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Il figlio

Era una giornata calda calda, che l’aria scaddàva come la stufa che Peppinuzzu aveva ricavato da una bombola del gas. Angeliaddu si svegliò male perché s’avìa sognàtu che qualcuno entrava in casa e rubava il barattolo dell’Ovomaltina. Andò di prescia in cucina, assonnato. Salutò appena la madre e dalla cristallèra prese il barattolo: lo aprì e vide con sollievo che i soldi erano ancora al loro posto. Si rasserenò e andò ad abbracciare màmmasa, che era in piedi a stirare da almeno due ore.

“Sonnài che ci rubavano i soldi. Bello questo vestito”, disse del tailleur fiorato di donna Linuzza che lei aveva appena finito di stirare. “Quando sarò grande te ne comprerò uno più bello”.

“Lo so”, fu la risposta disillusa della scentìna.

“Forse oggi o domani arrivano le giostre”.

Angeliaddu u Biondu era nato a Girifalco il ventiquattro giugno, unico figlio di Taliana Passataccu. A Cirifàrcu, Taliana e Angeliaddu vennero a stabilirsi poco prima della nascita di lui. Quando restò incinta senza essere né fidanzata né sposa, in casa Passataccu fu l’inizio di un incubo, che nessuno si spiegò mai con chi era potuta andare quella ragazza rispettabile.

Il padre Orazio, uomo dai forti valori tradizionali, non poteva permettere quell’infamia e così cacciò la figlia come si fa con le mosche.

Fino all’ultimo, mentre Taliana sistemava i suoi quattro stracci nella valigia bucata, màmmasa ciangìandu aveva provato a convincerla diglielo, ti prego diglielo chi è stato, digli il nome che tutto si sistema, ma lei muta come la Madonna del quadro, muta e piangente, che le lacrime le scindìanu fitte come acquazzìna perché non avrebbe più visto la sua camera, mamma sua, quel padre burbero che la ripudiava ma che lei amava in cuor suo come si ama colui che ci assomiglia, un fratello, un gemello, la parte migliore di noi. Ti prego dimmi chi è stato, le chiese màmmasa disperata prima di chiuderle la porta alle spalle. N’angelu, mammà, fu n’angelu.

Taliana andò a vivere a Cirifàrcu, sola e gravida, e non sapeva nemmeno lei perché. Era andata alle ferrovie calabrolucane e s’era assettàta, stremata, sulla prima corriera che aveva trovato. Quando s’appicciò per partire, non aveva nemmeno le forze per alzarsi e scendere, e così s’affidò al caso, che di certo l’avrebbe portata su strade migliori di quelle. E Destino scelse Girifalco nel giorno di mercato, quando alla Chiàzza un vento fortunoso soffiò sul davanzale della sua vita, un vento che giungeva dalle aride pianure dell’esistenza di Varvaruzza Marzannetta. La vecchia aveva accattàtu una cassetta di patate rosse e se l’era carcàta sulla testa, ma mentre se ne tornava una mùrra di guagliunìaddi correndo l’attruzzò e le fece cadere il carico.

A Taliana i patàti li s’arrumbulàru davanti ai piedi, e così appoggiò la valigia e malgrado il pancione si chinò ad aiutare la vecchia. Varvaruzza la guardò dritta negli occhi: “De dùva siti, forestèra?”.

“Catanzaro”.

“E che vendete in quella valigia?”.

“Miseria e disperazione”.

“No, grazie, ne accattài già abbastanza in vita mia”.

“Allora vuol dire che ci serviamo alla stessa bottega”.

“E che facìti ccà?”.

Taliana la fissò senza parlare. Per Varvaruzza le teste delle genti erano melograni aperti dentro i quali vedeva ogni cùacciu rosso, e così le bastò un’occhiata per capire che quella cotràra stava sul limitare d’un dirupo e sarebbe bastata na mbuttìa per precipitarla. All’intrasàtta, Varvaruzza s’arricordò che avrebbe potuto essere mamma, all’improvviso, come quando spostiamo un libro e dalle pagine cade un foglio scritto tanti anni prima che avevamo dimenticato, e si sentì responsabile di quella fanciulla come i bambini dell’uccello ferito che si posa nel loro orto: “Quando nèscia la creatura?”.

“Non lo so, ma prego il Signore più tardi possibile, che dov’è fa caldo e ha da mangiare”.

“Pigghiàti”, le disse con tono perentorio indicando un manico della cassetta, e si avviarono verso casa.

Angeliaddu venne al mondo di notte. Tutto andò bene ma Varvaruzza, appena lo prese tra le mani, si accorse di una stranezza. Tagliò il cordone ombelicale e lo mise in un piatto con olio che appoggiò sul davanzale illuminato dalla luna piena con le parole San Giuànni chi fùsti sutta la crùcia sta carna de guagliunìaddu addùcia.

“Che fate, Varvaruzza?”.

“Guarda qui”, le disse indicandole la nuca del bambino.

Tra gli sparuti capelli che presagivano il biondo, spuntava, infausto come gramigna, un ciuffo di capelli bianchi. Taliana non sembrò preoccuparsi, cuntenta com’era di abbracciarsi il piccirìddu, ma la vecchia, invece, parìa che tutte le preoccupazioni del mondo le fossero rovinate sulla testa.

“Non è una cosa buona!”.

E non lo fu, quel ciuffo di capelli bianchi, che cresceva insieme al piccirìddu come un marchio. Varvaruzza si preoccupò di camuffarlo in ogni modo, e così gli metteva sempre sulla testa nu cappulìnu, d’estate e d’inverno. Nel frattempo, sperimentava miscugli per pittarlo ma l’albedine sconfiggeva ogni tentativo, come una verità che non sopporta falsificazioni, come dovrebbe essere ogni millimetro del nostro corpo, ogni millesimo della nostra esistenza; più Varvaruzza cercava di cancellarlo, più quel biancore ritornava forte di tutti i tentativi fatti per annientarlo, più bianco del latte, del marmo, della schiuma. Taliana non capiva quegli inutili sforzi.

Un giorno, di fronte all’ennesima sconfitta, dopo aver passato sul biancicore un maleodorante miscuglio di camomilla, uova, olio di lino e chissà cos’altro, di fronte all’ennesima e ultima resa, si portò Taliana sotto il pergolato e le parlò sincera: “Non c’è niente da fare”.

“Ma perché ve la prendete tanto?”.

“Finora siamo riuscite a nasconderlo, ma prima o poi si verrà a sapere, e dobbiamo prepararci per quel momento”.

“Non capisco”.

“Capirai, Taliana, capirai, che le cose diverse non piacciono mai, specialmente in questo paese!”.

Taliana capì quando Angeliaddu cominciò a essere sfottuto dai compagni, che già essere biondo rendeva diversi, ma addirittura un ciuffo bianco! Quante volte tornava a casa con graffi o segni sulla faccia, quante volte lo sentiva piangere di nascosto, quante volte la chiamavano a scuola perché suo figlio picchiava i compagni! Angeliaddu, che era un bambino calmo e mite ma che non sopportava di essere preso in giro, venne subito additato come un ragazzo difficile, un figlio di una straniera senza marito, che abitava da Varvaruzza la maga e che picchiava sempre i compagni, e nel paese Angeliaddu divenne un predestinato, uno di quelli che la sventura non solo ce l’hanno scritta nel sangue, come tutti, ma anche sul corpo, marchiata sui capelli, a lettere chiare che tutti possano leggerla. Crescerà delinquente, si diceva la gente quando lo vedeva per strada col passo insicuro di chi non sa dove andare, crescerà delinquente, aspettate e vedrete, un delinquente proprio come Pilujàncu, che hanno la stessa macchia del diavolo. Parlavano sottovoce, che tutti al paese si spagnàvanu di Varvaruzza e delle sue magherìe.

Una mattina, Taliana si svegliò sorridente.

“Varvaruzza”, le disse mentre si abbracciava il figlio, “Angeliaddu vi ha allungato la vita. Dice di avervi sonnàta stanotte stesa dentro nu tambùtu, con le braccia incrociate. Dovete sopportarci ancora a lungo, mammarè”.

Varvaruzza fece una smorfia, s’assettò, chiamò Angeliaddu e si fece raccontare per filo e per segno quello che ricordava. Poi rimase pensosa.

“Perché sìti preoccupata? Me l’avete insegnato voi che quando si sogna morire qualcuno li s’allònga la vita”.

“Già, già”, concluse Varvaruzza.

Dopo un paio di minuti si alzò. “Questa matìna vestiti bòna che andiamo al notaio”, disse con una perentorietà che troncava qualsiasi richiesta di chiarimenti. Due ore dopo, nello studio del notaio De Stefani alla scindùta dei Parrìadi, Varvaruzza Marzannetta lasciò per iscritto in eredità alla signora Vitaliana Passataccu di Catanzaro la sua piccola casa, i terreni ai Ponticèdda, il libretto postale. Taliana, quando furono per strada, se l’abbracciò piangendo: “Varvaruzza, se non era per voi io… siete meglio d’una mamma, posso chiamarvi accussì, mamma?”.

Gli occhi della vecchia, per la prima volta nella loro secolare esistenza, conobbero l’umidore della commozione. Ma fu un attimo.

“Mò dàssami stara, va alla casa da Angeliaddu, che io prima ho da sistemare due o tre cose”.

“Volete che v’accompagno?”.

“Va alla casa, che i conti con i propri rimorsi si fanno da soli”.

Taliana pensò che forse stava esagerando, eppure, se una femmina saggia come lei, che al paese tutti consideravano alla stregua di una sacerdotessa a cui chiedere consigli, preparare amuleti, allontanare malocchi, se Varvaruzza aveva creduto a quel sogno… Tornò a casa che erano le due, che Taliana cominciava a preoccuparsi. Aveva una faccia diversa, non sapìa dire se serena o rassegnata.

Non volle mangiare, disse di non avere fame, e per tutto il giorno frugò dappertutto, aprì càsce e casciùni e riordinò e diede indicazioni a Taliana di questi panni butta quello che non ti serve questi altri conservali tutti che li ho fatti con le mie mani al tilàru di nànnama Catena e così via, illustrando alla nuova figlia origini e storie degli oggetti che si trovavano in quella casa.

“Mi raccomando, questo scialle nero indossalo solo per i funerali”.

Taliana lo stava per mettere nel cassetto ma Varvaruzza le disse: “Tienilo fuori, ti servirà tra poco”.

Quella sera, che Angeliaddu stava già dormendo, Varvaruzza si sedette fuori, sotto l’andito di zibìbbu, e guardava il cielo scuro. Taliana le s’assettò accanto.

C’era un silenzio profondo, come se le stelle celebrassero una messa e le cose terrestri vi assistessero assorte.

“Sìti strana, mamma. Pensate veramente che il sogno di Angeliaddu s’avvera? Vi state preparando a morire?”.

Varvaruzza continuò a guardare l’arco celeste, e mentre prendeva respiro per rispondere milioni e milioni di stelle morivano, galassie e universi stavano per essere inghiottiti da minuscoli punti neri, pianeti deflagravano e nuovi soli e nuove lune nascevano.

“Sì, fìgghia mia, non mi manca molto”.

“Non dite così”.

“Sono giorni che me lo sento addosso, e poi il sogno di Angeliaddu”.

“Dicitimi”.

“L’ho sognato anch’io ch’ero distesa dentro nu tambùtu, la simàna scorsa. È vero che sognare la morte di qualcuno gli allunga la vita, ma forse due sogni della stessa morte ammazzano più di un bicchiere di sòrfuru”.

Taliana si commosse, e la voce rotta tradì lo smarrimento: “Ma è un sogno!”.

“È la vita, fìgghiama cara, è la vita”.

Il giorno dopo la vecchia chiamò Angeliaddu e lo fece sedere di fronte a sé. Màmmasa era là.

“Fìgghiuma, io non ci sarò a proteggerti quando ne avrai bisogno. Ma questa collana saprà farlo al posto mio”.

Da un fazzoletto chiuso tirò fuori una collana con un ciondolo d’oro a forma di ali d’angelo e gliela mise intorno al collo.

“Ripeti: Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi, governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste”.

Il bambino recitò la preghiera, e anche la mamma pregò con loro.

“Il tuo angelo custode ti proteggerà, fìgghiuma, chiunque esso sia. Tu non disperare mai. Arricòrdati queste parole e ligatìlli intorno al collo come questa catena”.

Varvaruzza non fece più niente. Taliana cercò di convincerla a muoversi facendo leva su della semenza di melangiàne che andava piantata, ma la vecchia era inamovibile come una pietra: “Fìgghiama, vai da sola, che non tocca a me cominciare qualcosa che non posso cunchiudìra”.

Varvaruzza Marzannetta morì il giorno dopo, silenziosa come una stella cadente. Taliana la ciangìu come una madre e Angeliaddu come una nonna, che certe volte i genitori che ci scegliamo sono meglio di quelli che Natura e Destino sorteggiano per noi. Il piccirìddu quando la vide stesa nel tambùtu pensò d’averla uccisa lui con quel sogno, e glielo disse anche alla madre.

“No, non l’ammazzasti tu, che la morte noi ce l’abbiamo scritta appena nasciamo e niente può cambiarla. Anzi, tu l’aiutasti assai, perché così almeno le hai dato il tempo di chiudere le porte che aveva lasciato aperte, e questo è buono, sai?”.

Quella mattina, tanti anni dopo, Angeliaddu si svegliò entusiasta.

“Forse oggi o domani arrivano le giostre”, disse a màmmasa mentre si sedeva a fare colazione.

Uscì in fretta verso lo spiazzale terroso di Sammarco, ma le giostre non c’erano. Per tutta la giornata andò a vedere inutilmente e alla sera tornò presto a casa, sperando che il giorno dopo sarebbero arrivate. Disteso a letto, pensando a come sarebbe stata triste la settimana di San Rocco senza le giostre, sentì entrare dalla finestra un profumo insolito ma piacevole di rosmarino e trifoglio fresco.