Le stelle cadute la notte furono come sementi profumate, e la fragranza di rosmarino e trifoglio fresco del giorno prima scoppiò in tutto il suo nidore, che Girifalco pareva si fosse improfumata come una fìmmina al primo appuntamento. La sentirono Venanziu e Rorò quando alzarono le serrande dei negozi, Archidemu quando strappò una foglia di lattuga per Sciachiné, Lulù quando bevve la sua prima gazzosa della giornata, Angeliaddu e Mararosa quando andarono in bagno, Cuncettina quando s’alzò dopo una notte agitata. Ma il profumo inebriante che metteva di buon umore non fu l’unica cosa che giunse dalle pinete.
Alle nove e ventiquattro dell’undici agosto, da quelle strade da cui negli anni era giunto di tutto, da mandrie di cinghiali imbestialiti a fiumare d’acqua piovana, arrivò un circo. Le roulotte scesero da San Marco, arrivarono al semaforo e svoltarono a destra verso lo spiazzale del Piano, così vasto da permettere la sosta. I paesani si avvicinarono incuriositi. Dalla prima roulotte scesero due uomini, si guardarono intorno e si dissero qualcosa. Uno dei due andò e ritornò con una cartina geografica.
“Buongiorno”.
La guardia comunale Ciccio Marvarusu stava bevendo una brasilena al bar Centrale quando li vide passare e li andò dietro.
“Posso aiutarvi?”.
L’uomo con la cartina in mano si voltò: “Grazie, ne abbiamo proprio bisogno. Dove siamo?”.
Ciccio rispose sorpreso: “A Girifalco”.
I due si scambiarono uno sguardo dubbioso e cercarono quel nome strano sulla cartina.
“È qui, proprio al centro dell’istmo, la parte più stretta della penisola”, disse indicando col dito.
“Abbiamo sbagliato, e non di poco”, disse l’altro.
“Dove dovete arrivare?”.
Il volto dei due uomini si scurì. La guardia non ebbe risposta e si sentì un po’ stranito, che quelle genti con la cartina in mano sembravano essere stati catapultati lì chissà da quale epoca e luoghi remoti.
“Cosa facciamo, Cassiel?”, chiese uno dei due all’altro.
“Non lo so, a questo punto non so se faremo in tempo”.
Il sindaco guardò la scena dalla finestra del suo ufficio e quando vide parlottare Marvarusu coi forestieri scese in strada.
Il circo Engelmann non era uno di quei circhi che di tanto in tanto si fermavano in paese, carrozzoni sverniciati i cui proprietari, vestiti con tute lise e maculate, pascolavano animali dimagriti alle ossa. Quel circo invece profumava di fiori e grandi città: gli uomini e le donne che cominciavano a scendere dalle roulotte erano biondi e puliti come usciti da una pala d’altare. Anche al sindaco gli sembrò di trovarsi di fronte a un’insueta comparizione.
“Buongiorno, sono Domenico Migliaccio, il sindaco”, disse porgendo la mano.
“Buongiorno, mi chiamo Cassiel Engelmann, del circo Engelmann, e questa è la mia famiglia”, uno dei due rispose indicando i circensi che si erano raccolti a semicerchio dietro di lui.
“Non siete italiani”.
Cassiel sorrise: “Italiani, polacchi, tedeschi, ungheresi, francesi, e altro ancora”.
“Ma il cognome è tedesco”, aggiunse Ciccio.
“Tedesco, certo”.
“Come mai vi siete fermati qui?”, chiese il sindaco.
“Non si preoccupi, è solo una sosta temporanea”.
“No, non volevo cacciarvi, era per sapere”.
“Abbiamo sbagliato strada, stavamo andando a un festival ma siamo in ritardo, e a questo punto penso proprio che non arriveremo in tempo”.
Il sindaco pensò alle giostre che non erano arrivate.
“Perché non vi fermate da noi? Tra qualche giorno sarà la festa del patrono e verrà tantissima gente. So che magari siete abituati a un pubblico diverso, ma vi assicuro che vi troverete bene”.
I due si guardarono negli occhi. La proposta dovette sembrare una buona alternativa.
“Se ci lasciate qualche minuto”, disse Cassiel con un gesto gentile del braccio.
Si defilarono, e il semicerchio dei circensi si strinse ancora di più intorno alla loro guida. Cassiel con balzo felino salì in cima a un carrozzone e illustrò ai compagni la proposta di Migliaccio, e poi in maniera ordinata gli altri espressero le loro opinioni, alcuni volevano arrivare al festival, altri erano stanchi del lungo viaggio e volevano fermarsi, l’uomo che all’inizio parlottava con Cassiel e che adesso era ritornato al suo fianco disse che, anche se avessero viaggiato tutta notte e fossero arrivati al festival, avrebbero avuto bisogno di altro tempo per montare tutto, e sarebbero stati così stanchi che lo spettacolo forse ne avrebbe risentito. Commentarono in molti, e alla fine toccò a Cassiel che parlò a bassa voce, e delle cui parole il sindaco distinse solo le ultime, di solito siamo noi a decidere la strada, oggi la strada ha deciso per noi.
Il semicerchio si aprì e tutti andarono verso le roulotte come a eseguire un ordine. Cassiel rimase qualche secondo a parlare con l’uomo al suo fianco sulla roulotte e poi andò verso il sindaco.
“Restiamo”.
Il sindaco gli cercò la mano e gliela strinse.
“Bene, bene, sono contento”. Poi si rivolse alla guardia: “Ciccio, accompagnali al campo di San Marco, falli sistemare lì”.
“E se vengono le giostre?”.
“Dovevano giungere ieri, se arrivano le facciamo mettere da qualche altra parte!”.
La guardia ubbidì e andò a prendere l’auto d’ordinanza di fronte al Comune. Un paio di minuti e fu lì, col motore acceso, facendo segno di seguirlo.
Un attimo, disse Cassiel, guardò verso l’ultimo carrozzone e appena ebbe conferma alzò il braccio per abbassarlo subito dopo. A quel segnale fu come se un carillon si aprisse: sui fianchi dei carrozzoni furono srotolati lunghi drappi di velluto amaranto su cui campeggiava a caratteri dorati la scritta circo engelmann; le vetture-gabbia con dentro gli animali vennero aperte: fu fatto scendere un elefante e messo avanti a una carrozza ornata sui quattro lati da figure alate scolpite, una storica calliope rimessa a nuovo. Alcuni indossarono in un baleno una livrea rossa con mostrine, bottoni e alamari dorati con tamburi rullanti, si sistemarono davanti al primo carrozzone, subito dopo l’elefante imbardato.
“Adesso possiamo muoverci”, sentenziò Cassiel.
Ciccio Marvarusu alla guida dell’auto condusse il festoso corteggio, lento come un carro da funerale o un venditore di verichìna.
Malgrado l’ora, per strada c’era già molta gente, e altra s’affacciava dalle finestre e dai balconi richiamata dal clamore, salutando e applaudendo il passaggio del circo.
I paesani, ammucchiati sui marciapiedi come sacchi di farina al mulino, non avevano mai assistito a una simile parata, abituati ai pochi circhi che fino ad allora avevano messo le tende in quel fazzoletto di terra, tristi carovane di animali e uomini tenuti assieme dalla ristrettezza, i cui vestiti scuciti e trucchi impiastricciati suscitavano la stessa pena e commiserazione di carcasse di animali lungo i sentieri di campagna. Il circo Engelmann invece era un vero circo, e se non fossero bastati i paramenti dorati e la moderna calliope a dimostrarlo, c’era Annibale a spazzare ogni dubbio, il pachiderma grande quanto la ruspa di Micu Strumbu, che si dondolava come una nàca.
Tutto sembrava un sogno.
Dopo venti minuti il corteo giunse al campo.
La notizia del circo si diffuse con l’entusiasmo di una vittoria alla sìsula e i paesani cambiarono la meta delle loro passeggiate e sagghìvanu tutti a San Marco.
Anche il sindaco arrivò, insieme al geometra comunale Filippu Discianzu, per assistere al montaggio del tendone. Angeliaddu si arrampicò su un albero per vedere meglio.
Un uomo con indosso una livrea si mise all’entrata dello slargo e si guardò intorno con circospezione, come un cacciatore che cerca nella radura il posto dove appostarsi. Alzò il braccio a cercare silenzio, e poi urlò: “Vatì stanòs!”.
Dai carrozzoni sopravanzò un ragazzo che gli porse un picchetto e una mazza di legno. L’uomo con la livrea si mosse con passi solenni, e quando arrivò al centro della spianata, dopo essersi guardato ancora intorno come per accertarsi della giustezza dei calcoli, con pochi colpi decisi piantò nel terreno il primo picchetto.
Era il centro dello chapiteau, il punto d’origine intorno al quale sarebbe stata costruita la piccola città passeggera degli Engelmann. Quel pezzo di legno divenne come il bastoncino che raccoglie lo zucchero filato, intorno al quale andarono a collocarsi con ordine i camion e le roulotte: in fondo quelle degli operai, subito dietro ai rimorchi e alle gabbie con gli animali, poi i camion con gli attrezzi, e sui fianchi le carovane degli artisti: formavano come un ferro di cavallo, con al centro lo spazio per costruire il tendone. Dopo che i mezzi s’ebbero fermati, tutti scesero a terra, agitati e smaniosi come api che fuggono da un alveare in fiamme. Sembrava di assistere a uno dei presepi meccanici che Pepè Rosanò costruiva per il manicomio, in cui ogni pastore ripeteva sempre lo stesso movimento.
Al picchetto fu attaccata una corda lunga una trentina di metri con la quale venne tracciato il perimetro. Ognuno svolgeva il proprio compito con perizia: al centro fu portata l’antenna centrale, alzata anche grazie all’aiuto dell’elefante e tenuta in piedi da cavi d’acciaio; lungo il perimetro vennero piantate piccole antenne, poi fu un continuo maneggio di funi, pulegge, carrucole, fin quando una ventina di uomini non portarono l’enorme tendone i cui lembi vennero attaccati fra di loro e poi alla corona che sarebbe stata issata sull’antenna centrale.
Fu la parte più emozionante, per i paesani, vedere quell’informe e immenso tessuto bianco e rosso sollevarsi poco per volta, tra gli issa dei circensi, come il velo di un abito da sposa per non farlo macchiare. Mentre la tenda veniva ancorata con dei tiranti ai picchetti e vennero posizionate le prime luci, Cassiel prese un megafono e si avvicinò ai paesani assiepati lungo la rete, chiedendo ai ragazzi chi voleva aiutare in cambio di qualche biglietto d’entrata. Una mùrra di guagliunìaddi che non aspettava l’ora di farlo s’arriversò nello chapiteau. Anche Angeliaddu, che quando fu dentro si guardò in alto, meravigliato, come se si trovasse nella pancia di un grosso animale che respirava.
Con una cordicella più corta venne tracciato il perimetro della pista, intorno alla quale vennero messe le casse di legno colorate che formavano la banchetta. Mentre alle loro spalle gli operai montavano le gradinate, i ragazzi prendevano le sedie pieghevoli e le disponevano nelle prime file, e poi le ricoprivano con una fodera di velluto numerata. Un paio di donne, nel frattempo, sparpagliavano sulla pista segatura come contadine al momento della semina. L’uomo con la livrea che aveva piantato il primo picchetto, raggiunto intanto dal sindaco e dal geometra, attirò l’attenzione agitando con la mano un mazzo di biglietti: “Chi si è meritato questi?”.
I ragazzi corsero a reclamare la ricompensa alle loro fatiche.
“Piano piano”, disse sorridendo il sindaco, ma il geometra non era dello stesso umore, e quando Angeliaddu gli fu vicino gli diede uno schiaffo sulla nuca, così forte che il povero ragazzo, con due biglietti in mano, sorpreso da quell’improvviso dolore, si mise quasi a piangere.
“Calmati animale, che questa non è una giungla!”, gli disse con tono severo e sguardo sprezzante.
Angeliaddu abbassò la testa, si portò la mano sulla nuca a massaggiarsela per alleviare il dolore, e in quel modo, come un cane bastonato, se ne tornò indietro, staccandosi dai ragazzi festosi come una scialuppa slegatasi accidentalmente dalla nave.
Le forme cangianti del mondo
“Ragazzino, vieni qua!”.
Un uomo alto con i capelli biondi raccolti in una bandana gli fece segno con la mano di avvicinarsi.
Aveva visto lo schiaffo e fu come sentirselo addosso.
Angeliaddu fu mortificato, che quando gli altri non le vedono le umiliazioni pesano meno.
Lo guardò: sotto la tuta bianca s’intravedevano i muscoli portentosi delle braccia.
Batral, il trapezista del circo, gli fece di nuovo segno con la mano, e questa volta aggiunse un sorriso: “Dico a te, vieni, vieni qua!”.
U Biondu smise di toccarsi la parte dolorante, ricacciò indietro il magone che stava per sopraffarlo e si avvicinò.
“Ti va di aiutarmi?”.
Il ragazzo annuì.
“Ti ha fatto male?”, gli chiese indicandogli il collo.
Angeliaddu aveva lo sguardo di chi non è cresciuto a gentilezze. “Ci sono abituato”, disse guardando in basso.
Sentì una mano accarezzargli la testa: “Non ci si abitua mai agli schiaffi”.
Al tono paterno delle parole, il magone che poco prima aveva ricacciato indietro ritornò.
“Seguimi”.
Aprì una grande cassa nera con un groviglio di corde e cavi, che ad Angeliaddu sembrarono i vudèdda di maiali ammucchiati nella vasca prima d’essere riempiti con la carne.
“Prendi qua”, disse porgendogli un’asta metallica alle cui estremità erano legati due cavi. “Vai in fondo fin quando non te lo dico io”.
Angeliaddu stese le due corde. Seguendo le indicazioni di Batral appoggiò l’attrezzo a terra, quindi continuarono l’operazione fin quando la cassa non fu svuotata.
“Cosa sono?”.
“Trapezi”, rispose l’uomo, ma vedendo che quella parola non sortì effetto, proseguì: “Si appendono là in alto, proprio sotto il tendone, e qualche pazzo li usa per saltarci sopra”.
Sorrise, poi prese la cassa e andò via: “Vieni domani sera?”.
Il ragazzo alzò le spalle mentre Batral gli porse altri biglietti prima di uscire dallo chapiteau.
Angeliaddu si mise a fissare quel maledetto geometra che annuiva spocchioso alle parole del sindaco, e immaginava il giorno in cui sarebbe stato grande e lo avrebbe incontrato per strada e così, all’intrasàtta, gli avrebbe tirato uno schiaffo da farlo cadere a terra.
La nuca ritornò a fargli male. Aspettò ancora ma visto che Batral non arrivava più, si voltò e andò via.
Quando tornò a casa, màmmasa capì ch’era successo qualcosa.
“Al circo il geometra mi ha dato uno schiaffo”.
Non era la prima volta che Discianzu lo trattava male: tutto il paese gli mostrava indifferenza, ma quello ci andava più pesante degli altri.
“Perché ce l’ha con me?”, disse mostrandole il segno sul collo.
Màmmasa si scurì, che in momenti del genere rimpiangeva di non avere al fianco un uomo.
“Ho una cosa per te”, disse mostrandole i biglietti del circo che teneva in tasca. “Me ne ha dati otto”.
“Chi?”, domandò mentre riprese in mano i panni da stirare.
“Uno del circo, l’ho aiutato a sistemare delle corde. Ci andiamo assieme, vero mamma?”.
“Certo che ci vengo”.
“Io e te, mamma, a braccetto, come due fidanzati”.
“Sì, come due fidanzati”.
“Ci sei stata mai qualche volta a un circo?”.
“Una volta che ero più grande di te”.
“E ti era piaciuto?”.
“Sì, mi era piaciuto Angelì, ma erano altri tempi, adesso i circhi saranno più belli”.
“Sì, mamma, devi vedere quante cose ci sono. Ci andiamo domani sera?”.
“Vediamo”.
Quando tirò i biglietti dalla tasca, toccò la moneta che gli aveva dato il giorno prima Caracantulu. La prese e la mise nel barattolo insieme alle altre. Se tutto andava come doveva, alla fine di quell’estate sarebbero riusciti a comprare gli occhiali per màmmasa, che i suoi occhi consumati dal pianto e dal lavoro notturno di ricami e uncinetto cominciavano a confondere le forme del mondo. E Angelo non sopportava di vederla chiudere le palpebre per il bruciore e strizzarle per far scendere prima le lacrime. Che si sarebbe tolto i suoi occhi per darli a lei.
Del corpo e dell’anima
Dopo aver chiuso il negozio, Sarvatùra ritornò a casa che Rorò s’era già messa a cucinare.
“T’ho portato una cosa”, disse cercando nella tasca del grembiule bianco che toglieva solo quando si sedeva a cenare. Sul tavolo appoggiò alcuni biglietti colorati. “Oggi in negozio è venuto un forestiero, uno di quelli del circo, gli ho preparato dei panini e me li ha dati”.
Non era mai stata a un circo e così fu felice di quella prima volta che l’attendeva, ma mentre rimestava le patate, Rorò ebbe una sensazione strana. Le sembrò all’improvviso di essere un’altra, alle sue spalle, e di guardarsi mentre manijàva, e quella donna che era lei non le piaceva. Non avrebbe saputo spiegarlo ma era come accorgersi di vivere una vita che non le apparteneva, come quando si misurava un vestito, si guardava allo specchio e subito lo toglieva perché la ingrassava. All’intrasàtta le sembrò che il suo corpo non le appartenesse, che quell’uomo non era il marito e quella non la sua casa. I biglietti adagiati sulla tavola furono come lame che avevano scisso corpo e anima come si fa con i maiali quando vengono legati al gancio dopo essere stati spellati e dimezzati, l’anima da una parte e il corpo dall’altra. Sentì tutta in una volta addosso una stanchezza che non aveva mai provato, e per un attimo pensò di lasciare tutto e andare a letto. Ma non lo fece, e in poco tempo ogni cosa tornò al proprio posto, lei rientrò in sé stessa, e della scissione non restarono che rimasugli di disordine.
Quando era a letto, che Sarvatùra già russava, Rorò non riusciva a prendere sonno, che le tornò in testa la sensazione spaventevole di prima.
Si voltò verso il marito, ne osservò il volto a lungo, e come spesso accade in questi momenti ritornò a sembrargli un estraneo, e le parve illogico che due sconosciuti potessero trascorrere insieme quasi una vita, che alla fine sempre estranei rimanevano. Come la Luna e la Terra. Lo aveva visto in un documentario alla televisione. La Luna, a noi umani, ci mostra sempre la stessa faccia. Gira su sé stessa ma nello stesso momento sincronizza il suo moto di rotazione con il moto di rivoluzione intorno alla Terra. La Luna e la Terra hanno una rotazione sincrona perché il corpo orbitante mostra sempre la stessa faccia al corpo attorno al quale orbita. Lì per lì quella verità neanche la interessò più di tanto, la depositò in fondo alla testa come tante altre informazioni, e poi all’improvviso eccola ritornare a galla, come sedimento agitato, proprio in quel momento, quando gli parve, davanti al volto sconosciuto del marito, di trovarsi di fronte a un estraneo, come se per tutta la vita si fossero tra loro mostrati solo una piccola parte di loro, la più evidente, mentre tutto il resto restava immerso nell’ombra. Si può non conoscere qualcuno pur trascorrendo al suo fianco un’intera vita. Erano estranei, lei e suo marito, come innesti andati a male. Che poi, per dirla tutta, gli innesti vengono fatti per migliorare la pianta, per formare individui più pregiati, mentre spesso gli uomini sembrano innestarsi tra loro solo per sopravvivere, per rallentare la via della dissipazione che intraprendono per il solo fatto di esistere, ed è inutile chiedersi poi perché l’incrocio è andato a male, se colpa della stagione o del terreno, del portainnesto o della marza.
Rorò continuò a fissare il suo malinnesto e chiedersi da quale stendino fosse caduta quella manta nera che non apparteneva al suo bucato di lenzuola odorose e ricamate.