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L’oracolo

A Girifalco fu come se s’appicciàssero tutte le luci di tutte le case tutte in una volta, che il miracolo fu come un corto circuito della centralina dell’Enel. Nella testa di Turuzzu de Cecè appicciò bottigliette d’oro, che sull’etichetta della sua brasilena avrebbe aggiunto sacra alla scritta fonte di monte covello, al sindaco appicciò mandati elettorali chìni de sòrdi, che già immaginava parcheggi a quattro piani e pedaggi comunali, a don Guari appicciò terrestri e deprecabili orgogli, che Girifalco sarebbe stata come Meggiugòri o Santiagodalacompostezza, che sarebbe stato il vescovo di Venezia questa volta a scrivergli per poter esporre l’illustra reliquia di san Rocco nella celebre chiesa della Piazza. Che se Palmi aveva il Sacro Capello della Vergine Maria e Borgia una macchia d’umidità col volto di padre Pio, Girifalco aveva Giobbe, biblico già nel nome, che aveva rinverdito l’imperitura e antonomastica tradizione della guarigione del cieco.

“Tutti cazzàti!”, tuonò Tummasi Ferraina quando Micu del bar appiccicò con dello scòccio l’immaginetta di san Rocco sulla cassa. “Ma quale miràculu e miràculu! Ma che vi prende a tutti quanti?”.

“Qual è il problema, Tummasi?”.

“Tutti a gridare al miracolo”.

“Perché, tu come lo chiami? Giobbe, u cecàtu, che cammina senza bastone! Tu come lo chiami?”.

“Ncùna spiegazione c’è di sicuro, noi non lo sappiamo ma ncùna spiegazione dev’esserci per forza”.

“La luce di santu Ruaccu, questa è la spiegazione”.

E la luce quel giorno illuminò ogni angolo del paese, che la processione con la statua del santo visitò ogni strada. L’unica novità rispetto agli anni precedenti era la nutrita presenza di carabinieri, avanti e dietro la statua, col maresciallo Talamone addirittura in uniforme di rappresentanza. Il motivo lo sapevano tutti. Un fatto epocale era accaduto in quel ridente e quieto paese famoso nel mondo per il suo manicomio e la bontà delle patate di Mangraviti: un capondrìna del reggitano era stato esiliato lì da un mese e, com’era abitudine al suo paese, voleva che le statue sacre passassero e s’inchinassero sotto casa sua, che però si trovava in aperta campagna. Il prete venne a ciò avvertito, il quale subito parlò col maresciallo, il quale s’intìsa con il capitano che sentì il vescovo che chiamò il prete che assolutamente quella cosa non s’aveva da fare nemmeno sotto minaccia armata. E allora fu preparato un servizio d’ordine che nemmeno per il presidente della Regione s’era mai allestito. Quando capiscì la malaparàta, l’illustre capondrìna, deciso a portare fino in fondo il suo onore, poiché cùnnu non era pensò che se la statua non va dallo ndrìno allora è lo ndrìno che va dalla statua, e informatosi sul percorso della processione, s’affittò per una settimana una casa proprio alla sagghiùta delle Cruci. Non solo: riuscì con un sotterfugio ad abbassare il filo della luce, cosicché quando passarono di là i portatori furono costretti ad abbassare la statua, e quell’abbassamento poteva assomigliare a un inchino. Di fronte alla porta, l’illustre capondràngheta fece apparecchiare un tavolo di quattro metri che coprì di brasilene, suppressàti e capicùaddu, per festeggiare insieme al numeroso corteggio la genialità della sua trovata.

Osservazioni sui colori

Ad Angeliaddu quella storia che maestra Gioconda gli aveva spiegato gli ultimi giorni di scuola che è la luce a dare i colori agli oggetti non lo convinceva per niente: per lui le cose continuavano ad avere lo stesso il proprio colore anche quando era scuro. Raffaele Scozzafava non perse occasione per schernirlo: si alzò con la strafottenza ereditata dal padre assessore e chiese alla maestra se pure la cresta bianca del Biondo era colpa della luce. Angeliaddu gli lanciò una penna in faccia e chiuse l’anno scolastico con una sospensione. E mentre ritornava a casa anzitempo pensò che se la teoria era giusta, come si spiegava il suo ciuffo bianco? Che lì c’era sempre un raggio di luce fisso, in qualunque angolo del mondo, che gli schiariva sempre lo stesso numero di capìddi? Gli oggetti bianchi riflettono tutte le componenti della luce, aveva detto la maestra, ma non aveva capito se ciò era bene o male. Quella mattina del sedici agosto, quando un raggio di sole dalla finestra lo colpì negli occhi, ripensò alla storia della luce e dei colori. Si vestì e uscì di casa. Alle otto e quarantasei attraversò il semaforo, al centro del paese, tra il Piano e il Corso.

Silvio era sceso da casa alle sette e mezza per aprire il negozio, e quando si trovò di fronte alla vetrina per poco non gli pigliò un colpo: qualcuno l’aveva spaccata con un sasso. Iniziò a strillare come un condannato sul patibolo, che lui era un maniaco dell’ordine e della pulizia, e trovarsi di fronte allo scempio di frammenti vitrei sparsi tra boccette profumate e occhiali da sole, fu l’apocalisse. Bastardi delinquenti, cominciò a urlare, e che v’ho fatto io per prendervela così? Rovinato, m’avete rovinato. Aprì con sconforto la porta, mentre i primi curiosi cominciarono ad avvicinarsi. Chiamate i carabinieri, suggerì Pasquala Cafìssu. Una vetrina spaccata a Girifalco era come un attentato di matrice fascista alla Banca dell’Agricoltura, un segno inequivocabile dell’imbarbaramento e pericolosità dei tempi. Nel nugolo di curiosi, sempre più numeroso, ognuno cominciò a verbalizzare la propria teoria in merito all’accaduto, un dispetto bellebuono, qualcuno che vi vuole male, forse qualcuno non volendo, magari ubriaco, e vuoi vedere che anche da noi cominciano a chiedere il pizzo? Il geometra passò di lì alle otto e quarantaquattro: andava al municipio e si fermò chiedendo spiegazioni. Qualche ubriaco, pensò il fetùsu, ma gli bastò scorgere Angeliaddu sbucare dal vicolo di Marzìgghia alle otto e quarantasette perché il pensiero si dileguasse. Il ragazzo s’avvicinò, incuriosito dal capannello di curiosi.

Il geometra, quando lo vide sbucargli davanti, interruppe Silvio e parlò a voce sostenuta: “Sicuramente è stato qualche ragazzo che ha sfogato la propria malignità su di voi, qualcuno che prima o poi bisognava aspettarsela”. E poi, di scatto, si voltò verso di lui e lo fissò con cattiveria: “Tu, Biondu, tu non ne sai niente?”.

Il ragazzo si sentì tutti gli occhi addosso.

“Che volete da me?”, rispose con voce stentata.

“Che ci facevi stanotte in giro per strada?”.

“Ma…”.

“T’ho visto, dal mio balcone. Vuoi dire che sono un bugiardo?”.

Angeliaddu sentì gli sguardi gravargli il petto come un peso.

“L’altra notte sei passato da casa mia dopo mezzanotte”, pappagallò Pasquala Cafìssu, leccatore di culo ufficiale del geometra.

“Silvio, fateci vedere la pietra che v’ha rotto la vetrina”, disse il geometra facendosela passare dal negoziante. La prese e la lanciò ai piedi del ragazzo: “Prenditela, è la tua, no? Riprenditela”.

Angeliaddu la fissò e per un attimo fu tentato di afferrarla e lanciargliela e spaccargli quella faccia di merda. Stringeva i pugni così forte che le mani gli divennero rosse di sangue. U vàsu era chìnu; ci pensò ancora il geometra Discianzu a rovesciarlo: “Se màmmata t’educava come doveva!”.

Chi, quella madre che si consumava le mani e i giorni per non fargli mancare nulla? Quella madre che piangeva in silenzio, la notte, che solo lui legava alla vita? Quella madre schiacciata e consumata da dolori segreti? Fu un attimo. Si abbassò, prese la pietra ai suoi piedi e la scaraventò verso il geometra, ma non per colpirlo, che se avesse voluto non avrebbe sbagliato il bersaglio, ma per scaricare la rabbia che aveva dentro. Il sasso colpì la vetrina e ne ruppe un altro pezzo.

Il geometra guardò Angeliaddu con soddisfatto disprezzo: “Ecco, hai finito l’opera, Pilujàncu!”.

Scappò via, ignorando gli sguardi e i commenti della gente, verso la sagghiùta di San Marco, in direzione del campo in cui il circo aveva piantato le sue tende, ma quel giorno lo oltrepassò, giunse di corsa ai Ponticèdda, sotto il gelso ai bordi del torrente che era il suo rifugio segreto, e lì si buttò sull’erba e pianse, maledicendo quell’uomo malvagio, sé, il ciuffo bianco che lo perseguitava, e mentre sentiva sul naso e sulla bocca l’erba umida di rugiada, un raggio di luce, facendosi spazio tra i rami, illuminò i suoi capelli.

Filamentosa e liquida

Alla sera prima Cosimo aveva giocato a carte fino a tardi e lei s’era curcàta sul divano, che con i balconi aperti c’era un filo d’aria. Prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, e chissà se il primo pensiero del marito sarebbe stato dolore o sollievo. Chissà come avrebbe reagito Cosimo suo, se la calma che mostrava era solo apparente oppure nascondeva un inconfessato bisogno di paternità che sarebbe potuto esplodere all’improvviso, forse in una serata come quella, mentre giocava a carte e beveva, e beveva, e qualcuno lo sbeffeggiava perché non era stato capace manco di figliare, e quella parola apriva una fossa e l’acqua fuoriusciva, te lo faccio vedere io come sanno figliare i Vaiti, e lo immaginò alzarsi con impeto, buttare la sedia a terra e correre ubriaco verso la Curtalita. Lo immaginò a letto con lei, nudo, muoversi sul suo corpo, e non era quella scena che la infastidiva ma l’epilogo, il marito che si svuotava nel corpo fertile della femmina, centinaia di milioni di spermatozoi schizzati come uno sputo, che risalivano la corrente come salmoni, decimati a milioni lungo la vagina, i pochi superstiti che arrivavano alla cervice uterina, li conosceva tutti i nomi della sua parte difettata, millimetro per millimetro, li aveva snocciolati come confessioni, e lì, in quella parte del corpo che immaginava come un animale attento, sperava che la fìmmana non fosse in ovulazione, che così i miseri avrebbero trovato un muco cervicale consistente come un muro che li avrebbe fatti spiaccicare inutilmente, allontanati come soldati nemici, che se invece fosse stata feconda, per l’ennesima maledizione del cielo, allora il muco avrebbe avuto una consistenza filamentosa e liquida, così le aveva detto lo specialista di Roma, filamentosa e liquida, che lei ogni volta che bagnava le mani o rammendava qualche indumento pensava a quelle due parole, filamentosa e liquida, che gli spermatozoi l’avrebbero attraversata come una tenda di quelle estive per non lasciar passare le zanzare, anche grazie alle contrazioni innescate dalle prostaglandine contenute nello sperma, ricordava a memoria parola per parola di quella spiegazione, e dalla vagina vedeva avanzare gli spermatozoi verso l’utero, e ancora più in là, verso l’ampolla tubarica, la coppa del sacro graal, il luogo dell’elezione in cui un solo spermatozoo, uno solo, riesce a infilarsi nella cellula uovo e fecondarla, prima che la membrana dell’ovocita si chiuda su sé stessa per divenire impenetrabile. E qui immaginava l’unione delle cellule, due punti che si abbracciavano fino a coincidere, ma non sono cellule normali, queste, aveva continuato lo specialista, si chiamano gameti, e sono cellule speciali, le uniche che non portano una coppia di cromosomi ma un singolo cromosoma, X o Y. Quando la coppia si ricompone ecco finalmente lo zigote, e poi la morula, che è proprio simile a una piccola mora, quella mora che lei non avrebbe mai raccolto e che adesso, forse proprio mentre la immaginava, Cosimo suo stava seminando in una piccola pancia, che pregò Signoriddio che quella disgraziata fosse arida come lei, almeno infeconda, che non avrebbe resistito a questo.

Quella mattina, ridestatasi sul divano in una casa vuota, doveva aver sognato ciò che la sua mente cosciente aveva immaginato, che il suo primo pensiero fu che forse Cosimo era venuto davvero dentro quel corpo consumato, che forse la Curtalita aveva ancora i peli invischiati di quel liquido repellente, che Cuncettina non si era mai capacitata di come da uno scolo così ripugnante venisse fuori un miracolo, che Dio aveva con le sue stesse mani mescolato il divino e il profano, insegnando agli uomini che non c’è sacralità al mondo immune da una macchia di terrestre caducità.

La sposa nera

Sarvatùra non aveva mai chiuso il negozio in vita sua: non conosceva Natali e capodanni, domeniche e festività: la sua potìga alla Chiàzza era sempre aperta come una chiesa, perché il suo era un servizio alla comunità, andava spiegando a chi gli riportava le voci maligne sulla sua blasfema cupidigia, un ristoro per i dimentichi, che certe volte, nella vita, una busta di caffè o due uova paesane prese all’ultimo minuto possono determinare la salvezza di una famiglia. Per questo nessuno si stupì quando il giorno dopo, a funerali appena trascorsi, Sarvatùra aprì la saracinesca come ogni giorno. Malarosa, pur conoscendolo, interpretò quell’azione come un segno che in fondo, a Sarvatùra, non gliene fotteva poi tanto della moglie buonanima che se no l’avrebbe pianta per giorni, e invece eccolo lì come se nulla fosse, perché le vite continuano e a volte è bene che non portino i segni della strada percorsa.

Quando la vide entrare in negozio non gli sembrò vero. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che le aveva visto varcare la soglia? Da quanti anni non mettevo piede qui? Gli occhi di Malarosa andarono subito a guardare verso le scatole di bicarbonato, che dopo tutto quel tempo erano ancora allo stesso posto, allineate come calzini stesi ad asciugare. Era cambiato quasi tutto in quel negozio, dal bancone ai lampadari, dalle scaffalature al pavimento, ma il bicarbonato era rimasto lì, in quell’angolo, e Malarosa attribuì quella conservazione al sentimento che Sarvatùra aveva covato segretamente per lei in quegli anni, perché l’amore passa attraverso le vie più disparate, attraverso fotografie conservate o lettere mai spedite, confessioni nascoste o ambasciate, ma talvolta anche attraverso l’immobilità d’una scatola di bicarbonato. Sarvatùra gli divenne più caro, e forte di quella sensazione di fedeltà lo salutò con una confidenza che sembrava si fossero lasciati il giorno prima. Notò il bottone sul taschino del camice bianco marchiato Galbani. Quando morì marìtusa, Malarosa si vestì di nero giusto la settimana dopo il funerale, che all’ottavo giorno si svedovò come la statua della Madonna alla Cunfrunta quando butta il mantello plutonio. Che la criticassero, le paesane, che a lei sai quanto gliene fotteva! Ma il nero del lutto non l’avrebbe tenuto, nemmeno il bottone nero sul petto come Sarvatùra, che non avrebbe dato quella soddisfazione al mondo, non si sarebbe vestùta di nero che lei quel colore notturno l’aveva dentro dove nessuno poteva vederlo, che la camicetta nera sarebbe stato offrire soddisfazione a Rorò o a Ninetta o ad Annicedda Cucchiàra, a tutte quelle che avevano qualcosa più di lei. E poi c’era quella storia di Totuzza ’a vedova che non se la cacciava mai dalla càpu, la vicina di casa che perse il marito giorno del matrimonio, che chìdda sìra stessa prese il vestito bianco e lo tinse di nero e così andò al funerale, a spùsa nigra, che a lei piccirìdda quella storia l’impressionò.

L’uomo, da dietro il bancone, stava servendo Carmelina Zumbetta, cui stava affettando tre etti di mortadella né grossa né fina, giusta giusta. Quando fu servita e uscì, Sarvatùra poté guardare Malarosa negli occhi.

Semi e speranze

“Buongiorno”.

Ancora prima di alzare gli occhi, il profumo che invase la stanza lo aveva tramortito, cosicché quando abbandonò la cucitura del risvolto e alzò gli occhi pensò che stava sognando.

“Ah, siete voi”, disse la donna guardandolo in viso, “che coincidenza, non sapevo faceste il sarto”.

Venanzio ricordò il bacio della sera prima e arrossì, e com’era possibile per un amatore come lui? Gli s’ingarbugliò perfino la parola, e non seppe fare altro che togliersi il filo che gli pendeva dalle labbra.

Mikaela tirò fuori da una busta una tuta bianca.

“Di solito i piccoli rammendi li facciamo noi, ma qui”, e gli avvicinò la tuta facendo vedere lo squarcio, “ci vuole qualcosa di più”.

La parte davanti della tuta era ridotta a brandelli.

Venanziu si preoccupò e neppure seppe perché: “Vi siete fatta male?”.

Mikaela sorrise: “No. L’altro ieri il vento l’ha fatta finire nella gabbia del leone”.

Venanziu ripensò al vento caldo di semi e speranze, dopo il passaggio del corteo funebre. Poi ritornò a guardare la tuta: “Qui c’è poco da fare, bisognerebbe farne una nuova”.

“Riuscirebbe per lo spettacolo di stasera?”.

“Se trovo la stoffa giusta”.

Venanziu si sentiva la bocca pastosa.

“Io purtroppo non ho raso bianco”.

Mikaela abbassò la testa: gli apparve un’altra dal manifesto, così diversa dalla donna sicura e provocante, così fragile che avrebbe voluto abbracciarla per proteggerla.

“Però se andate da Rosuzza Lanerossi sicuramente qualcosa trovate”.

Venanziu squadrò la tuta.

“Due metri. Sceglietevi il tessuto che vi piace e fatevene dare due metri e portatemelo subito che metto da parte gli altri lavori e per stasera la vostra tuta è pronta”.

Mikaela sorrise e il sarto si sentì felice.

“Tornate indietro. Sul Corso, Rosuzza si trova di fronte alla farmacia. E non pagate, dite che serve a me, che vi ha mandato Venanzio”.

“È questo il vostro nome. Mi piace. Allora vado. Grazie”.

L’uomo sentì sulla pelle e sul cuore la solitudine stipata nel rumore del vetro della porta che si chiudeva.

Un corpo ricomposto

Nei giorni di festa, Lulù sembrava la statua di un santo che non si scasàva mai dalla chiesa e dalla processione. Indossava la maglia granata della Rettoria di san Rocco, si attaccava con una spilla l’immaginetta del santo sul petto destro ed era sempre lì, a dare una mano o a pregare nel suo modo sconclusionato seduto a una panca: Angelo luminoso custode del cielo, governa con la pietà celeste me a te affidato.

Don Guari, la mattina della festa della Madonna, che la sacrestana non poteva venire perché si spusàva il figlio della sorella, diede a Lulù il compito di spolverare le reliquie allineate sopra l’altare secondario. Non era la prima volta: le prese attentamente una per una e con uno straccio le pulì: i piedi, il cuore, le mani, il gomito, e poi con le teste fece più attenzione, che le fissava come se potessero da un momento all’altro fare un gesto, chiudere gli occhi, tirare il naso, sorridere. E poiché aveva un innato senso dell’accumulazione, invece di lasciarle sparpagliate le raggruppò per similarità, piede con piede, mani con mani, teste con teste, e poi le dispose da sinistra a destra secondo l’ordine del corpo partendo dal basso, cosicché alla fine l’altarino non sembrava più la vetrina della guccerìa di Pina Ferraina ma un corpo smembrato e ricomposto. E l’ordine piacque a don Guari, quell’ordine che il giorno dopo la sacrestana, inconsapevole dettato della turbolenza e sregolatezza umana, avrebbe sparpagliato in un caos che era il manifesto, tra sacro e profano, dell’unica legge che governa uomini e microcosmi.

Come un piccione viaggiatore

Archidemu si svegliò pessimista. Tutti quei pensieri e quelle illazioni sul fratello nascevano, alla fine, dalla coincidenza della palla di vetro, che forse le somiglianze fisiche erano solo frutto del suo autoconvincimento. Nella ricerca di coincidenze che avvalorassero l’identificazione, Archidemu trovò che Jibril era giunto in paese due giorni dopo l’anniversario della scomparsa di Sciachineddu. Ma ancora troppo poco. Non sapeva se farsi na passijàta al circo, e allora andò a prendere consiglio. Nato alle ore cinque e trentatré, nell’attimo in cui il giorno non è ancora giorno e la notte non è più notte, Archidemu non sapeva mai cosa scegliere. In verità pensava che l’uomo non può scegliere, che tutto quello che accade bisogna tenerselo, e che gli dei di tanto in tanto si divertono a offrirti una possibilità di decisione, ma piccole cose, carrube per cavalli, zuccherini per silenziare le volontà. Lui neanche quello voleva fare e così, alla stregua di Zenone che consultava l’oracolo anche per respirare, affidava ogni sua scelta a Sciachiné, perché gli sembrava così di chiedere consigli al fratello, che lui guardava le cose dall’alto dell’universo e ai suoi occhi il mondo era una biglia che girava sempre allo stesso modo, un palloncino che avrebbe potuto bucarsi da un momento all’altro. E così gli piaceva l’idea che a scegliere per lui fosse il fratello reincarnatosi in una tartaruga. Non era un caso che l’anima di Sciachineddu si fosse incarnata proprio in quell’animale e non per esempio ncià nu vùambicu che succhia polline o na coccinèdda o na formìcula: la tartaruga era l’animale stoico per eccellenza, che la testuggine isolava dagli eventi terreni e proteggeva dagli urti dell’universo, indifferente al mondo, indistruttibile come quella di Vicianzu Brunu che portava sul piastrone i segni dell’incendio coi suoi scuti carbonizzati.

Il suo campo d’azione era in soggiorno, davanti al divano. Un tavolino di vetro su cui aveva attaccato il puzzle completato di un mappamondo riprodotto dal Theatrum Orbis Terrarum sive Atlas Novus in quo Tabulae et Descriptiones Omnium Regionum di Blaeu figlio del 1665. Era là il suo mondo, quarantapersessanta: e quando doveva scegliere, al centro perfetto del puzzle metteva lui, Sciachiné, messaggero degli dei, dagli intermundia incarnatosi in una chelope indifferente. Al centro perfetto, che aveva segnato con un punto, poiché la precisa distribuzione delle misure, l’estrema coincidenza degli opposti era condizione indispensabile affinché la scelta fosse autentica, che spesso le nostre scelte all’apparenza consapevoli sono solo logiche conseguenze di una distribuzione falsata degli elementi. Ai quattro punti cardinali affidava una risposta, e in base a dove si dirigeva la tartaruga faceva quello che gli veniva consigliato. A est e sud no, ovest e nord sì. E Sciachiné si guardava intorno, smarrito nel deserto dei mondi, inconsapevole come un piccione viaggiatore del messaggio a sé legato. Alla risposta che giungeva, lo stoico obbediva come a un oracolo ultraterreno. Archidemu, appartenente al sistema solare, col tempo trovò stretti anche i confini della Terra, e dopo qualche anno sostituì l’immagine del mappamondo con il puzzle completato della Via Lattea, che Sciachiné si muoveva così in luoghi a lui più familiari, tra Nettuno e il suo satellite, così lontano, così vicino. Quella mattina il responso universale fu favorevole e così lo stoico andò al circo.

C’era sempre gente al campo di San Marco, soprattutto bambini portati dai genitori a vedere gli animali, che lì vicino c’erano i giardini pubblici con le altalene e gli scivoli, e così si camminava tra roulotte e caravan come se si passeggiasse sul Corso. Archidemu andò a sedersi sul bidone rovesciato nello scheletro in cemento della casa in costruzione, che era divenuto per lui una postazione di osservazione privilegiata alla stregua del balcone sul Piano o del cannocchiale puntato sulla volta celeste. Guardava la gente del circo muoversi tra le roulotte e le tende come fossero elementi inconsapevoli di una costellazione. Erano quasi tutti biondi, e sebbene fosse indifferente al fascino umano e terrestre, doveva riconoscere che erano benfatti, di più, belli come angeli, forse per tutta la varietà di sangue che gli scorreva nelle vene, come fossero l’ultima fase di un esperimento universale in cui dosi differenti di emoglobina e Dna avevano trovato la sintesi perfetta, la formula della bellezza in una sorta di eugenetica naturale, di un Lebensborn benevolmente paterno, che forse questa era la vera purezza della razza, non l’elezione del gene ma la sua miscellanza a oltranza, che gli uomini si muovono, emigrano, partono e ritornano solo per contribuire alla composizione della perfetta alchimia, le dosi farmaceutiche diventate umane, le quantità d’esperimento, sangue e gameti che si mescolano, si meticciano, leghe umane, frammenti che diventano corpi nella consapevolezza che la purezza non è la conservazione del singolo ma la sintesi della moltitudine.

Jibril non era biondo, e questo gli faceva credere ch’egli non facesse parte completamente del gruppo. Non si faceva mai vedere, e sembrava un oggetto estraneo in quella galassia circense in cui tutti interagivano, uno di quei corpi misteriosi e strani che ogni tanto compaiono nel sistema solare giunti da chissà dove, come Sedna, che con la sua orbita eccentrica entra ed esce dallo spazio interstellare, o come le orbite mancanti di asteroidi che dopo cinquecentomila anni all’improvviso abbandonano bruscamente la loro traiettoria per accedere a un’orbita caotica. Funzionava così anche Jibril, che sicuramente non era un Engelmann, non faceva parte di quella famiglia.

All’improvviso, evocato dai suoi pensieri, tra lo sciamare meteorico del circo, apparve. Vide un uomo uscire dall’ultima roulotte sulla sinistra e gli bastò guardarlo fare qualche passo per riconoscerlo. Sentì come un pugno sul petto. Le onde gravitazionali, dopo averlo fatto volteggiare tra i pianeti e i satelliti, lo spinsero per qualche attimo sulla Terra. Fu una breve apparizione: raccolse una tuta appesa ad asciugare e ritornò lesto a chiudersi nel suo piccolo universo di plastica e poliuretano. Archidemu si sentì vivificare e provò la sensazione forte, profondamente umana, che la sua vita fosse legata a quella di un altro essere vivente, che forse quella storia dei gameti non era completamente vera, che certe persone rimangono gameti per tutta la vita, metà vaganti in attesa di ricomporsi in una cellula zigotica.