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Una lunga attesa

Girifalco era delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte.

Della morte ci sarebbe poco da dire: scodinzolava tra le strade come un randagio dimentico che poteva mordere chiunque da un momento all’altro. Eccetto un piccolo paese portoghese, non ci sono notizie che le cose vadano diversamente nelle altre parti del mondo.

La follia, invece, scendeva dall’alto, come un polline che quando soffiava il vento si spargeva sulle teste ignare delle genti e le inseminava. Forse per questo gli uomini portavano sempre il cappello e le femmine raccoglievano i capelli nei maccatùri che legavano stretti come i pacchi di cartone per i parenti emigrati. Anche quando il manicomio non ci sarebbe più stato, i pollini avrebbero continuato a volteggiare nell’aria per azziccàrsi di tanto in tanto in qualche padiglione auricolare a modificare gli ingranaggi della meccanica umana e terrestre. E il rischio era alto che i venti a Girifalco non cessavano mai.

C’era il vento dell’ovest che arrivava da monte Covello e chiamavano ponente e quello d’est dal golfo di Squillace che chiamavano scirocco. Ogni vento a Girifalco o era ponente o era scirocco, perché in quel luogo non c’era spazio per le sfumature e le vie di mezzo: due punti cardinali, due venti, e la vita che era nascita e morte, sole e pioggia, pianto e riso, dolore e agio.

Anche il paese era stato costruito in quel modo: due grandi strade, due chiese, due fontane, due mercati, come se in quel fazzoletto di terra calabrese si misurasse l’equilibrio dell’intero sistema solare, la stabilità delle stelle, la regolarità delle traiettorie planetarie, la sopravvivenza del cosmo.

C’erano anche due campi di calcio, e su uno di questi, quello di San Marco, la mattina del dieci agosto di ogni anno, puntuali come i cicli sanguinolenti di Concettina Licatedda, arrivavano le giostre. Qualche giorno prima il sindaco mandava gli operai comunali a renducìra lo spiazzale terroso: tagliavano l’erba, raccoglievano mundìzzi, spianavano i buchi del terreno.

L’arrivo delle giostre segnava l’inizio delle feste patronali, che sarebbero religiosamente cominciate cinque giorni dopo, la sera del quindici agosto, col rituale incontro delle statue della Madonna e di San Rocco: a mezzanotte avrebbero sparato i fuochi pirotecnici più belli del comprensorio e il giorno dopo, sedici agosto, tra le strade illuminate artisticamente dalla ditta fratelli Cerullo di Montauro, si sarebbe svolta la festa patronale. Tutto sarebbe finito sera del ventiquattro agosto, giorno dell’Ottavara con la spartizione delle statue.

Come ogni paese della Calabria, il tempo e la vita di Girifalco erano cadenzati dalle feste religiose, soprattutto perché in quelle occasioni i parenti emigrati tornavano al paese, le famiglie si ricomponevano, le case si riempivano, le madri ritornavano a essere madri e i figli figli, e questa era la vera magia, che poi Cirifàrcu era un paese fortunato che le sue due feste importanti coincidevano con i tempi delle vacanze, che la Cunfrunta si faceva mattina di Pasqua e San Rocco cadeva il sedici, proprio il giorno dopo ferragosto, che nessun santo poteva scegliersi data migliore. E quindi i cirifarcùati erano venturati assai; che gusto c’era ad avere la festa patronale il sedici novembre o il quattro febbraio, quando il tempo freddijàva e pioveva e i parenti lavoravano lontano sotto cappe di nuvole ferrose?

Per i più giovani la felicità cominciava con l’arrivo delle giostre: non era festa di Santurùaccu se non c’erano l’autoscontro, i popcorn, le carabine ad aria compressa per vincere bottiglie di liquore scaduto e i pesciolini rossi coi giorni contati.

La mattina di quell’anno, però, neanche una macchinetta per lo zucchero filato: lo spiazzale era vuoto e desolato come la testa di Archidemu Crisippu. La notizia del mancato arrivo delle giostre non tardò a diffondersi per il paese, tracciando solchi di dispiaceri e delusioni in piccoli e grandi.

Non si sa mai, nella vita

Il sistema solare gli lanciava messaggi che lui doveva di volta in volta intercettare, interpretare, attuare. Quella mattina, il giorno dopo l’anniversario della scomparsa del fratello, la voce dell’universo s’aggrumò in un trafiletto di cronaca, pagina ventiquattro della Gazzetta del Sud, in cui si notiziava che un pensionato di Olivadi in cerca di funghi, il settantunenne Fausto Vitaliano, s’era perso nei boschi della Contìsa, nei pressi di Covello. Archidemu ritagliò l’articolo e lo conservò con altri simili. C’era stato un periodo lontano della sua vita nel quale, non capacitandosi della rapidità con cui era sparito il fratello, non tralasciò nùdda ipotesi possibile, nemmeno la più inverosimile, perché anche quella scomparsa lo era, e allora bisognava forse trattare l’inverosimile con l’inverosimile, agguagliare le portate degli eventi e degli strumenti. Per un periodo pensò che il fratello fosse stato ingoiato da quelli che poi, leggendo, seppe chiamarsi worm­hole, cunicoli spaziotemporali che permettevano di passare da un punto all’altro della galassia. Archidemu pensò che se queste gallerie c’erano nell’universo, allora potevano anche trovarsi sulla Terra e che il triangolo delle Bermude e di La Burle ne erano un esempio: c’erano luoghi nei quali gli oggetti e le genti scomparivano improvvisamente e senza apparenti ragioni, e ciò accadeva anche tra le montagne di Covello. Cominciò a pensarci quando seppe che a Jacurso era scomparso un quarantacinquenne che era andato a prendere l’acqua. I giornali pensarono che l’avessero ammazzato e orvicàtu, regolamento di conti scrissero, ma Archidemu pensò a una spiegazione diversa. Tre anni dopo a Torre di Ruggiero, durante i giorni di festa della Madonna, era sparita una ragazza di San Vito allo Jonio, Mirellina Serrazzi, che era entrata nel santuario assieme a màmmasa e poi si era squagghiàta nella folla venerante. Anche di lei non si trovò mai il corpo, forse, pensò Archidemu, perché non c’era un corpo da trovare. E allora, dopo la terza scomparsa, su una cartina geografica segnò con un punto i luoghi delle disparizioni, che divennero tre vertici: tracciò i lati e definì un triangolo che cadeva perfettamente dentro i confini di Covello: proprio lì, qualche anno prima, era caduto un elicottero dei carabinieri di cui, stranamente, fu ritrovata solo un’elica. Forse in quei boschi c’era davvero un buco spaziotemporale. E lui ci andò per un po’ di tempo, tra sentieri e foreste, a cercarlo, sperando di esserne risucchiato e trovarsi al fianco del fratello cresciuto, di Mirellina che forse si era fidanzata con lui, e di tutte le genti lì scomparse a sua insaputa. Dopo aver definito i vertici e gli angoli di quel poligono disgraziato, altri due esseri umani si erano dileguati, e l’ultimo dei due, Franco Pignataro della Marina, che andava a raccogliere castagne da rivendere nei mercati del capoluogo, era davvero clamoroso perché con lui sparve pure il catorcio di lambretta con cui viaggiava, appunto come le navi nel celeberrimo triangolo, che un giorno, Archidemu ne era sicuro, quel rottame metallico sarebbe rispuntato da qualche parte, sulle rive di Pìaspu o tra i filari di Mangraviti. Poi un giorno apprese della teoria della Terra Cava, così accantonò l’ipotesi del triangolo maledetto per abbracciare quella che dai popoli antichi e attraverso Halley, Cleves Symmes, Reed e Ossendowski, ebbe il suo messia nel povero pescatore norvegese Olaf Jansen e nella follia che lo costrinse in un manicomio ma ne sancì la veridicità. Perché Archidemu, come ogni cirifarcùatu, aveva grande rispetto della pazzia, che chissà se anche nel suo manicomio fosse mai stato chiuso un contadino, pover’uomo come Jansen, perché affermava di essere entrato in una grotta e aver conosciuto il grande re del mondo ipogeo. Perché non solo nella calotta antartica o nell’Asia centrale poteva esserci l’apertura per il regno di Shambhala, ma anche a monte Covello, e Sciachineddu Crisippu poteva essere stato prescelto per il nobile ruolo di attraversatore di mondi sotteranei alla stregua di Nicolai Klim e Adam Seaborn. E così per qualche mese Archidemu pensò che fràtasa avìa trovato l’entrata di Agarthi e un giorno sarebbe apparso dall’altra parte del mondo. Ma lo pensò giusto per qualche mese in cui il dolore schiacciò la ragione, che poi il suo cervello ritornò a posto abbandonando ponti di Einstein-Rosen e regni sotterranei. Anche se notizie come quella, di paesani scomparsi in zona, le conservava ugualmente, che non si sa mai nella vita.

Nostalgia del sangue

Faceva un caldo che squagghiàva le candele. Che stagione fetùsa era quella, che a lei nella vita le estati non avevano portato mai niente di buono, e accussì si convinse, come fu, che anche d’estate sarebbe sopraggiunto il colpo decisivo. Che certe volte è meglio vivere come i ricci o i pipistrelli o come i vovolàci che estivano sotterra o come i nemertini che s’incistano ìddi stessi col loro muco disseccato o che, più semplicemente, ai cristiani fosse concesso il miracolo della dormienza e dell’anabiòsi, scegliere di non vivere affatto metà della propria vita, la più fredda, la più dolorosa, la più fetente, astutàrsi la testa e sognare per uno svernamento lungo sei mesi, e arribbigghiàrsi e ritrovare la vita come l’abbiamo lasciata, la stagione come l’abbiamo abbandonata, illudersi che nulla di nuovo possa accadere quando il nuovo ha sempre il sapore fielico della sconfitta, della disillusione, della pigghiàta p’o culu. E fu d’estate che sopraggiunse il colpo decisivo, ed erano cinquanta giorni precisi proprio quella matìna. Il venti giugno, come ogni maledetto venti del mese, Cuncettina era andata a letto mettendosi gli assorbenti grandi della notte, che quando il suo ciclo scoppiava sembrava la ciàbba di Roccuzzu quando cacciavano il tappo. Non aveva mai sgarrato nella sua vita, per questo quando andò in bagno la mattina dopo e si abbassò le mutande e vide l’assorbente liliale come il corporale di don Guari, per poco non le pigliò un colpo. Si pulì forte con la carta igienica e tranne una piccola goccia gialla non raccolse nulla. Pensò a tutto in quel momento di confusione, anche che la Terra avesse smesso di girare, a tutto prima di giungere a quelle due conclusioni che aveva lasciato per ultime, che l’ambiguità di alcuni eventi reca in sé l’intero campionario dei sentimenti umani, compresi i loro opposti, che lo stesso evento può essere gioia o dolore, speranza o disillusione, vita o morte: il candore infantile di quelle mutande poteva essere il suo inizio o la sua fine. Ma la vita a Cuncettina l’aveva ammaestrata al disincanto, e così dopo un breve fremito d’illusione pensò che era rovinata, che a quarantaquattro anni nelle sue condizioni solo una pazza poteva pensare anche solo per un secondo d’essere incinta, e che nzòmma quel giorno cominciava l’ultimo capitolo della sua biografia di donna dimezzata e disgraziata: il suo corpo era divenuto un tronco senza radici, un ramo secco buono nemmeno per svampàra. Non penzàva Cuncettina che un giorno sarebbe arrivata a rimpiangere quelle macchie di sangue che cadenzavano il suo fallimento mensile, che avrebbe rimpianto l’assorbente macchiato, il dolore di pancia, l’odore pungente della ferita fresca che zampilla sangue. Che l’ambiguità di certi eventi a volte si confronta col tempo, e ciò che prima era dolore diviene dopo speranza. E si malediceva per aver maledetto il sangue, quel sangue che toglieva le illusioni per subito offrirne delle altre, quel sangue che suggellava di possibilità i suoi sessanta chili di carne disfatta.

Non glielo disse subito al marito, per lui non sarebbe cambiato nulla che ormai si era rassegnato, ma confidargli quella tragedia, annunciare al mondo la certificazione del suo fallimento, pronunciarla, ecco, solo pronunciarla, l’avrebbe resa più dolorosa, che fin quando un evento rimane nostro, segreto, è come se non facesse parte del mondo, come se non fosse completamente accaduto, e tenendolo per sé Cuncettina pensava di poterlo ancora cancellare, come si fa con certi sogni, che a volte sembra che i nostri pensieri non facciano parte del mondo, come se noi e la nostra testa fossimo un’entità staccata dal sistema solare, una zattera che non si fa lambire dalle correnti della terra. E per Cuncettina, solo a parlarne col marito, sarebbe stato come allungare la mano nell’oceano e bagnarsi e invischiarsi nell’esistenza dell’universo. Non ne avrebbe parlato con lui, con màmmasa, con nessuno, che aveva bisogno del tempo giusto per abituarsi alla fine, che in quel momento, nell’attimo della consapevolezza che mai la sua vita sarebbe stata ciò che avrebbe voluto, benedisse i suoi lunghi esercizi di rassegnazione e convincimento, le formule di sterilità che quotidianamente pronunciava nella sua mente in bilico, l’ipnotico autoconvincimento che nulla fosse più possibile. Anche se poi c’era il corpo ad accenderle un barlume di speranza, c’era la carne a ricordarle ogni mese che lei poteva ancora, che il suo organismo stipava nelle profondità dei solchi una fonte di semenza, c’era la meccanica cinematica a dimostrarle che il suo corpo, a prescindere dalle cause, produceva movimento. E invece quella mattina, in pochi centimetri quadrati di cellulosa e polveri superassorbenti, lattice e cloro sbiancante, non si riversò il sangue maledetto che trasforma il vino in aceto, uccide le sementi, devasta i giardini, rende opachi gli specchi, fa arrugginire il ferro e il rame, morire le api e abortire le cavalle, non c’erano le gocciole di pipì né i residui cromosomici di gameti sconfitti, ma si riversarono d’un botto le piccole illusioni, le flebili speranze, gli inutili principi di una meccanica statica e del suo principio universale dell’equilibrio inerme dei corpi. E Cuncettina divenne più triste e silenziosa e cupa e bisognosa di distrazioni.

Un fenomeno di interferenza

“Un pacchetto di Nazionali!”.

Aceto gliele mise sul bancone, dove Angeliaddu aveva lasciato le monete. Lo mise in tasca e uscì.

Mandavano sempre a lui a prenderle, e così la gente lo vedeva con le sigarette in mano e pensava che già fumasse, mentre lui non ne aveva toccata mai una.

“Tenete”, disse mettendo il pacchetto davanti a Caracantulu, seduto al solito tavolino nella sala sul retro del bar Centrale.

“Prenditi un ghiacciolo, digli a Micu che poi lo pago io”.

“Preferisco la moneta”.

L’uomo con l’inseparabile camicia nera gliela lasciò dal resto prima di calare una napoletana a spàti. La mano sinistra, con cui teneva le carte, era coperta da un guanto perché da quando era tornato dalla Doicland, anni prima, a dedicarsi alla sua vita di gioco e malignità, Caracantulu tenìa sempre quella mano inguantata. Diceva che se l’era vrusciùta alla fabbrica e che non poteva prendere aria né sole sennò si acchiappava un’infezione. Quella mano malata che usava solo per tenere le carte o appoggiare la stecca e che invece, quando camminava, lasciava penzolare al suo fianco, come un peso morto, quella mano che quando faceva caldo, come in quei giorni, gli procurava un prurito insopportabile. Finita la partita, Caracantulu andò in bagno, si chiuse dentro, tolse il guanto e cominciò a grattare e massaggiare la mano. Il sollievo fu interrotto da qualcuno che bussò forte. S’innervosì, ricoprì la mano col guanto e aprì la porta. Lulù sorrideva come sempre, ma lui se ne fotté: con la destra gli prese il braccio e glielo strinse fino a fargli male.

“Chi cazzu ti bussi, scemu, tanto sei abituato a pisciarti addosso!”.

Gli lasciò il braccio e ritornò al tavolo dove le carte erano già state date, mentre Lulù rimase fermo lì, a guardarsi il lividore sul braccio, immemore del motivo per cui aveva bussato alla porta.

Elettrodinamica dei corpi in movimento

Era appena rientrato dal cimitero, dove aveva portato un mazzo di garofani alla tomba di mastro Gatànu, quando qualcuno bussò alla porta di dietro. Venanzio appoggiò i pantaloni sullo sgabello e andò a vedere. Un altro bussio, discreto. Il sarto aprì e Ngelarosa Castanò s’infilò dentro. L’aveva avvicinata agli inizi di giugno, quando vedendola per strada con uno scamiciato scollato rimase folgorato dalla folta peluria sotto le ascelle che lui, a vederle pelose a quel modo, si eccitava fino a star male. Era uno di quei momenti nei quali sperimentava la fase dell’isolamento ossessivo, che per lui era il segno dell’autentico amatore: don Venanziu lo era perché a lui le donne piacevano tutte, tutte, perché in ognuna di loro c’era, a suo avviso, un particolare degno d’attenzione. Bastava semplicemente fissarsi su questo particolare, desiderarlo fino all’inverosimile, ed ecco che magicamente tutto ciò che stava intorno brillava di una splendida luce carnale. E così avvenne con Ngelarosa: il particolare dei peli sotto le ascelle che rimandava a ben più saporose pelurie clandestine divenne così totalizzante da oscurare i suoi fianchi molli come impasto di pane, le sue braccia dure da manovale e perfino il suo occhio un po’ strabico. All’amatore in quei momenti gli scendeva sugli occhi come una cataratta e non riusciva a scorgere altro se non quel particolare che bramava di avere tra le mani come un sorso d’acqua dopo giorni di arsura.

“Posso stare poco”, disse sfilandosi la camicetta e togliendosi la gonna. Venanziu conosceva una per una le piccole ossessioni delle sue donne, e così s’accomodò sulla poltrona perché a Ngelarosa piaceva sederglisi di sopra senza guardarlo in faccia.

Quando la fìmmina se ne andò, l’epicureo si chiuse in bagno e dovette aspettare molto tempo per svuotarsi, troppo per quelle poche gocce che gli uscirono dal miccio, tutto quello sforzo a spingere per due misere stille giallognole. Che poi almeno fossero finite lì, no, quasi a fargli un dispetto continuavano poi a scivolare per ureteri e uretre anche dopo che si chiudeva la cerniera, il terribile fastidio di sentirsi bagnare le mutande, gocce impercettibili che da mesi assorbiva mettendo un poco di carta igienica tra il glande e la mutanda. Segni enuretici che decretavano il cedimento del corpo ma che lui, al di là del fastidio estemporaneo, minimizzava, perché il suo tòccio era sempre lì, forte e vigoroso, ad azzerare lo scorrere del tempo e perpetuare l’eterna giovinezza.

Una fettina sottile sottile

Mararosa entrò alla guccerìa parlando con Lina Strumbu. Non s’accorse subito, ma quando sentì la voce di Rorò e la riconobbe di spalle sentì vugghìrli il sangue, e sarebbe scappata fuori se non fosse che tutti avrebbero capito.

“Nu chilu di carne macinata, di prima scelta, senza grasso”, ordinò la venturata al macellaio.

Mararosa zuppa d’odio la guardava da dietro, cercando in quel corpo snello difetti invisibili, guatando nelle pieghe dei fianchi grumi di grasso inesistenti, frugando tra l’incavo del ginocchio e il polpaccio vene varicose che offrissero il segno visibile di un corpo in decomposizione.

“Mettetemi quattro fettine belle grosse, di vitello, che a Sarvatùra mio li piacciono assai!”.

Maledetta vipera, non mi hai visto ma senti il mio odore nel­l’aria, sai che sono dietro di te e mi pugnali pronunciando il suo nome, cacìnara di merda, e la guardava socchiudendo gli occhi d’odio e sperando che sotto quei vestiti firmati, tra le fibre dei muscoli e delle carni avesse cominciato a muoversi un male che non lascia scampo, di quelli che divora gli organi in un mese.

“E pure quelle ossa, se me le pulizzate per favore”.

Il macellaio mise tutto nella borsa, Rorò prese il sacchetto e uscì, ma prima che si voltasse Mararosa s’era avvicinata alla finestra per darle le spalle e non guardarla. Poi le tendine si chiusero e lei ritornò al centro della stanza. Quando fu il suo turno, memore delle monete contate che aveva in tasca e che soppesava tra le mani, chiese una fettina di lombo di maiale, ma sottile sottile, anche un po’ meno, quant’è e tirò un sospiro di sollievo che le monete bastavano, e uscì dalla guccerìa con in mano un pacchetto leggero quanto un piccolo verme, che era poi la dose di felicità che la vita aveva concesso alla sua bocca d’uccello.

La legge del soprammobile

L’orologio che teneva al polso, un vecchio Zenit, glielo aveva regalato il padre, e visti i segni sul cristallo del quadrante non era stato il primo proprietario. Gli piaceva pensare che fosse l’orologio di famiglia, il Tempo che si tramandava di generazione in generazione e che lui avrebbe purtroppo interrotto per sempre. Per sempre. Sapeva che con i suoi cinque litri di sangue si estingueva ad aeternum una lunga generazione di stoici. Immaginava le battaglie degli avi, le peripezie della vita, gli affanni e le preoccupazioni dei progenitori concludersi lì, nel suo corpo finito, nel suo seme improduttivo, centinaia d’anni cancellati in un attimo. Comanda Destino, pensava, e si vede che i Crisippu erano destinati ad annientarsi come i loro capelli. Ma non erano i soli, che l’uomo stesso è una razza in via d’estinzione: si preoccupa degli elefanti e delle tigri, del tritone iraniano e del rinopiteco del Tonchino, ma si dimentica di essere lui sul punto di scomparire, come certe stelle che scoppiano nel momento di massimo splendore. Quanto potrà ancora sopravvivere con la Terra che si scalda, i ghiacciai che si sciolgono, gli oceani che si alzano, le foreste disboscate, i mari divenuti discariche? E poi un giorno sarebbe giunta l’ekpyrosis, la conflagrazione universale, che avrebbe fatto esplodere l’universo al termine del suo ciclo vitale, e se allora il mondo deve perire, cosa cambia una manciata di secoli? Che i Crisippu sono destinati a scomparire come tutti gli uomini, è solo questione di tempo. Così si consolava Archidemu, annacquando come ogni volta la finitudine dell’uomo nella finitezza dell’universo.

L’orologio che teneva al polso era tante cose, per Crisippu: era il monito della sua estinzione e di quella dell’universo, era l’unico oggetto rimastogli del padre, che ogni giorno gli dava la corda come per allungarne il ricordo, e poi, certe volte, era anche il criterio per valutare la propria acquiescenza. Non c’era volta in cui guardasse nello stesso tempo più orologi e tutti segnassero la stessa ora. Sempre un minuto avanti o un minuto indietro. Il fallimento del Bureau international des poids et mesures di Sèvres. Come quella mattina, di fronte a Sabbettuzza, quando il campanile della Matrice batté il mezzogiorno, al suo orologio mancava un minuto e quello sopra la farmacia segnava le dodici e uno. Questione di minuti, forse di secondi, avrebbe commentato qualcuno. Ma lui avvertiva in quella divergenza cronologica una sensazione di fallimento. L’uomo era arrivato sulla Luna, allungava le vite, clonava esistenze, e tuttavia non riusciva a far coincidere tre cazzi di orologi: questione di minuti, forse di secondi, avrebbe commentato qualcuno, ma un minuto è la vita, in un minuto possono nascere e scoppiare intere galassie, migliaia di nebulose trascorrono millenni solo per prepararsi a una conflagrazione di pochi attimi, come certi uomini che vivono una vita a volte solo per pronunciare una parola o sfiorare qualcuno per strada, giusto il tempo di farlo rallentare l’attimo necessario a evitargli di attraversare la strada quando un’auto in corsa lo avrebbe investito, giusto il tempo di decidere del suo destino allo stesso modo di una chiave che si rompe nella serratura o di un chiodo che buca la ruota di una bicicletta, che a volte lo scopo di un uomo è quello di servire al compiersi di un altro destino, di essere pietra o chiodo, ramo o polvere, la balaustra a cui si afferra la mano per evitare la caduta o la macchia d’olio che butta fuori strada, di essere nient’altro che un soprammobile, uno di quegli insignificanti oggetti sulla mensola il cui unico scopo è ricordarci l’esistenza della polvere. Milioni di anni di vita di una galassia che si concludono in un minuto di deflagrazione, migliaia di giornate e di pensieri della famiglia Crisippu che si dilegueranno nell’attimo in cui il cuore di Archidemu si fermerà per sempre. E se fosse proprio il minuto fatidico quello che venisse a mancare negli orologi degli uomini? Se l’esplosione giocasse a nascondino tra i secondi che gli orologi si mangiano tra di loro? Se proprio quel minuto, pensava Archidemu, era mancato nella sua vita? E come chiedeva scusa ogni volta che urtava qualcuno per strada, così, quando lo Zenit della famiglia Crisippu non corrispondeva a quello degli altri, come quella mattina, subito tirava il tasto dell’orologio e modificava le lancette uniformandole a quelle della farmacia o del campanile, che sicuramente era lui il congegno difettoso, suo il tempo non sincronizzato con quello dell’universo. Un minuto passato avanti, forse il minuto in cui la sua galassia sarebbe potuta esplodere.