Caracantulu era emigrato a Oberstdorf, nella Doicland bavarese, una trentina d’anni prima. Aveva seguito un suo zio bastian contrario che mentre tutti i paesani si fermavano in Swizzera lui andò oltre e si fermò nella prima città che incontrò. Lì Caracantulu cominciò a lavorare in una Drucken dove forgiavano forbici e lame. Un posto pericoloso al punto che qualcuno, con una vernice scura, aveva scritto sul muro Das die Engel eure Finger beschützen, che gli angeli vi salvino le dita. Ma il suo angelo si era distratto, così un maledetto Samstag una sorte beffarda, o una stanchezza dovuta a un sonno disturbato, gli fece tirare la mano fuori dalla pressa un secondo dopo che lo stantuffo aveva cominciato a scendere, un solo secondo e sentì la sua mano maciullata da tonnellate d’acciaio. In realtà nell’immediatezza non sentì niente, non sentì le ossa sfracellarsi né i muscoli sbrandellarsi, fu qualche secondo dopo, quando scorse la mano insanguinata e le dita appoltigliate come salsicce uscite dal budello, che provò l’inumano strazio, solo allora, come se il dolore non appartenesse al sangue o alla carne ma fosse un riflesso della coscienza. Urlò e non ricordò più niente. Gli raccontarono che svenne subito, che lo portarono presto al Krankenhaus, operato d’urgenza, e che malgrado la mano sembrasse perduta i dottori fecero Wunder, miracoli, guarda, guarda tu stesso, gli diceva zziu Giuànni Trastutu, mentre indirizzava lo sguardo alla mano fasciata. Ma lui non sentiva niente. Fu dopo una ventina di giorni che riconobbe sul suo corpo le stigmate degli emigrati disattenti. Era in dormiveglia e vide l’infermiera che gli toglieva la benda per disinfettare la ferita. Gli sembrò di morire quando s’accorse cos’era successo. Gli venne da urlare ma restò in silenzio, si voltò dall’altra parte del cuscino e pianse. Caracantulu non fu più lo stesso: era uno di quegli uomini che dipendono dagli eventi del mondo, proprio come il pezzo di ferro della stamperia diventa forbice o lama a seconda dello stampo. E quella sorte beffarda forgiò un uomo diverso, che visse la sua esistenza come uno scherzo sardonico perché Natura lo dileggiò e per una strana e diabolica combinazione gli restarono solo due dita, l’indice e il mignolo, cosicché la sua mano fu per sempre lo stampo di un paio di corna che non poteva ritrarre. Soffrì a lungo, in quei giorni, quel disgraziato di Caracantulu, e se mi vuoi cornuto, si disse dopo i mesi di depressione che seguirono all’incidente, sarò cornuto, ma non solo per me. Cacciò dalla sua vita lo zio che lo aveva condotto in quel luogo maledetto, sputò dal finestrino della corriera sull’ultima pietra di quel paese, e cominciò a odiare tutto ciò che sapeva di teutonico. Ritornò a Girifalco con una pensione d’invalidità: vendette due delle tre case ereditate da màmmasa e ammunzeddò na muntagnèdda de dinàri che poteva anche essere una piccola ricchezza. E così, senza penzìari per la testa, poteva sguinzagliare liberamente la propria cattiveria. Cornùtu lo fu davvero, ma ingegnoso, non c’è che dire, che il suo difetto fisico al paese non venne mai a conoscerlo nessuno. Prima di sputare sul maledetto suolo germanico, quando per molti giorni pensò che al suo paese in quel modo non si sarebbe mai presentato, andò alla Haus Des Handschuhs in Leibnizstrasse e si fece costruire su misura una decina di guanti sinistri speciali nei quali, nelle insaccature in cui avrebbero dovuto prendere posto le tre dita mancanti, fece mettere un’imbottitura rigida che avesse al tatto la stessa consistenza delle falangi. Così, con i guanti che indossava tutti i giorni dell’anno, leggeri in estate e pesanti in inverno, tornò a Girifalco e poteva dire a tutti che la mano se la copriva perché se l’era bruciata e un’infezione sarebbe stata fatale. Vestito sempre di nero per mostrare al mondo il lutto, l’odio gli aveva modellato sul volto un’espressione che spaventava, che i bambini, quando lo vedevano avvicinare, scappavano come se avessero incontrato l’orco delle faràfole.
Optical lectures
Era un paio di giorni che Cosimo al suo rientro la trovava scura come una giornata d’inverno, che gli rispondeva a fatica e gli dava le spalle.
“Tutt’a posto?”, aveva provato a chiederle, ma il tono di quel sì ricevuto in risposta confermava i dubbi.
Era successo di nuovo ma non c’era più abituato: nell’apparente normalità degli ultimi anni si era illuso che fossero passati i momenti in cui la madre mancata, sopraffatta dal rimpianto della maternità, passava a letto intere giornate, non accendeva mai le luci, rispondeva a ogni sua domanda con pianti e lamenti. Non c’era più abituato né sapeva come comportarsi, e allora da qualche tempo a mezzogiorno nemmeno tornava per pranzo e s’accontentava di un panino assieme ai discìpuli spensierati.
Quella mattina nemmeno l’aveva svegliata prima di alzarsi, e mentre usciva in silenzio lo sguardo gli cadde sulla statuina di san Rocco appojàta sull’entratina, e le chiese Santu Ruaccu mio fa che stasera quando torno la trovo normale, che quasi sempre è la normalità ciò che chiediamo nelle nostre preghiere.
Quando mise il piede a terra, il mancato saluto di Cosimo la fece sentire ancora più sola. Sapeva la sofferenza che gli procurava, ma non era ancora pronta a parlargli. La casa le sembrò più spoglia e triste del solito mentre lo scirocco caldo che entrava dal balcone e muoveva le tende invitava a uscire. Bevve un bicchiere di latte freddo, prese la bottiglia di vetro vuota e si diresse al Vuttandìari.
Pensò che con quel caldo non ci sarebbe stato nessuno, e invece da lontano vide un uomo che beveva. Arrivò e salutò con un buongiorno, com’era abitudine tra sconosciuti alle fontane, come se la sete e i luoghi antichi rendessero familiari le genti.
Il forestiero rispose. Era bello: indossava un paio di pantaloni molto aderenti con una riga rossa laterale e una canottiera nera che mostrava la pelle bianca e alabastrata che a Cuncettina pareva una statua di marmo.
La femmina guardò le gocce d’acqua che dalla bocca scendevano sul collo muscoloso, quindi abbassò gli occhi.
“Fa sempre così caldo qui?”.
Una voce così delicata non l’aveva mai sentita uscire dalla bocca d’un uomo, e questo la spinse a rispondere laddove, in altre situazioni, si sarebbe arrotolata su sé stessa come un bruco.
“Che volete, siamo ad agosto, se non fa caldo adesso”.
“Soffiasse almeno un po’ di vento”.
D’incanto giunse sulla piazzetta una ventata fresca che ristorò per un attimo le pelli sudate.
“Ve lo siete chiamato”.
“Sono bravo per queste cose”.
“A chiamarvi il vento?”.
L’uomo sorrise, e le sembrò ancora più bello.
“Quasi”.
Cuncettina un po’ si sentì pigghiàta in giro.
“Ma da dove venite?”.
“Scusatemi, non mi sono ancora presentato. Tzadkiel Engelmann, per servirla”, e fece un breve inchino.
Il nome non le diceva niente e allora fece un’espressione interrogativa.
“Sono del circo”, si affrettò ad aggiungere l’uomo.
“Ah, ecco. E che fate?”.
“E voi che fate alla fontana?”.
“Sono venuta a prendere…”, ma non finì la frase che alzando la mano, al posto della bottiglia vide un mazzo di fiori gialli. Guardò l’uomo terrorizzata, e in un attimo di confusione non capì niente. Aprì la mano e il mazzo di fiori cadde a terra.
“Attenta, così la bottiglia si può rompere”.
L’uomo si piegò e raccolse il mazzo di fiori, ma quando lo porse a Cuncettina era ritornata la bottiglia di vetro vuota.
“Ma che avete combinato, siete un diavolo?”.
Tzadkiel sorrise: “Non preoccupatevi, è il mio mestiere di far vedere le cose diverse da quelle che sono”.
“Fate il mago allora”.
“Una specie, illusionista”.
“E che differenza fa? Sempre magie fate”.
Cuncettina guardò bene la bottiglia per accertarsi che era integra, si avvicinò alla bocca della fontana e cominciò a riempirla.
“Le magie cambiano le cose, io no, faccio solo vedere le cose diverse da quelle che sono”.
“E questa non è magia? Trasformare una bottiglia in un mazzo di fiori non è magia?”.
“Siete voi che avete visto i fiori, la bottiglia è sempre rimasta bottiglia”.
“Vi prendete gioco di me”.
“Gli occhi ingannano, a volte vedono quello che vogliono vedere”.
“Se lo dite voi”, disse Cuncettina mentre stava per andarsene.
“Sarebbe un utile esercizio guardare le cose di ogni giorno da un punto di vista diverso. Ma che fate, andate via senza riempire la bottiglia?”.
La femmina stava per rispondergli che l’aveva riempita, ma la bottiglia era vuota. Eppure era sicura di averlo fatto.
“È un altro dei vostri scherzi?”, aggiunse scocciata ritornando alla fontana.
“Forse vi ho distratta”.
Cuncettina ritornò a riempire la bottiglia facendo attenzione che l’acqua cadesse dentro il vetro.
“Vi piace il circo?”.
Infilò un dito nel collo della bottiglia, lo tirò fuori bagnato e lo mostrò all’uomo. “Così siamo sicuri che questa volta l’ho riempita”. E poi, a rispondere alla domanda rimasta sospesa: “Ci sono stata una volta, tanti anni fa”.
Tzadkiel prese dalla tasca di dietro dei pantaloni un blocchetto di biglietti: “Vostro marito vi accompagnerebbe?”.
“Senza di lui non vado da nessuna parte”.
“Allora ecco due biglietti, così vedrete quello che faccio”.
“Ma veramente…”.
“Prendete, mi fa piacere”.
Cuncettina allungò la mano.
“Grazie, non dovevate disturbarvi”.
Un applauso mancato
Anche la lingua tirava fuori, prima di scomparire dietro il tendone, ma non tutta, solo la punta, come un saluto. Avanzava con passo dinoccolato verso la bambina in prima fila, illuminato dall’occhio di bue, si fermava, si chinava togliendosi il cilindro rigato, v’infilava la mano e tirava fuori un fiore di plastica appassito: assumeva un’espressione triste, lo allungava verso di lei e le faceva segno di prenderlo in mano: la bambina, invitata anche dalla madre, allungava il braccino e afferrava il fiore che all’improvviso si drizzava su sé stesso. La bimba prima era incredula, poi sorrideva e anche il clown, guardava verso il pubblico e batteva le mani per la gioia. A quel punto si faceva restituire il fiore ma appena lo prendeva in mano, si afflosciava su sé stesso e lui s’intristiva. E andava avanti così, fin quando alla fine il clown rinunciò e nascose il fiore nel cilindro che mise in testa, ma prima di allontanarsi tirò fuori dalla tasca un fiore vero e glielo regalò alla bambina. Lulù fu come se avesse assistito a un miracolo, che chissà perché tra tutti gli spettacoli di quella sera, dal domatore di leoni ai trapezisti, dal lanciatore di coltelli allo straordinario equilibrista, proprio quello gli restò impresso fino al punto da portarselo nel sogno e pensarci nelle giornate successive, che chissà perché un profumo ci resta più impresso di un altro, un volto, una scena, un dolore, c’è sempre un particolare che più di altri non si fa dimenticare, che poi perché ci deve essere sempre un motivo a tutto, perché questa mania di spiegarci le cose, di collocare gli eventi in una sequenza, i frammenti in un ordine?
A Lulù quell’immagine gli si stampò in mente, e il giorno dopo, passando dal cespuglio di Ndolorata Rasò, non resistette e strappò un fiore. Andò ad assettàrsi alla fermata dell’autobus che forse quel giorno mamma sua sarebbe arrivata, ma invece della corriera dalla Piazza vide venirgli incontro Rina Spricchiara con la fìgghia Marialovigia. A Lulù, col fiore in mano come il clown, gli sembrava di essere al centro di un tendone e gli venne naturale chinarsi verso la bambina e porgerglielo. Ma invece dell’applauso giunse lo sguardo sguincioso della madre, lo schiaffo con cui buttò il fiore a terra, le parole con cui rabbonì il folle di non permettersi di avvicinarsi mai più alla figlia. Lulù restò impalato, che non si capacitava del mancato applauso.
Andò in chiesa, s’assettò all’ultima panca e come spesso accadeva in quei momenti in cui la gravità del suo corpo sembrava trovare forze opposte e respingenti, come se egli non fosse che un detrito meteorico in balia delle variabili perturbazioni cosmiche, si sorreggeva aggrappandosi alla magica costellazione di parole che la voce di màmmasa gli soffiava nella testa, scompigliate come fogli ricomposti disordinatamente: Angelo del Signore, per la tua pietà proteggi me custode celeste.
Prodromi di un talento
Si svegliò presto, che tutta notte aveva sognato trapezisti volanti. Salutò màmmasa e andò di filato al terreno che Varvaruzza gli aveva lasciato ai Ponticèdda con l’idea di costruirsi un trapezio. La buonanima conservava tutto e non fu difficile trovare due corde adatte. Le legò al manico di una scopa, si caricò sulle spalle la scala in legno e andò alla ricerca d’un ramo robusto. Sistemò il trapezio rudimentale a un’altezza tale che poteva afferrarlo e cominciò a oscillare. Gli piacque la sensazione di staccarsi da terra e trascorse così, tra oscillazioni e prese e scatti, almeno un’ora, fin quando le braccia e le dita cominciarono a scioppijàrli. Lasciò tutto come si trovava e andò verso il circo. Batral si stava allenando nel tendone. Angeliaddu s’assettò a nu càntu senza farsi vedere e si riempì gli occhi e il cuore di quello spettacolo tutto per lui. Erano solo in due, Batral sul trapezio, con un fazzoletto verde intorno ai capelli, e un uomo vestito di nero che sulla pedana teneva in mano un altro trapezio. Angeliaddu guardava con attenzione e cercava di fissare nella mente i movimenti di Batral, gli esercizi che faceva prima di afferrare il trapezio, i gradi dei piegamenti delle braccia e delle gambe, il modo in cui prendeva la rincorsa. Alla fine l’artista si lasciò cadere sulla rete, mentre l’altro scese lentamente dalla scaletta. Angeliaddu si alzò per andargli incontro.
“Cosa te n’è sembrato?”, chiese Batral all’uomo.
“La spinta iniziale, è la spinta che ti manca. Devi andare più in alto e piegare di più gli addominali. È tutta questione di addominali, e i tuoi sono troppo molli”.
Usò un tono duro, di rimprovero.
Angeliaddu era a un metro.
“Che ci fai qui, ragazzino?”, tuonò l’uomo in nero.
Angeliaddu riconobbe in lui l’assistente che la prima sera dello spettacolo aveva accompagnato Rorò al centro del palcoscenico.
“Lascia stare, è per me”, rispose Batral.
Quello si voltò indispettito e andò via. Zoppicava.
“Ti alleni tutti i giorni?”.
“Fa parte del lavoro, anzi, è la parte più importante”.
“Quanti anni avevi quando hai cominciato?”.
“Grossomodo la tua età. Mio padre lavorava nel circo”.
“Allora faccio in tempo anche io. Sono bravo ad arrampicarmi”.
“Hai intenzione di fare il trapezista da grande?”.
Angeliaddu abbassò gli occhi: “Io non ho mai saputo cosa voglio fare, in verità io non so proprio niente. Però l’altra sera, quando ti ho visto lì sopra, è come se fosse successo qualcosa, come una luce”.
Batral sorrise: “Una luce ci vuole sempre, se non altro per vedere dove mettiamo i piedi”.
Poi chissà perché Angeliaddu gli venne in mente la risposta di prima: “Tuo padre è qui con te?”.
Batral lo guardò dritto negli occhi, e al ragazzo gli sembrò che forse non sapeva cosa rispondere: “In un certo senso sì”.
Quando più tardi si lasciarono, Batral andò nella sua roulotte e Angeliaddu verso casa, col pensiero fisso che forse anche lui era destinato a fare quel mestiere, che forse bisogna non avere un padre per lanciarsi nel vuoto e assomigliare a un uccello.
Un fiore donato, alla fine
Quando le campane suonarono mezzogiorno, Lulù uscì dalla chiesa e si diresse verso il manicomio col passo dondolante che gli era proprio ma che lui faceva assomigliare a quello del clown. Quando fu alla discesa della Piazza, gli arrivò, sul pollice del piede destro che stava fissando, una palla che cilàva dalla traversa di Carlo Pacino. La raccolse, con la lentezza che caratterizzava i suoi movimenti. Mariagraziella Ranìa gli veniva incontro guardando la palla. Quando gli fu vicino, il pazzo gliela porse. La bambina lo ringraziò con un sorriso. A Lulù gli sembrò di trovarsi di nuovo nella scena del circo, di avere i piedi nella segatura, gli occhi degli spettatori addosso, il faro di luce puntato, un naso rosso di plastica e un buffo cilindro in testa, e allora prese il fiore sgualcito che conservava in tasca e lo porse a Mariagraziella. La bambina, che sembrava quella dello spettacolo, con i capelli neri e le trecce, seguì il copione: allungò la mano, afferrò il fiore e scappò da dove era venuta. Lulù la guardò salire, con la sua gonna corta e svolazzante che sembrava una farfalla, e gli sembrò di sentire gli applausi scroscianti del pubblico, e allora si chinò, a raccoglierli con umiltà, e nel chinarsi baciò l’immaginetta della Madonna spillata sulla maglietta. Il rumore di un’imposta che si chiudeva lo riportò alla realtà. Caracantulu non riuscì a trattenere una smorfia di piacevole disprezzo.
Principi dell’equivalenza umana
Mezz’ora prima del funerale, quando le campane della chiesa di San Rocco suonarono le tre e mezza, la casa di Sarvatùra era già piena di gente come nu buccàcciu de melangiàni. Quando c’era da chiudere la morta non ci fu verso di allontanare Girolamu e Gioiosa, i genitori di Rorò, che vollero rimanere lì, in un angolino, come pezze sciancàte e jettàte, e l’urlo di màmmasa quando la bara fu chiusa tagliò in due il silenzio del paese e i cuori di chi lo sentì. Perfino quello di Malarosa graffiò, ma poco. Non sapeva se presentarsi al funerale, ma voleva vedere cosa avrebbe fatto Sarvatùra, se cioè l’avrebbe pianta come moglie amata o no. E poi che c’era di male? Nùddu sapìa del suo odio, non solo perché non ne aveva parlato con nessuno, ma il suo disprezzo per l’intero genere umano era tale che tutti si sentivano ribollire nello stesso calderone. E neanche Sarvatùra sapeva: certo, poteva immaginarlo, che quelle rare volte in cui lo incontrava per strada a braccetto con la moglie non poteva non accorgersi di lei che cambiava marciapiede o s’infilava in qualche negozio, ma al massimo poteva pensare a una lieve antipatia, non di certo alle sacche d’odio mortale che Malarosa aveva riempito in tutti quegli anni. Si sarebbe altrimenti spaventato se avesse saputo che ogni giorno della sua vita Mararosa aveva pronunciato un malaugurio di morte, che il suo tedeum quotidiano era la maledizione di Rorò Partitaru, che fino a Catanzaro era andata, da una maga di passaggio, perché le preparasse una magarìa come si meritava, una di quelle che colpiscono al cuore e lo fermano, avete capito bene, dovete farla morire quella cagna. E certo quella malìa e tutte le quotidiane maledizioni aiutarono la caduta di Rorò, e soprattutto un cielo clemente e benevolo. Che poi, se l’era pure risa, come si fa a morire scivolando sul proprio terrazzo, bisogna essere proprio stupide, oppure, oppure, pensava mentre tirava fuori dalla cassa il vestito bello, oppure essere divenuti fastidiosi e antipatici a qualche dio, che dove gli dei danno gli dei tolgono, e a lei aveva dato troppo. Di quella giovane vita rifranta non gliene fotteva una beata minchia che anche la sua era stata spezzata da quella caciddùna, tanti anni prima, solo che era stata una morte silenziosa e al suo funerale nessuno era venuto come ora, che lei aveva dovuto piangersi da sola, lei era stata la morta e la parente della morta, sua era la mano esanime e sua la mano che l’afferrava per trattenerla a sé. Lei morì nel suo cuore il giorno maledetto in cui Rorò cominciò a vivere, e mò che lei era morta davvero, Mararosa riprendeva a respirare, come se fossero due facce della stessa medaglia o testa o croce, figure contigue le cui vicende dell’una segnavano il destino dell’altra, impossibilitate a essere nello stesso momento, che ci sono vari modi attraverso cui le genti possono essere legate fra di loro, e non solo col sangue, che forse al mondo il numero esatto delle persone viventi è un numero pari in cui ogni destino ha il suo rovescio. Come i fiori nel vaso devono il loro profumo all’acqua nauseabonda in cui sono infilati i gambi: quando i fiori profumeranno l’acqua puzzerà di stantio, quando i fiori marciranno e saranno buttati, l’acqua ritornerà a essere sé stessa nel suo infinito ciclo riproduttivo. Forse c’è un principio di equivalenza umana che funziona in questo modo e stabilisce che per ogni felicità umana c’è una corrispettiva infelicità che ha lo stesso peso sulla bilancia del mondo. Ci aveva pensato a lungo se andare al funerale, ma non avrebbe rinunciato per nulla al mondo ad assistere al suo piccolo trionfo. Solo quando si avvicinò a Sarvatùra per condogliarsi, quando si trovò l’uomo della sua vita così vicino che avrebbe potuto anche baciarlo, solo allora ebbe un breve ripensamento, una sensazione di estraneità, ma durò un attimo, gli strinse la mano e andò via senza nemmeno degnare di uno sguardo il corpo esanime di Rorò nella bara, che non sarebbe riuscita a controllare un ghigno di soddisfazione. E un pensiero ebbe, prima di andare ad assettàrsi nella cucina dove stavano le femmine, che quando quella casa sarebbe stata sua, quel terribile vaso Capodimonte al centro del tavolo con dentro i fiori lo avrebbe spostato in giardino.
L’angelo della morte
Come un angelo della morte, Lulù non si allontanava mai dal defunto. Non l’angelo crudele che falcia le vite ma lo psicopompo dei cimiteri che veglia e si accuccia accanto al deceduto per aiutarlo a oltrepassare la soglia dei mondi invisibili e paralleli. Lo faceva nel manicomio, quando i suoi folli compagni di sventura morivano: lavava il corpo, lo incipriava, lo vestiva, allontanava le mosche e lo accompagnava al piccolo cimitero interno, ricevendo in cambio una mancia dai parenti. Lo faceva anche per i morti del paese: quando sentìa u mortùaru, si dirigeva a casa del defunto con la sua camminata dondolante e strascicata, dava le condoglianze ai familiari e si sistemava lì, in un angolo, discreto come un granello di polvere, pronto a spostare qualche sedia, fare piccole ambasciate di rito, aiutare a sistemare le corone e i cuscinetti di fiori.
All’arrivo del corteo funebre, Venanziu, come tutti i negozi e i bar e le potìghe del paese, abbassò la saracinesca a metà in segno di cordoglio. Passata la gente uscì fuori per rialzarla, ma un improvviso vento caldo soffiò sul suo volto, forte e breve, un vento diverso dagli altri, che non portano solo aria e depressione ciclonica ma anche semi e speranze.
La saracinesca della pasticceria della buonanima di Rorò non c’era bisogno che qualcuno l’abbassasse, che ci aveva già pensato Destino. Archidemu passò di là per tornare a casa dopo il funerale e si soffermò sul manifesto del lanciatore di coltelli e della povera disgraziata, legata a una ruota, che affidava la propria sopravvivenza al malcerto sorteggio del caos. Che tutti siamo in fondo legati a una ruota che gira su sé stessa, aspettando che nulla succeda, che gli eventi ci sfiorino e non ci colpiscano, che noi, tutti noi, un bersaglio lo siamo sempre. In questo momento, per esempio, io sono già un bersaglio per decine e centinaia di lanciatori, una sagoma che attraversa migliaia di traiettorie, un profilo su una ruota che gira. Si guardò intorno. Quanti bersagli sotto i suoi occhi, in quel piccolo angolo d’universo! Bersagli seduti sulle panchine, fermi sui marciapiedi a parlare, appoggiati al muro con le braccia dietro la schiena. E le traiettorie dei lanci che li sfioravano: le auto che sfrecciavano per strada, il vaso di gerani sulla finestra di cummàra Rosaruzza lasciato sporgente che sarebbe potuto cadere da un momento all’altro, l’accendino con cui Filippu Laganu s’appicciàva la sigaretta, il piccolo cancro insidioso che aveva cominciato a perforare il fegato di qualche paesano, perfino i piccioni allineati sul filo della luce, perfino loro, anzi, il loro aereo deretano, che se avessero tutti insieme cacato sul parabrezza della Punto di mastru Peppinu e questi avesse d’istinto azionato i tergicristalli mentre curvava al semaforo, il vetro allordàto lo avrebbe fatto impitteddàra da qualche parte. Quello scenario d’infinite possibilità lo fece sentire come chi gioca allo schiaffo e aspetta, da un momento all’altro, che gli giunga una manata a colpirlo. Ritornò a guardare il manifesto del lanciatore: per mancanza di spazio, Carruba manofatale vi aveva attaccato sopra il manifesto funebre di Rorò: lo aveva messo a destra, sulla donna legata alla ruota, e gli sembrò curioso che il coltello lanciato, sospeso a metà strada nell’aria, fosse indirizzato contro il nome di quella sportunàta. E ripensò a quanto aveva sentito a casa della morta, nella piena di parole che la madre della malcapitata liberò al mondo, e soprattutto gli s’azziccò in testa la sua paura del fuoco, fìgghiama che avevi paura solo del fuoco, solo del fuoco. E così a Rorò gli elementi l’avevano presa per il culo, una vita a spagnàrsi del fuoco e poi morire per colpa dell’acqua. Un po’ come me, pensò Archidemu, essere dell’aria e abitante del sistema solare costretto a vivere e morire sulla terra.