Sei una vera puttana, Brooke Logan, che ti meriteresti di bruciare all’inferno! Se trovavi me al posto di quell’incapace di Stephanie Forrester te lo facevo vedere io come si trattano le cagne che fottono gli uomini alle altre donne! Prima il figlio, poi il marito, e poi di nuovo il figlio, con quella faccia angelica che sembri una verginella alla prima comunione e invece ammùcci le squame d’una vipera velenosa. Della stessa razza maledetta delle Partitaru sei tu, di quelle che si fottono i mariti delle altre. Ma la pagherai come lei, maledetta, le pagherai tutte in una volta.
Ogni puntata di Beautiful offriva a Malarosa il pretesto per vomitare l’annoso fiele sull’eterna rivale.
Le sue giornate e i suoi impegni ruotavano intorno alle soap opera che davano in televisione. Inviti a pranzo o cena, uscite, spese, messe, visite per comunioni o nascite, doveri, tutto insomma veniva da lei organizzato in base agli orari delle puntate. Poteva succedere qualunque cosa: una volta che si sedeva sulla poltrona posta a un metro e mezzo dalla televisione non s’alzava per nessuna ragione al mondo.
Sapeva già cosa sarebbe successo perché ogni settimana comprava i giornali con i riassunti delle puntate, ma appena sentiva la sigla si dimenticava del mondo, si fissava sullo schermo e si rosicchiava le unghie. Non ne perdeva nessuna, e più ne facevano e più ne seguiva, ma la sua preferita restava sempre Beautiful.
Dalla prima volta in cui sentì quella sigla non poté più farne a meno, soprattutto quando vide Eric, con quella fossetta sul mento che lo accomunava a Salvatore. Le giornate della sua vita potevano essere contrassegnate dai numeri delle puntate viste e quel giorno, se le avesse contate tutte, sarebbe stata la numero milleduecentocinquantaquattro.
Era una puntata importante, che Brooke non sapeva quale fratello scegliere per una fugace notte d’amore: il cuore della paesana trepidava assieme a quello della squallida attricetta, e proprio quando la tensione cresceva, a cinque minuti dalla fine, suonarono alla porta.
Malarosa lanciò una bestemmia che se solo l’avesse colpito, al malcapitato, sarebbe morto all’istante. Forse si sbagliarono, pensò, e rimase immobile di fronte ai primi piani lacrimosi di Brooke.
Poi il campanello suonò di nuovo e Malarosa rilanciò la sua bestemmia, condita, stavolta, dalla fatica di alzarsi dalla poltrona. Solo uno che non la conosceva poteva disturbarla a quell’ora e così, lentamente, con gli occhi attaccati allo schermo, si avvicinò alla finestra sulla porta, la aprì e urlò chi era, non nascondendo il suo disappunto.
“Sono io”, gridò la figlia.
“E che ci fai a quest’ora?”.
“Mi apri o no?”.
Malarosa, camminando indietro come un funambolo su una corda, col braccio allungato a cercare il muro e gli occhi fissi sulla televisione, aprì e si precipitò ad assettàrsi sulla poltrona, che Brooke stava per emettere il suo decisivo oracolo.
“Ma che c’è, mammà?”.
“Sshhh…”, e le fece segno di stare in silenzio.
La camera inquadra il volto di una Brooke ormai decisa: abbassa la testa, si guarda un’ultima volta intorno con gli occhi lucidi, la camera si stringe sulle labbra, e proprio quando sta per aprirle e sospirare il nome trascelto, e Malarosa apre la sua in una simbiosi assoluta come se fosse lei a scegliere il destino della propria vita, proprio allora Tatatatatatatàta tatatatatatatatatatà, la blasfema musichetta della sigla frantumò il sacro raccoglimento.
“Futtìtivi, bastardi, sempre così fanno!”, inveì una disillusa Malarosa che ancora una volta dovette differire la scelta. “Lo fanno apposta, cornuti, ti interrompono sul più bello. Ma che gusto c’è a lasciarmi così? Tanto domani la puntata la vedo lo stesso”.
Ormai li conosceva bene, Malarosa, i meccanismi delle telenovelas, quel loro lasciarti un attimo prima della rivelazione per annacquare all’infinito l’attesa, per far sì che il dubbio te lo porterai dentro tutto il giorno e tutta la notte, e mentre fai la spesa pensi cosa dirà? Mentre cucini pensi chi sarà il fortunato? E intanto ti distrai dalla vita e quell’attesa gonfia di pensieri e ansie il giorno dopo non solo t’incollerà alla poltrona dieci minuti prima dell’inizio, ma si scioglierà, al momento della rivelazione, con un’irruenza che assomiglia alla catarsi.
Malarosa conosceva benissimo questi mezzucci da feuilleton e tuttavia ogni volta ci rimaneva male: sperava che per una svista della sceneggiatura o un errato calcolo della durata la puntata terminasse lì dov’era giusto finisse, chiudendo il cerchio che aveva cominciato.
Ormai li conosceva bene, Malarosa, i meccanismi della vita, quel loro abbandonarti un attimo prima della conclusione per annacquare all’infinito un rimpianto doloroso, nessuno più di lei, e così a ogni finale di puntata riviveva i dolori dell’abbandono come certi santoni rivivono, nelle loro carni devote, i sanguinosi supplizi della crocifissione.
“Che ci fai qui a quest’ora? E come ti sei conciata?”, disse notando i vestiti fradici della figlia.
“Peppino doveva portare delle piante, e così ne ho approfittato per venirti a trovare. Ma forse era meglio restarmene a casa, con questa pioggia”, rispose mentre prendeva qualcosa per asciugarsi.
Malarosa alzò le spalle e andò verso il forno: “Portati queste braciole di patate che ho fatto ieri”, e le sistemò in uno strofinaccio.
“Ma hai saputo che è successo alla Piazza?”.
“No”.
“Rorò Partitaru è caduta e s’ammazzò. Come passavamo con Peppino abbiamo visto un mucchio di gente davanti alla pasticceria e…”.
Malarosa non la sentiva più.
Dalla televisione echeggiavano le ultime note della sigla finale, ma per lei erano quelle che iniziavano una nuova puntata, una puntata vera, che finalmente anche nella sua vita stava succedendo qualcosa di clamoroso, di magico, come le coincidenze che cambiano le vite degli attori e che quando le vedi in televisione pensi a me non accadrà, non succederà mai un miracolo così.
E invece Mararosa era stata graziata, come un’attrice di telenovelas che all’improvviso le accade quello che non avrebbe mai immaginato, il ritorno del primo amore dato per morto o il numero giusto della lotteria che la fa diventare ricca.
Tatatatatatatàta tatatatatatatatatatà finalmente la nuova puntata della sua vita stava cominciando, ed era una puntata di quelle speciali, che danno in prima serata e fanno milioni di spettatori, una puntata attesa tanti anni dopo che la precedente si era interrotta sul più bello.
Mararosa si sentì felice come solo una volta le era capitato, che tutto poteva all’improvviso cambiare o cancellarsi in un istante, come quando Ridge uscì dalla doccia e, come se nulla fosse accaduto, azzerò quello che era successo nelle centosessanta puntate precedenti, trasformando in fantasia ciò che avrebbe potuto essere un’altra possibile realtà.
E adesso anche lei, Malarosa da Girifalco, avrebbe potuto fare come Ridge, uscire dalla doccia e cancellare gli ultimi trent’anni della sua vita, farli diventare né più né meno che un errore di sceneggiatura, un abbaglio, il ripensamento di un destino scontento.
Toccava a lei rendere immaginazione la realtà degli ultimi anni, indossare l’accappatoio e tornare alla vita che si era interrotta sotto l’acqua, all’uscita di Salvatore da casa sua che la guarda con occhi lacrimosi e tristi.
“Ma che fai mammà, ridi?”.
Nessuno, nemmeno la figlia, sapeva del suo odio. Non capiva niente, Mararosa, e stava per buttare le braciole nella spazzatura.
“Ma che fai? Sei strana, oggi”.
La donna si fermò ma non sapeva nemmeno lei cosa stava facendo, e allora lasciò tutto sul marmo e andò a chiudersi in bagno, frastornata, che la pioggia di poco prima era come se l’avesse bagnata e finalmente la Selaginella lepidophylla ritornava alla vita e compiva il suo destino di resurrezione. In quello stesso momento, tre metri sotto di lei, sul muro affianco al garage, su una recente macchia di colla, Carruba attaccava il manifesto funebre dell’improvvisa e inspiegabile morte di Rorò.
Una pallina numerata e sorteggiata
Carruba appese per tutto il paese i manifesti funebri che si chiudevano con l’annuncio del funerale per il giorno dopo presso la chiesa Matrice alle ore sedici. Fu da uno di questi che Archidemu seppe della morte di Rorò, e Carruba fu una degna nota a piè di pagina integrando quelle fredde informazioni con dovizia di particolari.
Tutto tornava, pensò Archidemu, e non capiva come facevano gli uomini, di fronte a quelle morti così banali, a non rendersi conto della vanità dell’agire, a non tirare i remi in barca e convincersi dell’impossibilità di influire sugli eventi dell’universo, che noi siamo allo stesso modo della zanzara che schiacciamo sul braccio o del moscerino imbalsamato sul parabrezza, siamo niente e nulla.
Fino allora Rorò era una donna fortunata, lo aveva ribadito Carruba, ma cosa vuol dire essere fortunati? E a cosa serve essere fortunati per una vita quando poi basta un attimo, un’infinitesimale frazione di tempo, perché tutto si rovesci? Lui l’aveva vissuto quell’attimo maledetto, tanti anni prima, un risveglio normale, un cielo azzurro come gli altri giorni, la preparazione del pranzo e i tavoli apparecchiati come ogni domenica estiva, un sorriso scambiato con tuo fratello come centinaia di altri sorrisi e poi, in un attimo, ecco che lui scompare e quel sorriso diventa l’ultimo, che ogni giorno compiamo gesti senza sapere che forse non saranno più, che la nostra vita è cambiata per sempre, così, all’improvviso, senza darci il tempo di rendercene conto, così, senza che possiamo farci nulla, perché noi siamo nulla, la pallina numerata sorteggiata nell’urna.
Sconsolato come chi si prepara a morire, Archidemu salutò Carruba, pensando che se fosse morto in fondo in fondo non gli sarebbe dispiaciuto, che non aveva persone a cui sarebbe mancato né progetti da concludere, che i progetti li fanno gli architetti non gli uomini, pensò per consolarsi. Passò a prendere la giacca nera e poi andò verso casa di Sarvatùra Chiricu per condogliarsi della morte della moglie, che certe volte i funerali capitano al momento giusto quando c’è d’annacquare un improvviso malumore.
L’origine del mondo
Don Venanziu si alzò da tavola dopo aver pranzato con un uovo fritto. E la sedia era disposta in modo tale che quando mangiava si trovava di fronte all’origine del mondo.
Vincenzo Lamantea, pittore assai affermato, era il suo amico di sangue. S’erano cresciuti assieme alla scindùta dei Pioppi Vecchi e si spartìanu tutto, anche la mollicata di pane. Vincenzo aveva l’arte nel sangue e s’era iscritto alla scuola d’arte di Catanzaro, e così, quando tornava dal capoluogo, Venanzio lo aspettava al pullman e se ne andavano in giro. Fu durante uno di quei giri pomeridiani che scoprì da dove il mondo avesse avuto origine. Si erano assettàti sùpa i scaluni dell’Addolorata per guardare le ragazze che andavano alla maestra, quando Venanzio prese uno dei libroni di Vincenzo e lo sfogliò. E fu lì, a pagina duecentotrentuno, che si trovò di fronte a una meraviglia che lo lasciò senza respiro; una pitteddùna a tutta pagina, bella, pelosa, sucùsa, proprio come piacevano a lui, che màncu immaginava che potevano esserci quadri a quella maniera che potevano appendersi alle pareti del salotto e stare in bella vista come un vaso di fiori o un paesaggio, un sesso così eccessivo che gridava alla rivolta e alla libertà più di mille manifesti e manifestanti. Fu contento di scoprire che anche quella poteva essere arte, che per il modo in cui la venerava e adorava era un artista pure lui, un esperto di quel nido di peli che le femmine s’ammucciàvano come un peccato e che il prete interdiva ai giovani catechisti come tentazione diabolica, un esperto del triangolo epidermico che Natura evolutrice aveva prescelto per piantarvi i suoi boschi fertili e odorosi. Chiese il libro all’amico e se lo portò a casa, e la guardò tanti di quei giorni, quella foto, vi ricamò tante di quelle fantasie e immaginazioni che il suo animo fu per sempre corrotto, e quella pittèdda di ignota divenne per don Venanziu di Girifalco l’Idea, il modello al quale avrebbe in futuro paragonato le centinaia di fessure perlustrate. E dovette aspettare un anno per vedere un sesso folto in carne e ossa che le assomigliasse, quello della Quaresimara, la prima quarantenne che aveva nzapuràtu, alla metatùra di Jiaddùsi, quando dopo una mattinata di occhiate cariche di sole, sudore e desiderio, i loro corpi si frustarono arrìadi una siepe di more rosse, che a Venanziu gli sembrò peccato, mentre si rialzava i pantaloni, che la Quaresimara avesse più di vent’anni, che altrimenti l’avrebbe presa per mano e messa sul carretto di Cosimateddu per portarla in chiesa e sposarla. Aveva chiesto a Vincenzo se poteva strapparsi la pagina, e l’amico allora gli rispose che non c’era bisogno, che una copia dell’origine gliela faceva lui. E così dopo qualche settimana il regalo fu bellepronto, con le stesse dimensioni dell’originale, sottolineò l’amico, quaranteseipercinquantacinque, e Venanziu se lo portò a casa e lo mise nel fondo dell’armadio nascosto da una coperta per non farsi scoprire da màmmasa, che di fronte a quella selva plutonia sarebbe corsa a farlo esorcizzare. Il realismo del quadro lo sconvolgeva, gli sembrava di sentirne l’afrore, di ascoltarne i sussurri, che talvolta non resisteva, chiudendo gli occhi, dal non appoggiarci sopra la punta della lingua.
Un’umana agitazione
Il diluvio mortale che si divacò sull’istmo calabrese colse impreparato il circo Engelmann: la terra battuta del campo di San Marco divenne in breve nu càmpu de pilàcchi nel quale i piedi frettolosi dei circensi affondavano come in sabbie mobili: allo scrosciare dell’acqua uscirono fuori cùamu formìcoli quando si vrùscia u formicàru: le fìmmani a cogliere i panni stesi, Cassiel assieme a qualche aiutante pensò agli animali, Tzadkiel e Batral accorsero in aiuto di quanti stavano chiudendo i teli dello chapiteau. All’agitazione generale non presero parte Jibril, l’equilibrio fatto persona, la cui disciplina vietava ogni scatto, ogni gesto avventato, ogni minima accelerazione del battito vitale, e Grafathas, che guardava dal finestrino della sua roulotte quel curioso agitamento con l’indifferenza notturna dei barbagianni. Alla pioggia seguì una grandinata così forte che tutti cercarono riparo sotto il tendone, e anche lì c’era da fare che l’acqua era entrata da alcune intercapedini. Le sedie erano bagnate, la pista impantanata. Nakir e altri presero i sacchi della segatura per asciugare le pozzanghere più estese, e proprio nel momento in cui come un seminatore lanciò a terra il primo pugno di quegli scarti filamentosi, proprio nel momento in cui il primo riccio legnaceo toccò la superficie dell’acqua, proprio allora, a millequattrocentottantasei metri di distanza relativa terrestre e a quattordici milioni trecentosei chilometri di distanza assoluta dalla stella Vaktinez, la ciabatta di Rorò sfiorò il gres bagnato del terrazzo.
Come Laplace
Fu Angeliaddu che portò al circo la notizia della morte di Rorò. Approfittando della pioggia aveva aiutato màmmasa a sistemare la salsa nel ripostiglio. Uscì che aveva smesso di piovere da un quarto d’ora: Taliana gli aveva dato qualche moneta per comprarsi i dùrci ma quando il ragazzo arrivò alla pasticceria vide che c’erano fuori le sedie per la morta. Si prese allora un gelato al bar e salì verso San Marco. Batral era di fronte allo chapiteau, con i piedi infangati e un sacco in mano. Lo salutò.
“Che fai?”.
“Segatura, l’acqua è entrata dappertutto e bisogna darsi da fare”.
Entrarono e Angeliaddu provò ancora lo stupore della prima volta di trovarsi nel ventre di un grande pesce. Tutti erano indaffarati a fare qualcosa: sistemare i teloni, rifare il battuto della pista, asciugare gli attrezzi. Batral spargeva segatura tra le file delle sedie.
“È morta una donna in paese”.
“Oggi?”.
“Sì, è scivolata e ha sbattuto la testa. Aveva una pasticceria”.
“Era giovane?”.
“Sì”, disse Angeliaddu, che prendeva pugni di segatura dal sacco di Batral e li buttava a terra.
Cassiel si avvicinò proprio allora, tutto bagnato, col torso nudo, e il ragazzo fu quasi spaventato dalle cicatrici di graffiature e morsicature che gli coprivano il busto.
“Chi è morto?”.
Batral gli riportò le parole del ragazzo.
Cassiel andò a sedersi sulla sedia più vicina e cominciò a fissare un punto indefinito davanti a sé. I dubbi sullo spettacolo serale, che se mai si fosse messo in piedi non sarebbe stato all’altezza della fama del circo Engelmann, si dissiparono alla notizia di quella morte, che Cassiel credeva ai segni del cielo come Laplace alla meccanica celeste, e quel giorno nel giro di poche ore aveva avuto due segni inequivocabili, il temporale e la morte della giovane donna, che gli suggerivano che quella sera lo spettacolo era meglio non farlo, che lui e il suo circo giravano il mondo affidandosi spesso al caso e alla fortuna e per questo non poteva disattendere segni così evidenti. Che il mondo parla come un uomo, pensava Cassiel, semplicemente usa una lingua diversa che bisogna imparare a tradurre. E quel giorno il discorso era chiaro, che certe volte a capire male si rischiano pericoli. Tutti loro, domatori ed equilibristi, trapezisti e lanciatori di coltelli, un millesimo o un millimetro li dividevano dalla morte, per questo dovevano più di altri interpretare i segnali, che le sfide spesso si risolvono prima di cominciare.
C’era una leggenda, che girava sotto tutti i tendoni del mondo, per cui ogni incidente che avveniva nel circo, dal trucco che non riesce all’incendio che brucia l’intero chapiteau, era come preannunciato da un piccolo avvenimento, un indizio, un segno, un ammonimento che qualcuno non era stato capace di interpretare. Sempre. Come forse anche nella vita d’ogni giorno gli eventi importanti, nel bene o nel male, vengono precorsi da minimi accadimenti che li prefigurano. Si raccontava che la volta in cui Kolima, l’amato leone di Vassily Mostokov, mangiò il cuore del suo domatore, fu l’unico giorno in cui l’animale, in vent’anni, neanche s’avvicinò alla razione quotidiana di carne. O come accadde alla bella Mariposa Soledad, la grande acrobata del Gruss-Jeannet, morta cadendo da quindici metri, che la mattina scivolò sul tappeto del bagno, o al nano Banonghi Medoni asfissiato nell’incendio dello chapiteau dopo che il giorno prima s’era bruciato con un fiammifero.
E adesso toccava a lui, Cassiel Engelmann, decidere per sé e gli altri, e lui decise, assecondando le umane corrispondenze di Natura.
“Rasuil”, disse in direzione di un uomo che asciugava le sedie. Quegli si avvicinò. “Rasuil, va a suonare la campana”.
Si alzò e chiamò a raduno gli altri: “Tutti al centro”.
Cassiel andò in mezzo alla pista mentre si sentirono tre rintocchi metallici. Batral fu il primo a seguirlo, Angeliaddu s’assettò lì vicino. Come piccioni intorno a cùacciuli de panìculu, arrivarono tutti gli altri che si disposero in cerchio, anche Grafathas, l’ultimo a entrare coi suoi vestiti neri e asciutti.
“Questa sera lo spettacolo non si farà”, disse dopo aver chiamato il silenzio alzando un braccio. “Ci prendiamo tutti una serata di riposo”.
Ci fu un’approvazione corale. Alcuni sorrisero, altri applaudirono, solo Jibril si dimostrò indifferente a quelle parole. Grafathas era contento, per una sera non avrebbe assistito a quell’inutile messinscena.
Stava uscendo quando Cassiel lo chiamò e fece segno di avvicinarsi.
“Grafathas, è morta una giovane donna. Fatti dare i soldi, prendi dei fiori e porta le condoglianze del circo alla famiglia. Ti accompagnerà quel ragazzo”, concluse indicandogli Angeliaddu.
Quando seppero la notizia che lo spettacolo era stato sospeso in rispetto del lutto, i cirifarcùati provarono verso il circo un sentimento di simpatia e fratellanza, che chi era in dubbio se andare o no lo avrebbe fatto nelle serate seguenti anche solo per ricambiare quel gesto di umana e universale comunanza.
Di una puntura di zanzara
Prima di uscire per il paese, Cassiel voleva riposarsi. Adesso che aveva preso la decisione si sentiva più leggero perché era quasi certo che se avessero fatto lo spettacolo qualcosa di brutto sarebbe successo: Batral poteva scivolare rompendosi il collo per colpa del trapezio umido o anche lui, proprio lui, avrebbe potuto lasciare la testa tra le fauci del leone, e gli ritornò addosso la paura di ogni volta, quando sorridente infilava il capo nella bocca del felino, e pensava se adesso la chiude, se adesso anche solo per una puntura di zanzara questo animale serra la bocca la mia vita è finita, anni e anni di esistenza annullati per la puntura di una zanzara, o meglio per un temporale improvviso o la morte di una sconosciuta.
Del tentativo di evitare il vuoto
L’atarassico Archidemu, che la deflagrazione del pianeta gemello aveva relegato ai confini degli intermundia umani, quando vide l’acquazzone si mise sul letto a leggere. Prima di vedere il manifesto di Jibril e che il pensiero del fratello deflagrasse nella sua testa, era in una fase della vita nella quale si era come acquetato, anche se un dolore che viene messo da parte non si può dire abbia finito di esistere e di far soffrire, poiché è più presente nei tentativi che inanelliamo per disarmarlo, come la toppa sul gomito liso della giacca che nasconde lo strappo ma rimarca la fallibilità del tessuto.
Qualche ora più tardi uscì per andare al circo. La stampa del manifesto di fronte casa era stata rovinata dall’acqua e il volto di Jibril era un insieme di macchie. Mentre sagghìa verso il campo di San Marco, si guardava i piedi e, come accadeva quando aveva bisogno di rafforzare le proprie sicurezze, cercava di appoggiarli dentro le mattonelle del marciapiede, facendo attenzione a non calpestare le fughe. O la fuga o la piastrella. Si iniziava a giocare da bambini: c’erano quelli che appoggiavano il piede sulle piastrelle facendo attenzione a non toccare le linee, e gli altri che, al contrario, calpestavano proprio quelle. C’è il loro modo di essere uomini in questo gioco apparente, la loro futura maniera di attraversare le strade del mondo. I pessimisti scelgono la piastrella: hanno bisogno di certezze e preferiscono uno spazio ampio che possa accogliere tutta intera la loro impronta. C’è già la ricerca della strada adulta in questa loro tensione al comodo, il tassello collocato al punto giusto, l’inseguimento del sentiero già tracciato, la propensione all’agio quotidiano, alle certezze appurate, alle rotte consuete. Poi ci sono gli altri, coloro la cui vita dipende dalle linee, come se il marciapiede fosse una rete tesa su una voragine senza fondo. Camminano come equilibristi, e quando non ci sono linee tracciate le immaginano. Di solito sono i bambini che rimangono indietro, che un genitore frettoloso si volta e li invita ad allungare il passo mentre loro sono impegnati a toccare l’esile fuga, con la punta del piede come ballerine, e alla fine spazientito torna indietro e pure li strattona per un braccio, che quando sono costretti a toccare la mattonella preferirebbero uno schiaffo. Saranno ottimisti, questi bambini, cauti ma ottimisti, soppeseranno le scelte, che il piede non abbisogna dello spazio ampio ma gli basta un appiglio, sottile, delicato, invisibile, solo un appiglio.
Piastrella dopo piastrella, Archidemu giunse al campo di San Marco che sembrava una risaia: i circensi si affrettavano in ogni dove, portavano secchi, coperte, segatura. Si fermò dietro la rete. Qualche minuto dopo passò Angeliaddu: “Se aspettate per il circo è inutile, oggi non lo fanno”.
Archidemu si avvicinò accosto alla rete di recinzione del campo per vedere se riconosceva, tra quelle genti, l’uomo dell’equilibrio. Ma era una ricerca impossibile perché Jibril a quell’ora presta cenava, e proprio mentre Archidemu si appoggiava alla rete, egli con la mano destra si portava il cucchiaio alla bocca: ingoiò lentamente, quindi lo lasciò nel piatto e lo riprese per imboccarsi con la mano sinistra. Una volta la destra e l’altra la sinistra, perché Jibril tendeva a pareggiare ogni movimento del suo corpo come un bilanciere dalla cui stabilità dipendesse la sopravvivenza dell’universo.
Tornò subito a casa. C’era un silenzio profondo, non solo tra le pareti ma anche fuori, per strada. Il temporale sembrava avesse spazzato ogni forma di vita, come il meteoroide a Tunguska: il Piano era deserto, il vento non agitava le foglie dei platani, non c’erano gatti sui davanzali né rumori lontani. Nulla. Come se all’improvviso Girifalco fosse un paese fantasma alla stregua di Pentedattilo, Acerenthia o Rocca Falluca. Archidemu s’assettò sulla sdraio in balcone e chiuse gli occhi. In quell’assoluta sospensione di spazio e tempo, sentì un cigolio metallico sotto di lui. Si abbassò e vide che una molla stava uscendo dal gancio rischiando di farlo cadere. La aggiustò e tornò a sedersi. Se ci fosse stato il solito trambusto, la normale confusione, pensò, non avrebbe sentito il rumore ferroso e sarebbe caduto, non si sarebbe accorto del crepitio che annuncia l’evento perché questo si sarebbe confuso tra i frastuoni del mondo. Poteva essere un presupposto dell’armonia universale: gli eventi vengono precorsi da piccoli accadimenti che li prefigurano, e l’uomo spesso non li riconosce perché si confondono tra i mille rumori di fondo dell’universo.
Delle traiettorie delle stelle e degli uomini
Grafathas era seduto sui gradini della sua roulotte e osservava un cielo rossastro di fuochi esplosivi, come se nel loro incessante avvicendamento gli universi avessero sbagliato traiettoria e si fossero scontrati con violenza, finalmente, pensava, finalmente, che non ci aveva mai creduto a quella storia sul movimento perfetto degli astri, sulle loro infallibili parabole, sullo sfiorarsi dei destini senza mai collidere, che non ci sono incontri nella vita ma impatti frontali, ammaccature, feriti. Milioni e milioni di traiettorie, milioni e milioni di possibilità che si sfioravano, e poi, qualche volta, si urtavano pure, e nell’urto morivano, ma l’immensità non se ne accorgeva, la vastità celeste indifferente alla vampa delle collisioni.
Per fortuna lo spettacolo non c’era stato, noioso come una costellazione sempre identica, che ogni volta si trovava lì a pensare perché continuava a fare quello che non gli piaceva, a portare oggetti in scena o accompagnare spettatori ai loro posti come se non sapessero camminare. E come ogni sera, cercava di trovare nel cielo e nelle stelle una risposta, un consiglio, qualcosa che lo spingesse a prendere una decisione intravista ma mai conclusa.
Entrò dentro che da Covello soffiò un vento freddo. Quando si tolse la camicia, sentì il rumore di qualcosa che cadeva a terra.
Si abbassò: era una pietruzza rossa, forse il pezzo di un osso, che chissà com’era finito nella sua camicia. Osservò ancora per qualche secondo quel frammento di materia, poi andò alla finestra e lo buttò con forza, lontano.
Tanti anni prima, quando era famoso, nel suo circo c’era Sylarikov, l’uomo proiettile. Una sera che avevano bevuto, Grafathas gli chiese se non avesse paura, lui così piccolo, di essere sparato oltre la rete di protezione: il nano si fece serio, si avvicinò all’orecchio e gli sussurrò che sì, aveva sempre paura, ma che aveva trovato un pensiero per distrarsi: ogni movimento è la successione di piccole soste, gli avevano spiegato, la traiettoria è l’insieme dei punti fermi attraverso cui passa un punto materiale durante il suo moto, e lui durante il volo pensava in ogni istante ora sono fermo, ora sono fermo, ora sono fermo, ora sono fermo. Anche la vita funziona così, Grafathas, ti sembra di muoverti, ma non fai che accumulare con ordine giornate immobili, una dietro l’altra, e continui a ripeterti io vivo, io vivo, io vivo, per meglio predisporti all’urto finale.
Anche la parabola del pezzo di corno lanciato lontano era un insieme di punti fermi: per un attimo si confuse tra gli astri del cielo, si sovrappose alle traiettorie millenarie dei pianeti, raggiunse lo zenit della sua breve volatilità e quindi ritornò a cadere per andare a depositarsi sul selciato, accanto a tante altre decine e decine di pietruzze insignificanti, laddove l’indomani mattina sarebbe stato calpestato dagli animali e dagli uomini e sospinto sotto terra ritornando così a far parte dell’eterno ciclo di nascita e morte cui sottende ogni cosa dell’universo.