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Un temporale improvviso

“Passate da mìa, stasera stesso”, le disse sottovoce ma con tono perentorio Varvaruzza Marzannetta mentre ìdda s’abbrazzàva la figlia miracolosamente scampata alla furia taurina.

Gioiosa Mbarazzu non se lo fece ripetere due volte, che la voce di Varvaruzza s’ascoltava più delle campane della chiesa, e così la sera stessa andò a casa sua.

Alla vecchia non le piacevano i giri di parole: “Lo videro tutti, fìgghiata è baciata dalla fortuna. Ma certe volte la troppa fortuna è pìju della malasorte, attira su di sé magarìe, malefici, invidie”.

“Aiutatemi voi, Varvaruzza mia”.

“Ti ho fatto venire apposta, assèttati”.

Ubbidì, mentre l’altra andò a prendere un foglio di giornale ripiegato in mano.

“Apri!”.

Gioiosa si trovò tra le mani un corno rosso.

“Ascoltami bene. Questo proteggerà fìgghiata dalle mali volontà della gente invidiosa. Deve sempre tenerlo ncùaddu, sempre, e curarlo come se fosse l’ultima ostia rimasta sulla terra. È importante, che Rosaria tua è già stata sfiorata da occhi malefici”.

Gioiosa si segnò, richiuse con cura il foglio di giornale e se lo infilò nel reggipetto. Poi si alzò, appoggiò un fazzoletto sul tavolo e tirò fuori un ciondolo d’oro con le ali di un angelo.

“Per sdebitarmi”.

“Vai e ricordati chìddu che ti dissi”.

Dopo tanti anni, Gioiosa Mbarazzu ricordava quella serata come fosse stato il giorno prima. Quando la figlia le raccontò del corno scheggiato, le sembrò di trovarsi ancora in casa di Varvaruzza e di pesarne i prenunzi.

“Dici che è un brutto segno?”.

Rorò s’era risvegliata con addosso una sensazione fastidiosa e strascichi di incubi finora sconosciuti.

Appena sveglia aveva allungato la mano verso la scatoletta di metallo, che forse aveva fatto un brutto sogno.

S’era vestita di fretta per andare a confidarsi dalla madre, l’unica che poteva capire la gravità del fatto.

“Il corno ce l’hai ancora”, rispose Gioiosa cercando d’impiccolire la preoccupazione, “e questo è importante; certo, se trovi il pezzo che manca sarebbe meglio”, ma forse non ci credeva nemmeno lei.

“Si è rotto al circo, quando sono caduta e ho picchiato il fianco”, disse rivivendo attimo dopo attimo quegli avvenimenti. “Forse è là, chissà, andare a cercarlo non mi costa niente”.

Abbracciò màmmasa, che se la strinse con forza al petto, e uscì.

Giunse al campo di San Marco che le campane della Matrice avevano appena battuto le undici. Il tendone era chiuso.

Il primo che vide passare era un aiutante, Melioth. Lo chiamò.

“Scusate, ieri sera durante lo spettacolo ho perso una cosa”.

“Venite con me”, e andò verso una roulotte alla sinistra dello chapiteau.

Bussò forte alla porta. Aprì un uomo minuto, in canottiera.

“Damabiah, hai trovato qualcosa durante le pulizie?”.

Quello non disse niente, entrò e ritornò fuori con una scatola di scarpe.

“Guardate se quello che cercate si trova qui dentro”, disse Melioth allungandola a Rorò.

La donna diede un’occhiata fugace, spostò un paio d’occhiali e un portachiavi ma fu inutile.

“Quello che ho perso è molto piccolo, forse è rimasto ancora a terra”.

“Seguitemi”.

Melioth entrò nello chapiteau da un’entrata secondaria e Rorò lo seguì. Al centro della pista, un uomo stava appianando il terriccio.

“Vi ricordate dove eravate seduta?”.

La venturata guardò l’entrata principale, fece due calcoli e poi indicò il posto.

Fecero il giro senza entrare in pista. Rorò si guardò intorno.

“Sì, è proprio questa”, disse indicando la sedia su cui era seduta.

“Prego, fate pure, se mi dite cos’è posso aiutarvi anch’io”.

“Un pezzettino di ciondolo rosso”.

Si misero a cercare; il terreno era spianato e se il frammento di corno fosse stato lì lo avrebbero visto. Invece non trovarono niente.

Rorò lo ringraziò e se ne andò preoccupata, pensando in quale parte del mondo giaceva adesso il frantume della sua fortuna.

Sugli angeli la neve

Per il principio di corrispondenza, quel giorno a Girifalco sarebbe morto qualcuno ma nessuno sapeva ancora chi. Poteva essere Filodemu Arabbia o Pasquale Marcarizzu, da tempo malati, o Marastella Mpidicisa o Franca ’a Maestra, sanìzze purosangue. Un principio quantistico che ad Archidemu gli venne ncià la càpu quando passò dal tabellone dei manifesti funebri e vide che in alto a sinistra c’era uno spazio vuoto che sarebbe stato riempito entro sera. Possiamo dire quante particelle decadranno in un’ora ma non quando una di loro lo farà. E poiché d’estate, a Girifalco, ogni giorno moriva qualcuno, non bisognava fare altro che aspettare, che qualche particella umana sarebbe siccàta e crepata.

Si stava ricogghìandu alla casa, preciso come un pianeta sulla sua orbita: arrivava dal Piano rasente le case di Musconì e attraversava il marciapiede di fronte all’edicola di Roccuzzu. Ma chìdda matìna quello strafottente del geometra avìa parcheggiato il suo fuoristrada proprio lì e aveva chiuso con nastri biancorossi la strada per aprire un tombino, e così lo stoico fu costretto a spostarsi dall’altra parte del marciapiede. Visse il cambiamento come lo scontro con un meteorite, e tuttavia ogni tanto l’impatto qualcosa di buono lo fa, come quando fece girare la Terra del grado vitale, o come quella mattina che il pianeta Archidemu, attruzzàtu da una meteora in caduta, deviò di 4,7 gradi la sua traiettoria stellare, e divenne humus fecondo alla nascita di vita. E la vita fu il pezzo di carta colorato cinquantapersettanta che il giorno prima Carruba avìa appendùtu di fronte a casa sua. Buttò un’occhiata al manifesto e all’improvviso si fermò. Si avvicinò a guardarlo. Doveva per forza essere un fotomontaggio, ripensò. Fra tutti gli oggetti che quell’uomo teneva magicamente in equilibrio come pianeti sorretti dalla gravità, fu calamitato da un oggetto in particolare, uno fra tutti, una palla di vetro con la neve con all’interno la miniatura di un angelo. Il giocoliere la teneva sulla punta dell’indice destro. L’uomo restò rimìsu, che se il cuore fosse un muscolo volontario si sarebbe fermato, e di certo si fermò il sangue. L’agelasta Archidemu, l’essere che apparteneva al sistema solare e partecipava della sua indifferenza al genere umano, fu in un attimo scaraventato nel pieno dell’umana condizione di battiti accelerati, obnubilamenti mentali, raffreddamenti articolari. La sfera di vetro era là, di fronte a lui, sulla falange di un uomo sconosciuto che offriva l’asse dell’equilibrio. Guardò il volto: gli occhi neri, i capelli scuri tirati indietro, il naso vistoso, il corpo smagrito. Cercò di fissarlo nella memoria e andò a casa con la sensazione di chi s’allontana da una persona cara. Appena entrato, aprì il cassetto in cui teneva le poche cose del fratello scomparso.

La palla di vetro era lì, intatta negli anni, come il corpo d’un insetto conservato nell’ambra. Sciachineddu adorava le palle di vetro con la neve, e quella gliela aveva portata qualcuno da Roma, e il fratello la teneva sul comodino, al suo fianco, e fu proprio per la figura di quell’angelo che màmmasa gl’insegnò la preghiera dell’angelo che custodisce e governa gli uomini. La ripetevano insieme, ogni sera, prima di addormentarsi. La capovolse e la neve cominciò a scendere sui capelli e sulle ali dell’angelo, e per un attimo pensò che Sciachineddu fosse tornato, vicino a lui, e che insieme guardassero quel miracolo in miniatura, la neve che si comanda, il tempo che ubbidisce, fratello mio quanto mi sei mancato! Il fioccare cessò. Archidemu chiuse il cassetto e appoggiò la palla di vetro sulla mensola col piccolo altarino, affianco alla foto. La coincidenza col manifesto era tale che forse l’universo gli stava mandando un altro segno. Perché poteva essere un caso o anche no, che forse un grado d’inclinazione non è il risultato dell’insignificanza ma nasconde la ragione dell’universo. E un dubbio allora lo strinse, che l’uomo del manifesto che aveva collocato la sfera di vetro sulla sommità della sua mano fosse il fratello, scomparso anni prima e ritrovatosi in un circo a fare dell’equilibrio la sua regola di vita. Da quel momento il volto del manifesto e quello del fratello si sovrapposero come due negativi e cominciò a svilupparsi nella remota camera oscura di un neurone cerebrale un solo volto che conteneva in sé il passato e il presente, l’infanzia e la maturità, Sciachineddu Crisippu e Jibril.

Elogio della resurrezione

Come se non bastasse, quando entrò all’edicola di Roccuzzu a comprargli il cruciverba al marito, quasi si scontrava sulla porta con Mararosa. Lei si fece da parte ma non riuscì a evitare l’urto della femmina, che quando se la vide davanti avrebbe preferito incontrare il diavolo in persona. Rorò non aveva niente contro lei, anche se tanti anni prima le aveva tolto improvvisamente il saluto, ma non poteva non accorgersi che ogni volta Mararosa la guardava con disprezzo e mormorava qualcosa tra sé e sé: sapeva di essere odiata ma la sorprendeva che quell’astio durasse tutti quegli anni. Rorò e Malarosa, come due elettroni che all’interno dello stesso atomo non possono mai trovarsi simultaneamente nello stesso stato quantico, l’esempio umano del principio d’esclusione. S’incontrarono proprio lì, sulla soglia dell’edicola di Roccuzzu, al fianco della quale Carruba avìa appendùtu il manifesto di Nakir. Proprio lì, affianco al lanciatore di coltelli e alla sua assistente legata alla ruota, accosto all’immagine che rappresentava non solo la loro storia, ma anche quella condensata di Girifalco e dell’umanità, una storia che potrebbe scriversi semplicemente allineando da una parte i pochi lanciatori e dall’altra gli infiniti bersagli. Come adesso là, in quel metro quadrato di pavé, dove s’incrociarono la lanciatrice Rorò e l’assistente Malarosa, la povera sagoma legata alla ruota che deve sperare nella mira altrui.

“Bastarda”, mormorò tra sé appena fu sul marciapiede. Vederla la infastidiva come certi pruriti improvvisi che lo fanno apposta di pungerti nell’unico posto del corpo in cui non si arriva con le mani, il centro della schiena, sotto le scapole, che poi per il sollievo bisogna affidarsi alle mani benevoli d’un passante, agli spigoli dei muri o al primo oggetto, appuntito ma non troppo.

“Proprio a te dovevo incontrare stamattina, che già era una giornata di merda, ma mò! Mi ha pure sfiorata, quella cagna”, disse pulendosi con la mano la parte del braccio.

“Dùva vai, prima o poi le paghi tutte in una volta!”.

Dal giorno in cui seppe che il suo promesso sposo Sarvatùra s’era fidanzato in casa con la figlia di Girolamu Partitaru e Gioiosa Mbarazzu, Mararosa aveva riversato su di lei tutta la perfidia e la malignità che natura le aveva offerto in maniera copiosa. Non c’era giorno della sua vita che non la jestimmàsse, che non le augurasse le peggiori torture del mondo a quella fetùsa che le aveva arrobbàto l’uomo e faceva la signora al posto suo, che indossava gioielli d’oro e vestiti firmati, mentre lei, mentre lei…

Quando arrivò alla porta di casa non trovò la chiave nella borsa. È quella che mi porta scalogna, pensò maledicendo Rorò, anche la chiave mi ha fatto sparire. Appoggiò la busta sul marciapiede, rovesciò il contenuto della borsa sulla panchina di pietra ma la chiave non c’era. In preda alla disperazione, s’assettò sconsolata a chìddu puntùna aspettando qualcuno per farsi aiutare.

Angeliaddu aveva portato la roba stirata da màmmasa alla moglie del sindaco quando la vide che si sbracciava verso di lui e le andò incontro.

“Mi scordai le chiavi dentro, Angeliaddu, non è che sagghiarìssi dalla finestra?”.

Il ragazzo guardò verso il primo piano, si avvicinò al muro, s’arrampicò sulla cannaletta e in pochi secondi aprì il portone.

“Graziassai Angeliaddu, tè, mangiati sta preccoca”, disse porgendogli una pesca.

Tolse la spesa dalla busta ma non si mise a cucinare che le era passato l’appetito. Quando le campane suonarono l’una, Mararosa, prima di assettàrsi sul divano e sfogliare la rivista di pettegolezzi e vedersi le sue tre ore di telenovelas quotidiane, andò a addunàrsi alle piante sul balcone se doveva annaffiarle. Le sentiva sorelle, costretta a divenire autotrofa come loro per non far dipendere la sua sopravvivenza da nessuno. E fra tutte, quella che sentiva più vicina era la Selaginella lepidophylla, la rosa di Gerico, che aveva una straordinaria capacità d’adattamento, che quando non pioveva si avvolgeva su sé stessa e i ramoscelli si accartocciavano fino a formare un globulo di colore marrone. Poteva stare così per anni, in balia del vento che la sospingeva e la faceva rotolare sulla spiaggia come un cespuglio qualunque. Poteva stare così disseccata per decenni, ma poi bastava che piovesse una sola volta che ecco i ramoscelli aprirsi e ritornare a vivere riacquistando il colore verde brillante. Per questo veniva chiamata la pianta della resurrezione.

Guardò in alto: il caldo era opprimente, ma su Covello il cielo era nero, che le nubi tra poco sarebbero arrivate sul paese.

“È inutile che vi annaffio, tra poco ci penserà qualcun altro”.

Oltre l’ammasso

Caracantulu guardò verso il cielo. La prurigine alla mano non falliva mai, che tra poco sarebbe arrivato un temporale improvviso. Fu l’ennesima occasione per maledire chiunque si nascondesse dietro quell’ammasso informe di ossigeno e azoto e che lo aveva ridotto a essere né più né meno che un igrometro umano.

Come tagliare peperoni

Due ore dopo, su Girifalco s’arriversò uno di quei terribili rovesci estivi che il caldo rendeva più devastanti. In pochi minuti le strade s’inondarono e i tombini satàrunu all’aria come se Signoriddio si fosse pentito e addolorato e volesse sterminare l’uomo e il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, ogni carne in cui è alito di vita.

Rorò Partitaru non trovò grazia: stava tagliando i peperoni e le patate che avrebbe cucinato per cena quando le prime gocce cominciarono a picchiettare sul terrazzo. Dapprima non capì cos’era quel rumore, ma quando il rovescio scoppiò in tutta la sua violenza non fece in tempo a mettere via a curnàzza che il terrazzo sembrava già uno stagno. Si avvolse u foddàla sulla testa e uscì a raccogliere i fichi lasciati a intostarsi sùpa u cannizzaru prima che si rovinassero. Fece quattro salti, solo quattro, e poi scivolò su una ciabatta, rovinosamente, e batté la testa a terra con violenza. Morì così, semplicemente, come ogni piccolo atto della sua esistenza quotidiana: impastare pan di spagna, dare il resto, tagliare peperoni. Morire come lavarsi, mangiare, spogliarsi. La morte che respira al nostro fianco e che sfioriamo ogni giorno, da quando cominciamo a muovere i primi passi, e che s’adagia sugli spigoli dei gradini, tra le pieghe dei cuscini, nei frammenti di boli incompleti, sulle lame dei coltelli, nelle discese ripide, nelle curve nascoste, nell’auto che ci affianca. Perché non è la morte a essere inspiegabile ma la vita, che a volte è incomprensibile come attraversiamo la nostra rete quotidiana di buchi senza caderci dentro, come riusciamo a poggiare i piedi sull’esile filo che separa i vuoti.

Sarvatùra la trovò un paio d’ore dopo. Chiamò subito l’ambulanza: il dottor Vonella, arrivato dieci minuti prima, sentenziò che non c’era niente da fare, che Rorò ci ha lasciati.

Sarvatùra la guardò in faccia, che morì serena.

Quando la voce si sparse nel paese, rapida come il vento che si insinua negli spifferi delle serrande, nessuno ci poteva credere, che sicuramente si sbagliavano, che forse si trattava di Rorò Curciantìna, che era pure vecchia e ammalata, ma l’altra Rorò non di sicuro, la donna baciata dagli angeli, come la chiamava qualcuno non senza una sottile venatura di acrimonia.

Quando i dubbi vennero sciolti, tutti a seguire il vento della cronaca e dire che la povera Rorò era in fondo una scentìna che le sue gioie le aveva pagate tutte in una volta, e così ai paesani fu chiaro come è instabile il giudizio del mondo, come i conti si fanno solo alla fine, e ciò che appare degno di ammirazione basta un attimo che diventi nulla.

Rorò Partitaru, che non sembrava nemmeno appartenere a questa terra, morì come tutti gli altri, forse anche peggio, nel fiore di una vita felice e fortunata.

La notizia di quella morte seminò sulle teste dei paesani canìgghia di malumore, perché se la morte aveva toccato Rorò, la predestinata alla felicità, allora nessuno poteva sentirsi al riparo dagli improvvisi rovesci di Destino.

Il sistema aperiodico

Fu come se la bolla di vetro si fosse ruppùta e la neve cadesse sotto forma di pensieri appuntiti sul capo scapìddi di Archidemu. Bisognerebbe rinunciare a pensare, che il pensiero è come un dente che si muove e da cui non riesci a staccare la lingua, che continui a farlo dondolare, ogni volta di più fin quando non si sradica dalla gengiva. Il pensiero è questo tormento che giunge all’essenza delle cose, si comincia a pensare alla bolletta che non si può pagare o alla febbre inspiegabile che ha preso nostro figlio o a due palle di vetro che si assomigliano e da lì, irrimediabilmente, arrivi a chiederti il perché del mondo e della vita. Questo maledetto vizio innato e connaturato di volere a ogni costo sradicare il dente, scoprire la ragione ultima, malgrado tutti i pensieri precedenti ci abbiano insegnato che non ricaveremo altro che il nulla d’un buco incarnato. Quel vizio innato di ripensare a ciò che avrebbe potuto essere. Quante volte si chiedeva se avesse potuto tornare indietro, a quel giorno, per non staccarsi dal fratello; quante volte Malarosa avrebbe voluto rivivere per modificarla la sera della catastrofe, e Caracantulu e Taliana e l’omini e i fìmmani di Girifalco, della Calabria, del mondo, tutti avrebbero voluto avere una seconda possibilità per cambiare le loro vite. Perché accade sempre un Evento che segna le esistenze, e quasi sempre ha a che fare con un rapporto umano, reale o mancato. Non si può cancellare: la vita è allora il tentativo di edificare un’esistenza malgrado esso, la costruzione di un Non Evento che è, in ultima analisi, il ristabilirsi di un equilibrio, il risanamento della condizione iniziale. E l’Evento spesso si confronta col tempo, che la vita funziona così, prima ci sbatte la porta in faccia e solo dopo tanti anni, quando la serratura è stata cambiata, ci dà in mano la vecchia chiave per aprirla. Eppure, pensava il fisico Archidemu Crisippu di Girifalco, ultimo discendente dell’illustre progenie stoica, talvolta la vita offre una seconda possibilità e forse non ce ne accorgiamo perché questa opportunità non è la ripetizione dell’Evento ma un suo camuffamento, perché noi vorremmo ritornare a quel giorno, a quell’ora, ma là non riveniremo mai, e nell’impossibile attesa che la spirale del tempo si ritorca su sé stessa non ci accorgiamo che l’occasione ritorna nel frattempo per una via secondaria. Nell’universo i cicli ordinati ricorrono ma non si presentano mai nello stesso modo: siamo parte di un sistema aperiodico in cui le traiettorie dei fenomeni sono identiche ma non sovrapponibili, che il ritorno comporta il travestimento del tempo. Forse ogni giorno è ritorno, pensava Archidemu, forse ogni giorno a nostra insaputa possiamo modificare il corso deviato dell’esistenza. Di certo quella mattina, a Girifalco, in quel punto sperduto della mappa universale, Archidemu si trovò di fronte al ripresentarsi dell’Evento, che lo scaraventò dagli intermundia nel mezzo dell’umana e terrestre possibilità di ridisegnare una nuova traiettoria di vita.