Fu allora, il giorno della scomparsa, quando tornò sul posto assieme ai suoi familiari, che Archidemu s’accorse di qualcosa che si muoveva sotto un cespuglio. Si spaventò pensando di nuovo al serpente. Indietreggiò di qualche passo e guardò fisso verso l’ombra. Dopo qualche secondo spuntò una tartaruga. In quel momento fu chiamato dal padre, ma quando ritornò dopo mezz’ora era ancora lì, che procedeva imperterrita verso il bosco fitto dove erano entrate due squadre di ricerca. E fu allora, osservando il piccolo animale carapacico ostinarsi a procedere lento come un pianeta o una stella, fu allora che Archidemu quatrizzò che forse stava seguendo la traccia odorosa del fratello. Ma quanti mesi e anni ci sarebbero voluti? Aspettò, e dopo un quarto d’ora l’animale doveva ancora giungere sulla soglia del bosco. E allora disperò, che a volte per arrivare non basta conoscere la strada. Si avvicinò alla testuggine e la prese in mano, e prima che si rintanasse nel guscio come gli orfani nella solitudine del letto, la guardò negli occhi, fissò le pupille scure e pensò che quella chelone era l’ultimo essere vivente ad aver visto Sciachineddu, che forse il volto del fratello si era impresso come su un foglio fotografico, e lì sarebbe rimasto per sempre: Archidemu la prese in mano, la mise in un sacchetto e la sera stessa, quando le squadre ritornarono senza speranza, la portò a casa e la tenne con sé senza mai mostrarla a nessuno, affinché un altro volto non potesse imprimersi su quelle pupille. E così gli sembrava di averlo con sé, il fratello, il suo ultimo frammento terreno, una foto vivente appesa sulla parete corneale di un animale millenario che per venerazione chiamò da allora Sciachiné, il suo personale satellite nella traiettoria dell’universo. Che talvolta Archidemu la prendeva in mano e la guardava fisso negli occhi sperando di intravedere nel fondo torbido e stagnante riemergere il volto del fratello nel mentre del suo addio al mondo.
Vi aveva guardato anche quel pomeriggio, prima di uscire per andare verso il campo di San Marco.
Ci sono pensieri che scavano crepe sulle pareti cerebrali della nostra testa destinandola a crollare: a lui era bastato pensare per un attimo che l’uomo del manifesto fosse il fratello perché nei suoi pensieri lo diventasse, che nella mente non c’è differenza tra il poter essere e l’essere, che nella nostra càpu malata ogni possibilità è evento e ogni evento una possibilità. Non aveva altro in testa: il pensiero del fratello fu come un attrattore verso cui tendeva e si approssimava ogni sua meditazione.
Chìdda sìra, che il paese festeggiava la Madonna dell’Assunta e che a lui piaceva per i fuochi d’artificio che avrebbero concluso la giornata, sarebbe andato allo spettacolo per vederlo da vicino. Arrivò con molto anticipo e si mosse intorno alla recinzione del campo: in qualunque punto si fermasse c’era sempre qualcosa che ostacolava la sua visione d’insieme, una roulotte o panni stesi ad asciugarsi, e forse Jibril in quel momento c’era ma lui non poteva vederlo. Che era un po’ la sua condizione di sempre, che poco importava se a nasconderlo fosse il Nevado Ojos del Salado o un lenzuolo. Cercò un punto più alto da cui guardare. Vide lo scheletro della casa in costruzione dell’assessore, dall’altra parte del campo, verso Covello. Vi andò: oltrepassò gli acervi di calcinacci, salì al primo piano e si affacciò verso il campo. La vista era perfetta, che forse quel delinquente la casa se l’era fatta proprio lì per vedersi comodamente dal balcone le partite di prima categoria dell’U.S. Girifalco in cui giocava il figlio.
Guardò verso il campo se riconosceva tra le persone che si muovevano l’uomo del manifesto. Voleva sedersi. C’era un vecchio bidone di metallo. Lo girò e ne fece uno sgabello che avvicinò al limitare del piano. S’assettò. Visto dall’alto, con la suggestione del meccanico celeste prestato alla Terra, il campo di San Marco divenne l’universo, il circo la Via Lattea, lo chapiteau al centro il Sole, le roulotte i pianeti, e gli uomini che si muovevano come api o formiche satelliti e stelle, asteroidi e comete. E fu una cometa il fenomeno celeste a cui paragonò il fratello, di quelle che compaiono allo stesso posto con la stessa scia a distanza di secoli nella volta universale, che i secoli dei pianeti corrispondono ai decenni degli uomini.
Storia dell’angelo nero
Ignaro dello sguardo scientifico di Archidemu che lo accostava a un asteroide, Angeliaddu giunse al circo e andò de filàtu nel tendone certo di trovare Batral ad allenarsi. E invece c’era solo l’uomo nero che zoppicava. Si guardava intorno come un cinghiale quando fiuta i cacciatori, e il ragazzo, impaurito, si nascose dietro un sedile. Dopo poco arrivò Batral.
“Sei in ritardo!”, furono le parole dure dell’uomo.
“Ho avuto da fare”.
“Da fare? Sì? Bene, e allora adesso sono io che ho da fare”, e se ne andò, indispettito.
Batral rimase fermo qualche secondo, poi andò verso la scaletta per salire sul trapezio. Angeliaddu uscì da dietro il sedile e lo chiamò. Lui gli fece segno di avvicinarsi.
“Mi sono costruito un trapezio”.
“Allora vuoi diventare più bravo di me”.
“Come te, voglio essere come te”.
Batral guardò in alto, verso la pedana.
“Hai detto che sei bravo ad arrampicarti. Visto che mi hanno lasciato da solo, ti va di farmi da aiutante per oggi?”.
La gioia si stampò sul volto di Angeliaddu.
“Devi promettermi però di stare molto attento”.
“Starò attentissimo”.
“Andiamo”.
Quando furono ai piedi della scaletta, Angeliaddu si fermò: “Perché è sempre così arrabbiato con te?”.
“Hai visto la scena?”.
Angeliaddu abbassò la testa.
“A vederlo nessuno lo direbbe, ma quell’uomo è stato un trapezista, forse il più grande di sempre. Il suo nome campeggiava a lettere giganti sui manifesti di tutto il mondo, Grafathas l’angelo nero, come lo chiamavano i giornalisti per le sue calzamaglie scure, il primo e unico al mondo ad aver mai effettuato un quintuplo salto mortale, anche se il mondo non l’ha mai saputo. Centinaia di artisti ci avevano provato. Col suo fedele portatore ci provarono giorni, mesi, fin quando, un pomeriggio, nell’incredulità dei pochi fortunati presenti, l’angelo nero afferrò le mani del porteur dopo cinque salti mortali. Forse aveva ragione lui quando diceva di non essere umano. Dopo che scese dalla rete, che tutti gli si fecero intorno per abbracciarlo, era diventato un altro, come se il salto ne avesse cambiato la natura, e così, tra la sorpresa generale, disse che quella sera durante lo spettacolo lo avrebbero rifatto. Il porteur cercò di dissuaderlo, bisognava ancora allenarsi, provare, perfezionare e sincronizzare i meccanismi, ma Grafathas non sentì ragioni: era una giornata fortunata e bisognava sfruttarla fino in fondo. Era lui l’angelo nero, era lui che decideva. Fece avvertire i giornali che quella sera, in quel circo, si sarebbe consumato un evento epocale. Era arrivata perfino la televisione nazionale. Grafathas non si scompose ma mantenne sempre una sicurezza quasi sovrumana. L’unica persona che fece entrare per un attimo nel suo camerino e con cui scambiò qualche parola fu il suo fedele porteur. Quando arrivò sulla pista, in un tripudio mai sentito, Grafathas salutò come un imperatore. L’annunciatore intimò il silenzio, il tamburo cominciò a rullare, sempre più veloce, fin quando Grafathas non emise il richiamo per il porteur. Furono sei oscillazioni lunghe e infinite, alla settima, come concordato, cacciò un altro verso, come un respiro rumoroso, e si lanciò. Una, due, tre oscillazioni tutte con il fiato sospeso, alla quarta, quando aveva preso rincorsa sufficiente, raggiunto l’apice della traiettoria lasciò il trapezio e cominciò a girare su sé stesso una volta, due volte, tre volte, quattro volte. Alla quinta allungò le braccia e trovò le dita del porteur, il pubblico si lasciò andare in un boato incredibile, ma Grafathas non lo sentì perché non erano le dita quelle che doveva trovare alla fine della circonvoluzione ma le mani tutte, e allora capì d’aver fallito. Cercò con tutte le forze di tenersi aggrappato, sentì la fatica del porteur di afferrarlo, e per poco ci riuscirono, per un’oscillazione, ma sarebbe stato meglio che questo non fosse successo perché diedero un’ulteriore spinta al corpo di Grafathas che quando si staccò non cadde sulla rete di protezione ma subito dopo, oltre ogni difesa. In un ultimo e disperato tentativo, allungò le braccia per aggrapparsi alla rete: non ci riuscì ma almeno attutì la rovinosa caduta. Il pubblico era terrorizzato. Grafathas fu soccorso e portato in ospedale. Si era fratturato la gamba sinistra. L’angelo nero che aveva incantato il mondo non c’era più. Da allora è un uomo diverso: odia il mondo e gli uomini, uno in particolare, me, che quel giorno ero lì, più vicino a lui di ogni altra persona. Ero io il suo porteur, mie le mani che non lo afferrarono”.
Angeliaddu restò rimìsu, ma Batral non gli diede tempo di pensare: “Sali lungo la scaletta, e quando arrivi alla pedana ti metti intorno al fianco la cintura di sicurezza. Afferra il trapezio e quando io ti griderò ora, tu dovrai lasciarlo. Tutto chiaro?”.
Per Angeliaddu, prestato temporaneamente al regno celeste, fu uno dei pochi giorni indimenticabili della sua breve vita.
Di un provvidenziale taglio di testa
Tagliare la testa della fìmmina. Questa era stata la genialata del pittore francese. Se avesse avuto una testa non sarebbe stata la stessa cosa, che di femmine nude i quadri e i libri di Lamantea erano pieni, ma una pittèdda senza testa! Mente sopraffina questo francese, che a sentirli parlare con quella lingua proprio non lo diresti che possono intendersi di femmine, e invece questo Curvé doveva avere qualche nonno italiano meridionale per essere così esperto di materie scostumate, e che idea, decapitare una femmina nuda e metterne il sesso al centro del quadro, che non ti lascia spazio e tempo per sfuggire. Che poi ha gusto, non c’è che dire, che centinara e centinara poteva ritrarne e invece ne ha scelto una che meglio non poteva: con quello spacco che dal basso sale e mentre sale lentamente si allarga, quel tanto necessario a far fantasticare chissà quali profondità, e proprio nel punto del disvelamento ecco il segreto celato dal cespuglio folto e irregolare dei peli, di un nero senza sfumature che non concede più nulla alla vista. Se ci fosse stata una testa non sarebbe stata la stessa cosa, che in qualche modo l’attenzione sarebbe stata contesa, e poi che faccia si poteva mettere a una pittèdda così? O forse Curvé a questa scostumata sibilla dispensatrice d’insonnia l’aveva decapitata proprio perché ognuno ci mettesse la faccia che voleva? A Venanzio non interessava sapere il volto della femmina, né aveva mai pensato a qualche faccia paesana da incollarci sopra anche se, in verità, la pittèdda del quadro era identica, precisa e concisa a quella di Lucentina Sdarrabazzu, l’inavvicinabile moglie del segretario comunale. Che Venanzio si trovasse da solo con quella cupàna di femmina fu veramente un colpo fortunato del destino. Fortunato per lui, ovviamente, un po’ meno per Modestino Candeliere che in quel pomeriggio d’una decina d’anni prima passò improvvisamente a miglior vita. Il sarto fu chiamato all’istante che l’unico vestito del morto risaliva a tredici anni e venti chili prima, per cui doveva adattare l’adattabile. Il tutto, ovviamente, a vestito indossato, per cui sollevare, girare, piegare il corpo di un morto era alquanto faticoso. Tuttavia il sarto lo fece con una felicità che in alcuni momenti non riusciva a controllare, che una volta la vedova lagrimante si chiese cosa c’era di tanto divertente in quella funebre vestizione. C’era che mezz’ora prima di entrare nella stanza, Venanzio aveva sbagliato piano della casa e si era infilato nello stanzone di sotto dove Lucentina Sdarrabazzu, buona dirimpettaia, era accorsa per pulire e spostare le sedie del soggiorno per i paesani che sarebbero arrivati alla veglia.
“Scusatemi”, disse con i suoi modi signorili, “sono venuto a prendere le misure al povero Modestino”.
“Sopra, stanno di sopra, don Venanziu”, rispose la donna mentre si piegava a spostare una poltrona. La gonna grigia che indossava era così stretta e la poltrona così pesante che per lo sforzo la cucitura si strappò mostrando l’ultima parte scura delle autoreggenti. A don Venanziu gli salì il sangue alla càpu e non capì più niente. Lucentina si portò subito la mano sullo strappo e si voltò per nasconderlo. L’uomo fece un passo avanti.
“Se volete ve la posso cusìre subito”.
“Non scherzati, don Venanziu, che sopra c’è un morto”.
“Ma se non vi fate cusìre, i morti tra poco saranno due!”.
La femmina s’accorse del pacco lievitato, così ben delineato sotto il tessuto di cotone beige simile alla carne che quasi le sembrava di vederlo. E lei, abituata al misero miccino del segretario comunale, non le sembrava vero che esistessero simili suppressàti, e così ebbe un pensiero scostumato che cercò subito di ricacciare indietro, ma troppo tardi per l’occhio esperto di don Venanziu, che colse la titubanza nello sguardo della fìmmina.
“Ma a voi non vi piacciono gli uomini?”.
“Signora mia, voi pure i pianeti fareste girare all’ambèrza! Vi faccio un lavoro perfetto, senza lasciare tracce”, sussurrò ormai a pochi centimetri da Lucentina, le cui umide profondità le suggerivano che forse non sarebbe mai stata più così vicina a un uomo come adesso, che un’occasione come quella di fargliela pagare a quel marito geloso che la teneva chiusa in casa e riservava per sé i piaceri concubini della carne non l’avrebbe più avuta, e poi non riusciva a cacciarsi dalla testa quel gonfiore carnoso, al punto che quando don Venanziu la sedette sulla poltrona e le aprì le gambe lei non oppose resistenza. Per un momento gli parve di trovarsi di fronte alla fìmmina senza testa del quadro, che la pittèdda era la stessa, e allora scattò in lui l’animalesco istinto di mettere in atto ciò che quel quadro gli aveva suggerito dalla prima volta, e affondò la bocca nel corpo rugiadoso della femmina affrìtta.
“Saziatevi, don Venanziu, che è come un francobollo, solo una volta potrete leccarla”.
E l’inavvicinabile Lucentina Sdarrabazzu fu di parola.
Anche quella sera, quindici agosto festa della Madonna dell’Assunta, che le bancarelle lungo tutto il Piano e il Corso avevano infiocchettato il paese come na guantèra di pasticcini, Venanzio guardò il quadro prima di andare al circo.
La sospensione di due giorni di spettacolo per la morte di Rorò aveva alimentato l’attesa per la seconda serata, resa più eccitante dall’entusiasmo che si era diffuso a Girifalco e nei paesi vicini. Anche chi aveva assistito al primo spettacolo, come Angeliaddu e Venanzio, non volle mancare.
Il sarto prese un posto in prima fila. Era arrivato molto presto: tutto il giorno aveva pensato alla contorsionista, complice il manifesto di fronte alla bottega, una distrazione continua, un eccitamento estremo che sarebbe scoppiato se non fosse provvidenzialmente passata da lui Filadelfia Marinaro con la sua bocca ingorda. E però non era bastato, e così chiuse la sartoria mezz’ora prima per prepararsi. Da quando prese posto, però, l’attesa lo pungeva come se si fosse seduto su una pala di ficundiànu fiorito, che non prendeva rigìattu. In verità, egli stesso non capiva quell’agitazione, che non partiva come al solito dal basso, provocata dal suo miccio insaziabile, ma da più sopra, ancora oltre l’ombellìco, dai polmoni, sì, dai polmoni, che certe volte gli sembrava mancare il momento del respiro e restare indietro, ma anche più su, che se non avesse diffidato completamente del suo cuore, avrebbe detto che tutto partisse da lì. E così quando Mikaela comparve, più bella di come la ricordava, don Venanziu sentì il bisogno di sorridere e applaudire forte per scaricare l’ansia. Mikaela cominciò i suoi esercizi con la consueta abilità, ma quando riprodusse l’immagine del manifesto, a differenza della prima serata, si guardò intorno alla ricerca di qualcuno, e quando scorse Venanzio sorrise, gli fece l’occhialino e gli mandò un bacio con le labbra. Almeno così sembrò al sarto, che non stava più nella pelle. Un bacio proprio a me? E fu quel corrucciarsi di labbra che si portò nella mente tutta la sera, che custodì nella sua fantasia e lo accompagnò fino a notte tarda, quando finalmente chiuse gli occhi sperando di incontrare nel sogno quella bocca che profumava di fiori e farne tutto ciò che fosse mai stato permesso a essere umano.
Galassie dimenticate
“Lu!”.
Al richiamo di Cassiel, Lulù si voltò. “Lu! Vieni qui”, ripeté con un gesto del braccio.
Il pazzo, che era tra un gruppo di gente di fronte al tendone, non lo conosceva, in realtà lui non conosceva nessuno, per questo se qualcuno lo chiamava e gli faceva segno di avvicinarsi Lulù ubbidiva. Non fu l’unico che rispose alla chiamata, perché con lui avanzò una donna che al folle arricordò assai la fìmmina che aveva visto qualche giorno prima nella roulotte dove suonava il suo valzer triste. La femmina si chiamava Luvia e guardò a sua volta l’uomo che si trascinava al suo fianco e che si fermò con lei di fronte a Cassiel. Fu l’occasione per osservarlo meglio: i piedi sporchi, i pantaloni larghi legati alla vita da un pezzo di spago, la maglietta macchiata, la busta appesa ai passanti, la madonnina appuntata sul petto, e su quel corpo robusto e vigoroso il volto di un bambino mai cresciuto, con un’espressione di perenne attesa. La donna gli sorrise.
“Lu?”, ripeté Cassiel guardando l’uomo negli occhi.
Lulù annuì col capo guardando verso terra.
Cassiel guardò verso la donna: “Andiamo, è ora”.
Luvia lo osservò, quell’uomo dal corpo grosso e possente ma che sembrava avere un animo vuoto, come uno degli ulivi di quella terra, immensi e secolari, il cui tronco rugoso è talvolta cavo. La donna guardò verso Cassiel, e si capirono subito.
“Vuoi venire con me?”, chiese a Lulù.
Il pazzo farfugliò qualcosa, e lo sforzo per parlare ogni volta gli procurava un rossore esagerato ai lobi delle orecchie. Ma nella galassia dimenticata del suo cervello quella faccia era legata al suo valzer triste e quindi a màmmasa, per questo quando gli fece segno di seguirlo le andò dietro.
L’equilibrio come costante cosmologica
Lo spettacolo cominciò nell’entusiasmo generale, ma c’era un uomo fra tutti che non si faceva coinvolgere dall’euforia e che lo osservava con occhio algido e distaccato. Archidemu Crisippu, dissertore della vita terrestre, era lì solo per vedere da vicino il giocoliere, indifferente alle femmine che sembravano di gomma o agli uomini che saltavano da un trespolo all’altro come pappagalli. Aveva chiesto al bigliettaio il posto più vicino possibile, anche se devo pagare di più. Si pentì di quella richiesta quando fu prossimo al domatore con lo stuolo di tigri e leoni, ma dopo la paura arrivò il momento.
“E adesso, l’uomo capace di tenere in equilibrio il mondo intero; signore e signori, fate un forte applauso al mirabolante Jibril Namenlos”.
Le luci si abbassarono, e introdotto da una musica allegra e vivace entrò l’uomo del manifesto. Sembrava ancora più piccolo: la pelle bianca, i corti capelli neri tirati all’indietro, un corpo magro e proporzionato. Si fermò al centro del palco, e girò intorno quei suoi occhi vispi ma autoritari. Dietro di lui due assistenti. L’uomo non riusciva a stare fermo, il corpo era impaziente, scattante, elettrico, e Archidemu non riusciva a fissargli bene il volto. Fece segno alle ragazze e cominciò. Mise in bocca il flauto che aveva in mano, lanciò altissimo il pallone ovale e quando ricadde lo fermò con la punta dello strumento. Fu il degno inizio di uno spettacolo stupefacente in cui l’uomo sembrava controllare ogni oggetto. La fanciulla portò un sacco a rete pieno di palloni di cuoio. Jibril ne prese uno, lo mise a terra, ci saltò sopra col piede destro e le braccia allargate. In un attimo trovò l’equilibro, e allora fece un cenno alla signorina che appoggiò gli altri palloni in varie parti del corpo: le mani, la nuca, la testa, uno lo afferrò con il collo del piede sinistro e un altro sul tallone dello stesso piede. E rimase immobile come una statua greca. Le cose sembravano essere attaccate al suo corpo. Ogni cosa che lanciava in aria, dai cerchi ai coltelli, ritornava nella sua mano come se quello fosse il loro posto nel mondo, come se gli oggetti avessero un’orbita e lui fosse l’artefice di quel sistema in cui tutti i movimenti di rotazione e rivoluzione si combinavano perfettamente, come quando fece girare tutti insieme circolarmente sette palloni come pianeti, o come quando lanciò in aria una candela e la prese facendola infilare nel candeliere. Faceva sembrare tutto semplice, come se l’apparente caos che governava il mondo fosse una fase dell’ordine, che tutto girava, voltava, si allontanava e scompariva solo per trovare il suo giusto posto nel sistema solare. Non si fermava un attimo: il suo corpo, le sue fibre, le sue ossa; tutto era coinvolto in un continuo logorante movimento, che mentre tendeva i muscoli Archidemu lo immaginava, dopo lo spettacolo, sul letto della sua roulotte, immobile a scontare con una quiete quasi secolare quell’eccessiva gestualità. Non lasciava fiato quel continuo agitarsi di corpi e oggetti, e come se non bastasse entrò pure una piattaforma girevole sulla quale si appoggiò con la testa e mentre con le mani lanciava le palline, con un piede faceva rotare un anello e con l’altro un birillo. Jibril era l’equilibrio del mondo personificatosi in una persona.
Di tutti gli oggetti che aveva usato nei suoi esercizi, tuttavia, per Archidemu ne mancò uno, il più importante. Da un momento all’altro si aspettava che una delle ragazze portasse la palla di vetro raffigurata nel manifesto, ma non fu così, e quando Jibril salutò il pubblico e corse dietro le tende, lo stoico un po’ ci restò male. Che forse, pensò mentre si alzava insieme agli altri spettatori, forse quell’oggetto non lo usava perché troppo prezioso, che sebbene sia sicuro dei suoi mezzi ha paura di romperla, e allora la custodisce gelosamente sul comodino della roulotte e l’ha fatta dipingere sul manifesto per affetto, o forse per offrire al mondo una traccia di sé, un indizio dell’identità smarrita, che quella palla di vetro, la prima volta che la vide magari sulla bancarella di un mercato rionale, gli provocò qualcosa di simile a un ricordo, gli accese un lumino come mai nessun altro oggetto aveva fatto, e allora la comprò e la portò con sé sperando che la fiammicella crescesse. Archidemu uscì meravigliato dai prodigi di quell’uomo. Cercò senza risultato di ricordare se il fratello avesse qualche dote analoga, se l’aveva mai visto tenere in equilibrio una forchetta a tavola o lanciare pietre in aria. Non ebbe le risposte che si aspettava. Andò lì, quella sera, sperando di raccogliere indizi e invece tornò con più dubbi di prima.
Mangiò alla trattoria di Speditu e poi volle ascoltare il concerto bandistico in Piazza diretto dal maestro Rocco Olivadese. Sera della Madonna, a Girifalco, era soprattutto la sera dei fuochi d’artificio. Arrivavano da tutti i comuni limitrofi per vederli, che c’era una specie di gara ufficiosa tra i paesi vicini tra chi sparasse i più belli. Finito il concerto a mezzanotte, tutti i cristiani s’arriversàvanu verso i posti da cui si vedevano meglio: la Cannaletta, i Cruci, u Vuttandìari. E così intorno a mezzanotte e mezza, annunciato dal colpo secco della bomba d’apertura, iniziava lo spettacolo pirotecnico che costringeva gli uomini a guardare la volta celeste. Archidemu si sistemò sul balcone di casa sua, ch’era un osservatorio privilegiato.
Lo spettacolo di bombe a crociera e cannelli, stelle fluorescenti e paracadute filanti durò circa mezz’ora. Alla fine lo stoico non rientrò ma rimase sul balcone a guardare dall’alto i paesani che facevano ritorno a casa. Una fiumana di gente, una flotta di Megapterae novaeangliae che nelle loro quotidiane migrazioni seguivano ogni volta con precisione assoluta la stessa orbita senza modificarla di un grado. Comparivano, disegnavano la loro misteriosa ma conclamata traiettoria e poi scomparivano chissà dove. Fu un’altra mezz’ora alla fine della quale la confusione s’acquietò fin quando il silenzio notturno ritornò a impadronirsi di quel piccolo specchio d’universo. L’odore di polvere da sparo s’era dissolto, e i colori e i rombi di poco prima erano solo un ricordo. La luna era ritornata a essere padrona assoluta della volta celeste. Ed era una luna bellissima. Chissà perché gli uomini hanno sempre ammirato la luna piena, perché poeti e scrittori hanno decantato il globo luminoso e perfetto, mentre quella sera, nel cielo, c’era un filo sottilissimo di luna che più bello non si poteva, rarefatto, manchevole, l’ultimo frammento prima di essere inghiottita da una notte eterna. Una porzione finissima di luna che era come un congedo, come la mano che si agita dal finestrino del treno o la porta che si chiude sul volto amato, distante dalla perfezione del cerchio, incompleta e finita come gli uomini. Una luna che vorrebbe scappare negli spazi infiniti e la gravitazione terrestre costringe a orbitarle intorno come se anche i pianeti non fossero fatti per stare da soli, e lei allora si vendica agitando i mari, avvicinando e allontanando le acque, abbassando e alzando gli oceani. E chissà se anche gli uomini funzionano come le maree, pensava Archidemu, chissà se anche i loro cuori vengono deformati dalla gravitazione lunare, se il sangue si alza e si abbassa come gli oceani, se il respiro s’increspa come un’onda. Chissà se anche per gli uomini, per me Archidemu Crisippu, e per mio fratello Sciachineddu da una marea scomposto, vale la legge della gravitazione universale: due corpi qualsiasi dotati di massa si attraggono reciprocamente con una forza tanto maggiore quanto più grande è il valore delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Fratello mio, chissà se questa è la notte giusta, se finalmente questo congedo di luna ha deformato le strade e fatto coincidere le nostre traiettorie, se la forza dei nostri corpi dotati di massa ha vanificato la distanza e il suo maledetto quadrato inversamente proporzionale.