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Breve trattato sui desideri

Dicono che siano le stelle a guidare le megaptere e dettarle le rotte. Archidemu, come spesso d’estate prima d’andare a letto, si mise sul terrazzo a guardarle col cannocchiale. Quella sera la volta celeste sarebbe stata lo spettacolo più visto, decine, centinaia, migliaia di occhi tesi verso l’universo, decine, centinaia, migliaia di cuori pronti a suggerire il loro più riposto segreto nell’illusoria aspettazione di una vita diversa. Lui, Archidemu Crisippu, appartenente al sistema solare, uno tra i miliardi di detriti che le costellazioni tralasciano lungo il loro passaggio, non avrebbe guardato il suo universo con occhi pietosi né espresso speranze segrete perché Archidemu Crisippu non credeva ai desideri: un giorno era nato, staccatosi per caso da un meteorite, un altro giorno s’era scontrato con un corpo celeste che gli aveva fatto deviare orbita frantumandolo alquanto, e un giorno sarebbe morto, ritornando a essere polvere primordiale. Che poi cos’erano i desideri se non una silenziosa dichiarazione di fallimento? Riconoscere che ciò che vogliamo non ci appartiene, che siamo altro da quello che vorremmo, che la nostra vita segue una traiettoria sbagliata. Archidemu non credeva nei desideri perché troppe volte le sue speranze erano state disattese: troppe volte aveva chiesto miracoli all’universo, miracoli alla statua di San Rocco e della Madonna, lui che non credeva a Dio si era persino prostrato ai suoi piedi, lui che ogni volta che incontrava un forestiero in paese ne studiava la fisionomia per riconoscere tratti familiari, che raccoglieva tutti gli articoli che parlavano di persone scomparse o ritrovate, di uomini e donne che avevano perso la memoria, che una volta si era spinto fino alle spiagge di Gioiosa Jonica convinto che lo smemorato che da qualche giorno si era accampato di fronte alla stazione ferroviaria e di cui aveva visto una foto sul giornale fosse Sciachineddu. Troppe volte aveva confidato invano: il fratello non lo avrebbe più abbracciato, che un buco interstiziale dell’universo lo aveva inghiottito come un minuscolo bolo, suo fratello che per incontrarlo di nuovo bisognava attendere un altro sistema solare dotato di un grado d’inclinazione diversa.

Archidemu si mise a guardare il cielo consapevole che non sarebbe stato solo, quella sera, ad assistere a quello spettacolo di morte, lo sciame meteorico che tra poco avrebbe punteggiato la volta celeste, la Terra che nel suo moto mortale intorno al Sole attraversa la scia di detriti dell’orbita d’una cometa. Le Perseidi erano i meteoroidi della costellazione di Perseo, residui della progressiva disintegrazione della cometa Swift-Tuttle. Che le parole offrono un’interpretazione della vita, pensò, che il desiderio giungeva dritto dritto dalle stelle, il de-siderum, l’assenza delle stelle, delle stelle divinatorie e profetiche in mancanza delle quali non resta che appetire qualcosa che manca. Ed era curioso che quella parola nata sotto un cielo nero riecheggiasse tra le volte celesti puntellate di stelle come uno scialle luminoso. Quella notte alcuni si sarebbero illusi, altri avrebbero sperato, che illusione e speranza dicono la stessa cosa.

Perseide 1428

Cadde sulla Terra alle ore 22.47 locali, ora ufficiale di Greenwich 21.47, del 10 agosto, punto massimo di visibilità tra la latitudine 38,9 e la longitudine 16,6.

La sua durata complessiva fu di 2,16 minuti secondi.

Primo desiderio

Malarosa la vide che era scesa a buttare il sacco della spazzatura. A queste cazze di storie delle stelle cadenti lei non ci aveva mai creduto. Quando màmmasa da guagliunèdda le diceva di alzare la testa ed esprimere un desiderio, come quando doveva soffiare le candeline della torta, lei faceva finta. Che strano, pensava, che i desideri si formulino sempre quando qualcosa finisce, quando le cose si spengono, una stella e una candelina. L’hai espresso? Lei faceva sì con la testa ma non era vero perché erano così tanti i suoi desideri che non sapeva da dove cominciare, e poi in verità non erano desideri per sé ma per gli altri, maledizioni che sperava avrebbero colpito tutte le persone che avevano più di lei. E mai una che ne andasse a segno! Scossa da un’irrefrenabile Schadenfreude, il suo desiderio era distruggere quello degli altri per sentire un po’ più normale quella vita deserta. Il primo desiderio che ricordasse, di fronte a una torta di cioccolato con sei candeline accese, fu che il bellissimo vestito di pizzo bianco di una compagna di scuola bruciasse e incenerisse. Fin quando non conobbe Salvatore, che la velocità del fidanzamento non gli permise di esprimere desideri: si lasciarono il nove agosto, il giorno prima della notte di San Lorenzo, che per l’ennesima volta un solo giorno le impedì di pronunciare un desiderio come si deve, sposare Salvatore, e così il giorno dopo si ritrovò di nuovo a desiderare il male per gli altri e chiedere alla prima stella e a tutte le stelle di quella notte che Sarvatùra restasse solo per tutta la vita e non fosse di nessun’altra. E quando mesi dopo venne a sapere del fidanzamento con Rorò, allora, da quell’anno, la maledizione fu solo una e per una persona: voglio vedere schiattare Rorò Partitaru, ladra di uomini e fortune. E fu questo il desiderio, lo stesso di ogni anno, che espresse quando alle ventidue e quarantasette, dopo aver visto la replica della centodecima puntata di Cuore selvaggio, scorse una stella cadere dalle parti di monte Covello. Che a queste cazze di storie delle stelle cadenti lei non ci aveva mai creduto però, nel dubbio, quell’anno si sentì di pronunciarlo, voglio che quella schifosa di Rorò Partitaru muoia all’istante, che non si sa mai sia l’anno buono.

Secondo desiderio

Rorò la vide mentre portava il caffè a Sarvatùra, che già si era addormentato sulla poltrona di vimini del giardino. Lo chiamò a voce bassa ma lui russò più forte, e allora appoggiò la tazzina sul tavolo di pietra e si sedette. Lei non aveva bisogno di desideri, che solo a esprimerne uno le sarebbe sembrato peccato mortale, come assettàrsi a tavola con la pancia piena mentre altri muoiono di fame anelando molliche di pane. E allora non pensò niente, guardò la stella e non pensò a niente se non alla bellezza di quella breve apparizione, che poi chissà perché le stelle s’illuminano proprio prima di cadere, come se il loro destino fosse di scontare lo splendore dell’esistenza con un prematuro spegnimento. Ne vide subito un’altra, ma non le fece lo stesso effetto di Perseide 1428, le proiettò nella testa un’ombra, come se il cielo avesse voluto offrirle una seconda possibilità e lei l’avesse respinta, un pensiero cupo, perché anche voltarsi dall’altra parte mentre qualcuno ti porge una mano può essere peccato mortale.

Terzo desiderio

Cuncettina Licatedda di Antonio e Maria Rondinelli la vide dalla finestra del bagno. Era seduta a cavalcioni sul bidet aspettando che il seme copioso di Cosimo fuoriuscisse tutto per lavarsi, quando si girò verso la volta celeste. Fu allora che espresse il suo solito desiderio: che di quel liquido che lentamente le sgocciolava sulle dita, una goccia, una sola, riuscisse a risalire le correnti del corpo per giungere nella tuba, che quella mancanza di sangue mensile fosse temporanea, che il suo corpo si fosse come preso una pausa dopo anni di fatica, e che se proprio la goccia non fosse riuscita, che almeno le ritornasse il sangue, dovizioso come na cucuddiàta estiva. Le sembrò una coincidenza significativa vedere una stella cadente nel momento stesso in cui il seme, dopo essere scoppiato nell’atmosfera uterina, cadeva vacuo sulla superficie ceramicata del bidet. E allora fece una cosa che non faceva da anni: andò vicino alla finestra, si coricò con le spalle sul pavimento e appoggiò i piedi sul davanzale, in alto, sperando così di favorire la discesa del rivolo lattiginoso nella galassia del misterioso apparato riproduttivo. E mentre stava così a guardare il cielo, pensò a quanto fosse triste esprimere ogni anno lo stesso desiderio, sempre lo stesso, come un silenzioso balzello per continuare a vivere la terra dell’illusione.

Quarto desiderio

Venanzio la vide non volendo. Disteso sul letto, nudo, col miccio che lentamente si ritirava su sé stesso come certi vermi appena toccati, guardava Costantina, in controluce sulla finestra, asciugarsi la bocca e le guance appena benedette dal suo latte santo. La guardava chiedendosi quanti uomini alla sua età potevano permettersi una cotràra così bella, con la pelle tesa e profumata, accesa dall’entusiasmo della scoperta erotica, una di quelle fanciulle di primo pelo, appena maritate, che si rivolgevano a lui una volta al mese, poco prima del ciclo mestruale, quando l’apparato riproduttivo necessitava di sapienti riassetti corporali. Non avrebbe voluto che finisse mai, anche se le gocce che dopo essersi liberato ingiallivano le mutande o lo sforzo che faceva a mingere appena sveglio la mattina indicavano il contrario. Non avrebbe voluto che finisse mai, e così, appena Costantina si spostò per prendersi la veste sulla sedia e permise a Venanzio di vedere, nella cornice della finestra, la Perseide 1428 bruciare nell’atmosfera e cedere per sempre al ciclo di distruzione dell’universo, desiderò che il suo vigore durasse intatto e che fino all’ultimo giorno della sua vita continuasse ad amare donne belle e giovani come adesso la nuora dell’assessore, che anzi, se non era ancora tardi, che a cent’anni proprio in quel momento il cuore avrebbe dovuto fermarglisi, nell’attimo esatto in cui eruttava gli ultimi detriti del suo seme nell’atmosfera uterina per farli scivolare inermi nel firmamento delle vite vissute nel nulla e dal nulla inghiottite.

Quinto desiderio

Angeliaddu e Taliana la videro insieme: ogni anno, sera del dieci agosto, si sedevano nel piccolo orto dietro la casa. Taliana se lo abbracciava e si mettevano a guardare il cielo, come al cinema. Facevano un gioco: delle varie stelle cadenti che vedevano, dovevano sceglierne una sola su cui esprimere il desiderio, senza dirlo prima, e solo alla fine, a desiderio espresso e scia luminosa scomparsa, dovevano dire fatto. Il cielo era bellissimo, quella notte, di un nitore che a fissarlo a lungo sembrava di averlo a portata di braccia. Di solito era Angeliaddu a esprimersi per primo, Taliana no, che dal fondo della sua disillusione aspettava le ultime stelle, ma quella notte, per la prima volta, dissero fatto allo stesso momento, quando la Perseide 1428 lasciò l’ultimo barlume. Il desiderio della madre fu trasportato dalle onde gravitazionali verso i pianeti di Plutone e Urano, lì dove avrebbe sussurrato agli dei degli intermundia come una preghiera di prendersi cura del figlio, che avesse una vita serena e tranquilla, che lo custodissero come cosa preziosa e lo proteggessero da uomini malvagi e malattie, che Angeliaddu, in virtù del nome più prossimo a loro che alle cose terrestri, non conoscesse gli stenti, le umiliazioni, i dolori che lei aveva provato. Fatto.

Quando màmmasa se lo abbracciò, Angeliaddu non sapeva ancora quale dei due soliti desideri avrebbe espresso, se far sparire per sempre quel maledetto ciuffo bianco oppure… era qualche giorno che ci pensava, da quando aveva visto Saverio Procopio uscire dalla gelateria mano nella mano col padre e gli venne un dolore dentro che si sarebbe messo a piangere, che lui era per sempre escluso da quell’universo in cui i padri proteggono i figli. Che ad avere un padre che ti prende per mano e che col suo corpo ti ripara dalle malignità del mondo anche il ciuffo bianco peserebbe di meno. E allora immaginando le mani che si intrecciano e gli abbracci che proteggono, Angeliaddu, un millesimo di secondo prima che la scia svanisse, pensò vorrei conoscere mio padre. Fatto.

Sesto desiderio

Lulù la vide disteso sulla branda. Si addormentava così, guardando il cielo dalla finestra. Quelle poche volte in cui per qualche urgenza avevano dovuto spostarlo in un letto che non dava su una finestra non era riuscito a dormire. Come quando era bambino che si coricava nella soffitta sotto il lucernaio. Spesso la madre se ne stava con lui quando il padre tornava ubriaco, e il bambino, tra le sue braccia, chiudeva gli occhi guardando il cielo. Fu lei a mostrargli le prime stelle cadenti, ma Lulù non lo ricordava più. La sua mente non aveva ricordi chiari, non aveva scansioni consequenziali: era come un campo di gravità senza tempo in cui pensieri quantici di tanto in tanto si illuminavano e si scontravano, e solo allora funzionava. Lulù non sapeva cos’era un desiderio, perché il desiderio è un tempo che si struttura, è un passato di rimpianti, un futuro di possibilità, un presente d’attesa. Lulù non sapeva come si pronunciava nemmeno quella parola, desiderio, non sapeva nemmeno che si articolava in una formula ipotetica vorrei che, ma lo viveva ogni giorno, il desiderio, perché ogni giorno per lui era l’attesa della madre, di quell’ologramma che ogni tanto s’illuminava nel suo universo stabile, l’attesa dell’abbraccio, della voce, del fiore donato, del volto che rivedeva in ogni Madonna. E sorrideva, Lulù, quando guardava il cielo e vi scorgeva, tra il contrappunto stellare, i lineamenti materni, sorrideva mentre il suo occhio destro cominciava a lacrimare.

Un desiderio clandestino

Caracantulu la vide mentre usciva dal bar Centrale, con in tasca i soldi che aveva appena tirato a bazzica a Pinu Sciancalàtu, uno che si giocava pure i tacchi delle scarpe. Io con te non gioco più, gli aveva detto Pinu mentre buttava con rabbia la stecca sul panno, che tu con il guanto la stecca ti scivola meglio: vinci perché hai il guanto. Mettitelo pure tu, se vuoi te ne do uno dei miei, gli rispose sarcastico, ma dentro di sé lo maledisse, che adesso quella mano maledetta era pure qualcosa da invidiare, pensò, quella mano stampata come un amuleto contro le jettattùre, come quei corni rossi che gli emigrati swizzeri facevano pendere dallo specchietto retrovisore delle loro macchinàzze. Il prurito che aveva sentito alla mano durante la partita ritornò più forte. Sollevò il guanto fino alle nocche e si grattò con forza. Sotto il lucore notturno, con le dita piegate a pugno, la mano sembrava uguale a tutte le altre, e lui un uomo normale. Non sapeva che quella era la notte delle stelle cadenti: la Perseide 1428 la vide di fronte a sé, dietro la fila delle case di San Marco, mentre cercava da dove giungesse quella luce fredda. Che senso aveva esprimere un desiderio che non si poteva realizzare? Che senso aveva dirsi sottovoce desidero che la mia mano ritorni normale quando era impossibile? Che lui era andato da uno specialista a Napoli per vedere se poteva farsi un trapianto, ma quello dopo attenti esami e studi gli disse che era impossibile, che al massimo potevano mettere delle protesi ma solo per abbellimento. Usò proprio questa parola, abbellimento, che a Caracantulu gli sembrò una presa per il culo. A che servono i desideri impossibili? Vincere soldi, incontrare qualcuno da amare, sperare che i propri figli stiano bene, questi erano desideri possibili, realizzabili anche nell’ultimo giorno di vita, perché questo li rendeva speciali, il potersi avverare in ogni momento. Ma la sua mano guarita non era un desiderio, era un sogno, cioè la possibilità di un altro passato, che è il contrario del desiderio. Che anelare ciò che non si potrà mai avere è la traiettoria che il destino universale riserva alle vite maledette.

Settimo e ultimo desiderio

Ad Archidemu la stella cadente interessava come fenomeno celeste, come compagna d’elezione, come sorella. Che lui ai miracoli non ci credeva, e quindi diffidava dei desideri che sono miracoli disattesi. La Perseide 1428 la stava cercando con gli occhi, e quando comparve la seguì nella sua breve epifania tra Schedar e Segin, e un nanosecondo prima che la sua scia scomparisse, pensò che gli sarebbe piaciuto, in qualunque parte del mondo e in qualunque tempo, incontrare e abbracciare il fratello. È solo un pensiero, si disse subito fra sé e sé per distinguersi dagli spettatori di quello spettacolo di morte, è solo un pensiero si ripeté, annegando nella consapevolezza che i pensieri equivalgono a volte a piccoli desideri senza ambizione.