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Reliquie e manifesti

Alla presenza di don Guari Calopresa vestito del paramento dorato, del sindaco, dei presidenti della Congrega del Santissimo Rosario e del Comitato San Rocco nonché di don Antonio Ranieri, novizio assegnato pro tempore alla parrocchia girifalcese, la mattina del dodici agosto vennero solennemente esposte le reliquie di san Rocco. Non quelle autentiche e certificate che si trovavano nell’omonima chiesa veneziana, e nemmeno la porzione di tibia di Montpellier né il pezzo di rotula di Locorotondo, né i reliquati ossei di Vernazza, di Pignola, di San Giovanni La Punta. Nomi che il prete scorreva a memoria e che erano parte del grande cruccio, forse l’unico, che pesava nel cuore di don Guari Calopresa che aveva fatta sua la missione di don Ciccio Palaia di far venire almeno una volta a Girifalco una vera reliquia del santo. Ci aveva provato in tutti i modi: aveva cominciato dall’alto, scrivendo e invocando più volte il cardinale patriarca di Venezia, e poi a scendere si rivolse a Montpellier e a Locorotondo e a tutti gli altri paesi, trovando sempre un garbato ma perentorio rifiuto. Ma guttam cavam lapidet andava ripetendo, e così ogni anno, in coincidenza del mese mariano, inviava le solite lettere sperando, prima o poi, in qualche risposta positiva. Che se Venanziu si sognava di fottersi tutte assieme le tre sorelle Manziccaru e Malarosa di veder schiattare Rorò, il sogno di don Guari era di portare in processione una vera reliquia del santo patrono.

Nell’attesa, ogni mattina del dodici agosto don Guari si limitava a esporre sull’altare a latere della chiesa di San Rocco quelle che lui chiamava reliquie e che altro non erano che riproduzioni in cartapesta delle parti di un corpo, che la Fede interpretava come parti del corpo del santo dotate di taumaturgiche proprietà.

Per tutto l’anno erano stipate dentro nu casciùna nell’asilo oratoriale e venivano tirate fuori nelle due settimane a cavallo della festa patronale, meta dei quotidiani pellegrinaggi che i paesani avrebbero fatto per toccare e poggiare sulla parte dolorante del corpo il pezzo corrispondente, più efficace di una medicina o de na benedizziòna papalina.

Don Guari le dispose con cura sull’altarino: piedi e mani, petti e teste e cuori, i più logorati. Ai lati opposti i sanrocchini, mantelline verdi che riproducevano quella del santo e che i bambini si mettevano sulle spalle per proteggersi dai malanni del mondo. Filippu il sacrestano incensava il rito con lo stesso movimento altalenante del braccio con il quale in quel momento, fuori dalla chiesa, sul muro di Paola Zaccone, Carruba spennellava la colla su uno dei tanti manifesti del circo che stava seminando per le vie del paese e che, come piccoli soffi, alimentavano il fuoco di attesa e impazienza per il primo spettacolo quella sera alle diciotto. Era insonnolito, s’era arrivigghiàtu molto presto che era stato ad appendere sui muri di Squillace, Vallefiorita, Amaroni, Borgia, Cortale, Jacurso, Maida, San Floro.

I manifesti, che il sindaco si era fatti dare da Cassiel il giorno prima, non erano tutti uguali, e questo indicava che si trattava d’un circo speciale, di città. Prima di affissarli gli aveva dato un’occhiata: la scritta circo engelmann in alto era uguale per tutti, ma poi al centro campeggiavano artisti diversi coi loro nomi, e così, scrupoloso come sempre, decise di scegliere uno per uno i posti in cui li avrebbe lasciati, assecondando il suo spirito artistico che gli faceva comporre con raffinata armonia perfino i manifesti funebri.

Il manifesto che gli piaceva di più era quello di Mikaela, la contorsionista, con quella tutina aderente e bianca che le fasciava il corpo e che Carruba si sarebbe portato anche nel piccolo orto notturno dei suoi sogni nel quale coltivava e coglieva primizie di stagione. E così quelli li appese nei suoi punti preferiti: alla colonnina di San Marco, all’Annunciata, alla scindùta della Piazza. Gli altri li sparse a seconda dello stato d’animo estemporaneo: quando per esempio vide Mararosa Praganà affacciata al balcone, pensò che un po’ di cacaredda gliela avrebbe fatta prendere volentieri, e così al muro le appese il lanciatore di coltelli e la sua assistente sfiorata dalle lame affilate. Ai Chiuppi Vecchi, invece, nei pressi della casa di Angeliaddu, il groviglio aereo di fili elettrici gli suggerì il manifesto di Batral, il trapezista, che stendeva le mani nel vuoto come un angelo che si tuffa da una nuvola.

D’un profumo che gli uomini stordisce

Il circo aveva portato nel paese come una febbre, aiutato dal caldo equatoriale che sembrava voler intostare i fichi ancor prima d’essere raccolti.

Crocchi di curiosi si assiepavano intorno ai vari manifesti, e non c’era posto in cui non si parlasse di spettacoli e meraviglie. Quella mattina cominciò la vendita ufficiale dei biglietti: intorno alle nove per le strade di Girifalco giravano circensi con le divise colorate e i blocchetti dei biglietti, e per far venire la gulìa Cassiel si portò dietro l’elefante. Fu una scelta a effetto perché a vedere il pachiderma passeggiare per strada tutti si avvicinarono. Da San Marco, il Corso e la Castagnaredda, il corteggio giunse alla Piazza.

Quando don Guari uscì sul sagrato, quasi gli pigliò un colpo a pensare che quella frotta di gente si fosse lì riunita per onorare l’esposizione delle reliquie di cartapesta, ma quando vide i circensi e l’elefante che beveva alla fontana di Carlo Pacino come a un fonte battesimale, lo stupore gli s’astutò come un cero senza stoppino.

Seguì il sindaco che andò a braccia aperte incontro a Cassiel, e fu nel mentre di questo frammischiamento di sacro e profano che cominciarono a sparare i primi fuochi d’artificio della festa.

A quei botti improvvisi don Venanziu, che stava cucendo un gilet per Emilio Rosanò, uscì sulla soglia con il cuscinetto degli spilli in mano, e non fece in tempo ad alzare gli occhi verso il cielo che fu attirato dal manifesto fresco di colla affisso di fronte: attraversò la strada per guardarlo da vicino.

Aveva visto bene: era una fìmmina di nome Mikaela, stava facendo una ruota su sé stessa e la faccia d’angelo le usciva da sotto le gambe, sotto una pitteddìna che la tutina bianca e aderente lasciava intravedere.

A Venanziu gli vennero i grilli ncià la càpu, e il miccio gli s’intostò come un ramo di castagnàra, che immaginò quella contorsionista nel suo retrobottega e tutte le cose che si potevano fare con una donna a quel modo, quali strane posizioni, e una su tutte non lo lasciava in pace, quella del manifesto, così eccitante da temere che quel gonfiore esagerato potesse addirittura scusìrgli i pantaloni.

Dalla Chiàzza giunse il vociare intenso della folla.

“Che c’è d’assùtta?”, chiese a Picarazzu che scendeva a passi svelti.

“Quelli del circo vendono i biglietti. E c’è pure un elefante, ma vero, sapete, vero reale”.

Venanzio ritornò a guardare verso il manifesto. Sarebbe andato allo spettacolo che Mikaela voleva vederla da vicino. Trasì nella bottega, lasciò gli spilli, si scuatulò di dosso fili, filami e filetti e andò verso la folla chiudendo la porta alle sue spalle.

Non gli piaceva la confusione, e allora cercò di fare presto, guardandosi intorno per vedere chi e dove vendeva i biglietti. Tra la fontana e la chiesa due ragazzi in giacca rossa parlottavano con alcuni paesani. Si avvicinò a uno dei due e gli chiese un biglietto per quella serata, pagò, se lo mise in tasca e fece per ritornare alla sua potìga quando, da dietro il pachiderma, vide spuntare la donna del manifesto.

Don Venanziu rimase tìsu come la statua di marmo di Carlo Pacino, che non aveva mai visto una femmina bella a quel modo: i capelli biondi lucenti che le arrivavano al collo, gli occhi scuri e luminosi, una leggerezza di pettirosso. Indossava una gonnellina corta e una canottiera gialla che sicuramente doveva essere un body, di quelli che hanno i bottoni proprio all’altezza della pittèdda, che gli piaceva liberarli uno per uno, vedendo la fessura che si componeva centimetro dopo centimetro. Gli occhi della donna incrociarono un momento i suoi e a lui parve che gli sorridesse: abbozzò un inchino, che era il suo modo di cominciare il corteggiamento. Ma quando rialzò la testa lei si era voltata e sorrideva verso altri paesani, che forse si era solo illuso. Continuò a osservarla di spalle e il corpo gli parve ancora più bello: gli era venuta voglia di sfiorarla, con discrezione scivolò nella folla e piano piano le si fece accosto, giusto l’attimo che lei, voltandosi, gli toccasse il braccio con il suo. Il corpo di Mikaela profumava di acqua di rose, e lui inspirò per riempirsene i polmoni. Lei sorrise dell’insolito gesto: “Verrà stasera allo spettacolo?”.

Fu come se il mondo sparisse; il circo, i paesani, Girifalco, la Storia. Non vedeva niente al di là di quella donna che profumava come un fiore e parlava come avrebbe parlato un vento caldo di scirocco se spreddàsse parole umane. Sentì i suoi occhi addosso per un momento che sembrò infinito, e per non smarrire l’incanto mostrò il biglietto che teneva in mano. E alla fine ritrovò la voce, e sussurrò come se davvero fossero soli al mondo: “Non mancherei per nessuna ragione”.

Lei fece segno che non aveva capito, e allora lui rispose con un altro segno, abbassando il capo affermativamente, che con quella donna le parole sembravano superflue, e forse anche i gesti, che a volte non sono le parole a misurare la sintonia fra gli uomini ma i silenzi.

Poi il gruppo si allontanò verso il manicomio, e Venanzio restò fermo, col biglietto in mano, in dubbio se seguirla o no. Alla fine andò al bar a bersi una brasilena ma si sentìa strano, e quando tornò nella bottega e chiuse la porta di vetro dietro di sé gli parve di non essere solo, ma che nella stanza fosse entrata come una scia della donna, il suo profumo, il suo sguardo, una sensazione sconosciuta, come se Mikaela fosse lì. Guardò verso il manifesto. Sentì bisogno di muoversi, di scuatulàrsi di dosso quella cosa che nemmeno lui sapeva cosa, e allora prese la giacca, chiuse la bottega e uscì, che il gilet di Emilio Rosanò poteva aspettare.

Destini scritti con la colla

“Che cazzo ha fatto quello scemunito di Carruba?”.

Quando vide il manifesto del circo attaccato sopra il suo muro, affianco alla porta del garage dove stava andando a prendere una bottiglia di salsa, Malarosa liberò come pecore al pascolo una delle sue quotidiane cortesie verso il genere umano. Certo il muro era scalcinato e sdarrupàto, che forse a coprirlo più che bene non si faceva, ma perché quel cazzo di scilinguato proprio lì le aveva attaccato il manifesto? Che solo un manifesto poteva, ma doveva essere quello funebre che annunciava al mondo la morte di quell’infame mangiauomini di Rorò Partitaru. La prima tentazione fu di staccarlo, che ancora era umido di colla e sarebbe bastato uno strappo deciso, ma poi fu attratta dall’uomo che caricava il braccio per lanciare il coltello, che bello è bello, niente da dire, con quella mascella quadrata come Ridge, che poi a lanciare coltelli contro qualcuno, magari una donna che si ama, ce ne vuole di coraggio.

In quel momento passò Rorò che andava alla macelleria, e vederla fu per Malarosa come infilare la mano in una cesta di carciofi spinosi, e per scaricare la rabbia afferrò il lembo inferiore e lo strappò, con un colpo forte e deciso, appallottolò il manifesto e lo buttò nel cestino affianco alla porta.

“Quando lo vedo mi sente, Carruba, eccome se mi sente”, disse entrando in casa, e non si accorse così della macchia di colla rimasta sul muro, triste come tutti gli oggetti che recano i segni delle azioni trascorse, che se la mala fosse stata più attenta avrebbe visto comporsi sulle macchie casuali un manifesto ancora più chiaro di quello appena strappato, una mappa aggrovigliata sulla quale una misteriosa sibilla, con grumi di colla e pulviscolo di calcinaccio, aveva oracolato il suo imminente destino e racchiusolo in quel muro d’intonaco caduto a terra, e sbriciolatosi e diventato polvere, e polvere poi marciata e smossa dalle suole frettolose, polvere quindi sparsa per il mondo dallo scirocco torrido della marina, qualcosa che diveniva qualcos’altro nell’interminabile metamorfosi del mondo, la sua vita che tra poco sarebbe divenuta altra da quello che era sempre stata. Anche per un manifesto strappato.

Dell’umana regola dell’equilibrio

Archidemu tornò a casa scugghjunàtu perché Pinu Piraredda lo aveva fermato per l’ennesima volta a chiedergli quanto voleva per il suo terreno a Cuvìaddu: era stato mandato dal geometra Discianzu che era un anno esatto che continuava a cercarglielo per quel malaffare delle pale eoliche. Si versò latte di mandorla fresco e andò a sedersi sulla veranda dove soffiava un vento leggero. Fu da lì che vide Carruba fermarsi tra le saracinesche del marciapiede di fronte e incollare il manifesto da cui apprese che un circo s’era fermato in paese. Un equilibrista: un uomo magro, quasi allampanato, che immobile in una posizione quasi magica nella sua precarietà, stava in equilibrio su una sedia, e nello stesso tempo teneva un pallone sul collo del piede d’appoggio, due chissà come bloccati con l’altro piede, un altro sulla nuca e altre due sfere più piccole sulle punte delle dita delle mani. Il nome non riusciva a leggerlo, ma certo doveva essere un fotomontaggio che era impossibile che un uomo potesse fare quelle cose. Che se poi ci fosse riuscito, ecco, avrebbe fatto del proprio corpo il manifesto dell’umana legge dell’equilibrio per cui gli eventi del mondo si azzerano, alto e basso si annullano, destra e sinistra si sovrappongono, bene e male si annientano. Che in fondo anche lui, Archidemu, era un equilibrista della vita, impegnato ad azzerare le forze di Natura. Ma era certamente un fotomontaggio, e così, indifferente alle metamorfosi del mondo, se ne trasì.

Ciò che non serve più ma si conserva

Come se non bastasse la dissecchezza del sangue, ci si mise pure un’infausta combinazione astrale ad addolorarla ancora. Era andata a comprare il pane al forno di Mariuzza Migliazza quando sentì la fùrnara, mentre le impacchettava il filone, dire al marito che Gisella Saraceno era rimasta incinta. A Cuncettina ’a sìcca per poco non le pigliò un colpo al cuore che dovette fare uno sforzo sovrumano per prendere il filone, aprire il portafoglio e tirare fuori le monete, che pure gliene caddero alcune ntèrra, abbassarsi, raccoglierle, offrirle con mano tremolante, uscire come da un palazzo crollante, ammucciàrsi in una vinèdda nascosta, appoggiare il filone sul marmo d’una finestra, vomitare i rimasugli rimestati dal dolore, pulirsi sul braccio, tenersi la faccia tra le mani, singhiozzare, piangere, e poi riprendere il pane, stuiàrsi gli occhi, camminare, trovare la chiave di casa, aprire, buttarsi sul divano, disperarsi. Pure Gisella, pùru ìdda, la sua compagna di sventura, un’altra secca, la figlia del commerciante Saraceno che pure lei non riusciva da anni a restare incinta. Si erano sposate con un anno di differenza, e da allora nessuna delle due c’era riuscita. Che a Gisella il padre l’aveva pure mandata a una clinica in Swizzera di quelle che fanno figliare anche le pietre e i mazzicàni ma non c’era stato niente da fare. Non erano amiche, ma quando s’incontravano per strada si guardavano con una complicità da reduci di guerra. Erano le due secche del paese. Erano. Che adesso era rimasta solo lei, e proprio quando Natura decretava verdetti inesorabili di eterna aridezza. Forse era per questo che quella mattina si sentiva più osservata del solito, che avvertiva gli occhi addosso e i sussurri delle bocche pettegole ripetersi ecco che passa la scentìna, l’unica rimasta delle femmine senza vita, l’unica olivàra seccata dalla nascita ch’è bona solo per svampare, adesso solo ìdda è rimasta, la dannata. Rientrò, e come ogni volta che doveva distrarsi, si mise a sistemare freneticamente la casa cominciando dalla stanza da letto. Ordinare e riordinare era il suo modo di divagarsi, di non pensare, di normalizzarsi ai ritmi del mondo: togliere tutti i panni dai cassetti, spolverarli, lavarli, asciugarli, e riporli poi uno per uno perfettamente riallineati, pantaloni su pantaloni, gonne su gonne, maglie su maglie, che spesso riordinare il mondo intorno a noi, disporlo secondo chiarezza, ci illude che un senso ci sia, in questa vita, alla maniera della meccanica celeste che tenta di scongiurare l’angoscia degli spazi infiniti cercando la razionalità nella volta celeste. E quella mattina Cuncettina, in fondo al cassetto delle mutande e dei reggiseni, dietro a un pacchetto ancora sigillato di assorbenti, trovò il vecchio ciucciotto di caucciù. Fu strano riprenderlo in mano dopo tutti quegli anni: ritornò limpido il ricordo di quando lo raccolse davanti al cancello dell’asilo convinta che fosse un segno divino, un portafortuna celeste, che portò sempre con lei nel fondo della borsa. Non ricordava quando lo aveva messo nel mobile, stipato come le cose inutili che non servono più ma che nemmeno si vogliono buttare, come se il fondo del cassetto fosse un archivio delle possibilità da cui pescare l’oggetto giusto al momento giusto, che l’utilità delle cose e forse anche delle persone fa sempre i conti con il tempo che scorre. Non ricordava quando lo nascose al mondo e a sé stessa, ma doveva essere un giorno di sconforto estremo e disperazione. Sentì una forte avversione, e il caucciù che cominciava a diventare appiccicoso fu l’evidenza di quel fastidio. Quando sentì i polpastrelli delle dita viscosi e attaccaticci, decise di buttarlo. Non avrebbe dovuto raccoglierlo, che non era un amuleto portafortuna come aveva a lungo pensato ma un feticcio di qualche fattucchiera che le voleva male. Tutto nella vita è ambivalente, e ciò che aiuta a vivere talvolta aiuta anche a morire. A lei portò male. Andò in cucina, aprì la pattumiera ma quando stava per buttarlo qualcosa la trattenne, una paura, quasi un terrore profondo, come se aprendo le dita e facendo cadere quei sedici grammi di caucciù tra i rifiuti del mondo commettesse un sacrilegio, una bestemmia, come se si attirasse le maledizioni del mondo che non hanno mai fine. Ebbe paura di quel gesto definitivo, gli sembrava di inimicarsi Dio, e anche se era giunta a perdere ogni speranza per il suo ventre infruttifero, tuttavia nel fondo irrazionale di sé qualcosa perdurava, come un’eco, un riflesso. E così, dopo lunga esitazione, chiuse la pattumiera e immerse il ciucciotto a lavarsi dentro un bicchiere pieno d’acqua.

Manofatale

Nottetempo la manta scura era stata fatta pèzza pèzza dai sogni e aveva sbriciolato sulla testa e nei pensieri di Rorò coriandoli di filo nero che la infastidivano come una ragnatela. Si risvegliò come appaguràta, e quando trasì in cucina i biglietti del circo furono come l’interruttore della luce che le illuminarono meandri celati del cervello e s’arrammentò all’intrasàtta del sogno che aveva fatto. Li nascose in un cassetto e andò a vestirsi.

Ogni mattina andava a prendersi il caffè da màmmasa che abitava di fronte, e quel giorno ci andò prima del solito perché aveva una domanda che era come un fazzoletto premuto sul naso.

“Senti, mammà, ma quando era piccirìdda che non mi ricordo mi portasti a qualche circo che successe qualcosa?”.

La mamma versava il caffè.

“E che doveva succedere a un circo?”.

“Chi sàcciu! Ieri, quando Sarvatùra mi ha portato i biglietti, all’inizio ero contenta ma poi mi arrivò addosso una sensazione strana, mi si gelò il sangue, e poi stanotte ho fatto un sogno strano, un circo che prendeva fuoco e io mi trovavo dentro e mi sentivo soffocare dal fumo”.

Màmmasa lasciò la caffettiera, che era come se si fosse scordata di quella paura misteriosa della figlia che per tanto tempo l’aveva preoccupata.

“Ti sognasti il fuoco?”.

Rorò prese in mano la tazzina.

“Già”.

Màmmasa cercò di tranquillizzarla anche se non riuscì a mascherare del tutto la sua preoccupazione, che se ci fosse stata bonànima di Varvaruzza sarebbe corsa da lei per farsi interpretare il sogno.

Rorò uscì più grave e pensierosa di com’era entrata. Passò subito a comprare la carne e poi andò in pasticceria: la strada le sembrò meno bella del solito, e quando arrivò, dall’altra parte del marciapiede, c’era Carruba manofatale che attaccava l’ultimo manifesto della sua lunga mattinata, e quello che toccò in sorte a Rorò Partitaru fu ancora il lanciatore di coltelli. Era giusto giusto di fronte alla pasticceria, e mentre ìdda alzava la saracinesca, mentre Carruba se ne andava stanco ma leggero a bersi una birra, mentre l’odore dei dùrci le riempiva le narici, pensò che per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto trovarsi al posto di quella pòvara fìmmana del manifesto col rischio d’essere squartata come nu conìgghiu.