi spiace”, disse màmmasa a Rorò, “devi aspettare”.

Non molto, in verità, che una settimana dopo una delle due guagliunèdde, Danieledda Gangala, aveva bruciato un’intera fornata di pan di spagna per il matrimonio di don Azzariti. Cittìna e Maretta, che avevano il cuore più secco dei loro biscotti bruciaticci, la cacciarono tirandola dai capelli e senza darle nemmeno una lira.

E così Rorò fu presa a servizio, e niente la infastidiva, né la voce stridula di Cittìna né i dispetti di Maretta, che lei sorrideva sempre, quando doveva caricarsi una cassa di legna, quando c’era da lavare le pentole più alte di lei, quando per un’intera mattina doveva rompere e sbattere uova: anche il forno era elettrico, così nemmeno fuochi doveva vedere. Rosaria fu a tal punto disponibile, che dopo un paio di mesi le sorelle Macrì decisero di metterla alla prova.

La mattina, prima di aprire, lasciarono sotto il bancone della cucina cinquecento lire, appallottolate in modo che sembrassero dimenticate. La sera, dopo che Rorò aveva pulito la cucina, la banconota non c’era più: Cittìna e Maretta si scambiarono un cenno che voleva significare sono tutte le stesse, non bisogna mai fidarsi di nessuno. E così, che lei era uscita a portare al ragioniere una guantèra di sigaretti, quando tornò, le due sorelle l’aspettarono con le mani sui fianchi come due anfore.

“Chìsti sono i sordi del ragioniere”, disse la cotràra porgendo i soldi.

Maretta allungò il suo braccio che sembrava un pezzo di sughero, glieli strappò dalle mani e disse, con tono spregevole: “E gli altri dùva su?”.

Rorò restò rimìsa, che il volto le si fulminò come un lampione, e si sentì rimpicciolire di fronte allo sguardo di quella zitella rinsecchita. Non contava mai i soldi del ragioniere, che lui era un uomo distinto, e finora non s’era mai sbagliato, ma adesso…

“E allora?”.

La voce di Rorò divenne flebile come quella della sacrestana quando recitava il paternoster: “Il ragioniere…”.

“Non si sente, che hai detto?”.

“Il ragioniere…”.

“Non intendiamo dire questi soldi”, disse Maretta allungando il pugno, “ma le cinquecento lire che erano sotto il tavolo in cucina e adesso non ci sono più!”.

Cittìna fissò le labbra della ragazza, ma invece di parole di colpevolezza vide sbocciare un sorriso.

“Fammi vedere le tasche”, intimò Cittìna.

Rorò mostrò il fondo vuoto delle tasche.

“Dove te le sei nascoste?”.

“Io le pigghiài…”.

“Certo che le hai prese tu, e chi sennò? Il gatto?”.

“Sì, io le ho raccolte ma le ho messe al loro posto, nella scatola dei soldi”.

Maretta s’accalò sulla preziosa scatola.

“Dove sono? Quali? Ci prendi in giro?”.

“Permettìti?”, disse Rosarèdda con ritrovata serenità.

Prese dalla scatola il mazzo di cinquecento lire e sotto tutte c’era la banconota che aveva trovato sotto il tavolo.

“Eccola, l’ho messa sotto perché era tutta spiegazzata e col peso delle altre sopra si sciampràva”.

Cittìna e Maretta rimasero stupefatte più di quando il farmacista, contento del rinfresco che avevano preparato per lo sposalizio della fìgghia, gli regalò cinquantamila lire sane sane. Non potevano sbagliarsi che avevano fatto un segno alla moneta. Cettìna fu quasi commossa dall’azione di Rorò e subito si pentì d’aver pensato male di lei; per bilanciare quei pensieri d’umana bassezza, “Tè”, disse a Rorò, “tu li hai trovati e tu te li porti a casa. Sono i tuoi”.

Da quel giorno le sorelle Macrì non sembrarono più loro, che alla guagliùna la zaccarijàvanu con caramelle e leccalecca. Dopo due anni e un’infinita prova di onestà e valenza, già Rorò poteva permettersi, quando le sorelle erano impegnate, di stare dietro il bancone e impacchettare dùrci e pan di spagna, prendere perfino i soldi e metterli nella scatola delle scarpe stipata in fondo al cassetto dei quadrelli.

Le sorelle Macrì, jètte e senza figli, la crebbero come una nipote, e una volta che s’ammalarono – che tutto insieme facevano – le diedero perfino le chiavi della pasticceria.

Trascorse una vita, Rorò, tra i muri di quella casa che odorava di farina e uova, a infornare e sfornare quintali di pan di spagna, di sigarette, di quadrelli, di amaretti, a divenire una pasticciera di lusso, dolce e felice come i suoi biscotti al burro. E fu lì che un giorno si posò il passo incerto di Sarvatùra Chiricu, che dopo aver smarrito il sentiero di Mararosa seguì le pietruzze che conducevano a quella casa di caramelle e viscòtta.

Sarvatùra Chiricu c’era rimasto assai male del fidanzamento sfumato, e per qualche mese sembrava che portasse il lutto con una faccia nigra come carvùna. Ma non potìa stare a lungo in quel modo, che la bottega e gli affari reclamavano aiuti, e allora, col cuore sgonfio come un sacco vuoto, cominciò a guardarsi di nuovo in giro.

Rosaria Partitaru era, dopo Mararosa, la candidata ideale: una femmina seria, che mai una parola di troppo, di buona famiglia, capace di conquistarsi due cuori duri come le sorelle Macrì, ma soprattutto già provetta a portare avanti un’attività con maestria, che poi chissà, se Cìttina e Maretta le avessero anche lasciato in eredità quel fior fiore di pasticceria.

Così Sarvatùra si presentò a casa di Girolamu e Gioiosa Mbarazzu, questa volta solo con la madre, e fece la dichiarazione di matrimonio che fu accolta e festeggiata da tutti. Rorò fu contenta assai, che Sarvatùra era un brav’uomo, non bello né distinto, ma si metteva sempre la cravatta come il ragioniere.

Si sposarono dopo otto mesi, il nove agosto, e seguirono giorni e anni felici. Dopo un anno dal matrimonio nacque Rosalba, che Rorò fece vettijàra a Cettìna e Maretta.

Anche lì Rosaria non disattese la sua buona stella che mai l’aveva abbandonata, e partorì senza dolore, come se i tre chili e mezzo di carne che sputò dalle gambe fossero giusto una pisciata trattenuta a lungo.

Rosalbedda s’attaccò subito alla mìnna, e non fece mai disperare màmmasa: mangiava senza rigurgitare, non s’arrivigghiàva mai la notte, ubbidiva come un cagnolino addomesticato. Quando la cotrarèdda aveva undici anni, le sorelle Cettìna e Maretta Macrì morirono entrambe a distanza di un mese, come radici di una stessa pianta, e per ripagare quella guagliunèdda che crebbero come una figlia e che gli offrì una maternità smundàta come un ficodìndia, succosa di gioia e scevra da complicazioni, le lasciarono in eredità la pasticceria.

Rorò si sentì fiera d’aver attaccato un’altra perla al crescente impero di Sarvatùra, e così, con un innato senso degli affari, allargò la pasticceria e portò con sé Rosalbedda. Rosaria Partitaru divenne una signora ricca e riverita, come le mogli del farmacista o del geometra, e molte invidiavano la sua buona stella, una su tutte.

Rosalbedda, a vent’anni, si sposò col figlio dell’avvocato Bova e andò a vivere nel vicino paese dei cucummaràri, un mese prima che Sarvatùra, alla Castagnaredda, aprisse il primo supermercato del paese.

La sera di quel nove agosto, Rosalbedda e il marito avevano mangiato a casa di Rorò e Sarvatùra. Quando i due giovani se ne tornarono ad Amaroni, che Rorò li accompagnò alla macchina, sentì all’improvviso nell’aria un profumo nuovo, di rosmarino e trifoglio fresco. Inspirò profondamente e trasì.