Dal giorno del miracolo, Giobbe non si scasàva dalla chiesa di San Rocco. Come una statua sacra, stava assettàto al fianco delle reliquie, tra san Giovanni e la Maddalena. Posso toccarvi gli occhi, mastru Giobbe?, era la frase sibilata dai fedeli prima di sfiorare le cartapeste. E il miracolato lasciava fare, come una reliquia vivente. Sì ma facìti piano, aggiungeva la consorte, con inattesa solennità. Quando rintoccavano le diciannove, la mugghièra allungava il braccio, lui si afferrava e s’incamminavano verso casa, abbandonando quell’angolo di panca su cui nessuno più si permetteva d’assettàrsi, nemmeno a messa. E fu durante una di queste sponde tra la casa dell’Unto e dell’Untore, che Angeliaddu s’arricordò del miracolo. La rabbia ancora non s’era slievitata. Saliva verso il circo quando, mentre guardava la vetrina rotta di Silvio che mastru Panduri stava sostituendo con i soldi del suo barattolo, la rabbia gli salì dappertutto, e proprio allora, tra sé e la vetrina, passarono, muovendosi lungo la loro orbita quotidiana, i coniugi miracolati, che si frapposero come un’eclissi tra l’occhio e il suo oggetto. Un improvviso pensiero che lo fece esitare, fermarsi, ricordare il potere taumaturgico delle reliquie che tutto potevano, e poi deviare la propria traiettoria, come un asteroide urtato da un pianeta, verso la chiesa di San Rocco.
A qualunque ora d’estate, il bar di fronte alla chiesa era pieno come un uovo: i suoi tavolini all’aperto erano più ricercati d’un palco in teatro e accussì, con le bottiglie, le patatine o i gelati in mano, la gente s’assettàva alla fontana di Carlo Pacino o sugli scalùni del sagrato. Angeliaddu non pensava di trovarci anche a quell’ora tutta chìdda gente, e per un attimo fu tentato di tornarsene indietro, ma poi guardò verso l’interno della chiesa dove non c’era nessuno; e allora, rasente il muro per non farsi notare, entrò.
“In chiesa ha avuto il coraggio di andare pure!”.
“Di chi parli?”.
“Di quel delinquente di Angeliaddu, il figlio della catanzarese”.
Da quando la settimana prima l’aveva vista parlare con Tonino Lanatà, il sangue era ricominciato a bollirgli. Succedeva sempre ogni volta che la vedeva vicino a qualche uomo. Quella sua reazione, dopo tutti questi anni, aveva un motivo che egli negava a sé stesso. Si affacciava dall’ufficio sperando di vederla passare, si attardava nei negozi o alla posta per incontrarla, e più la pensava più la odiava. Lo schiaffo ad Angeliaddu era una punizione per la madre, la sofferenza passata in eredità: l’idea che qualche paesano, magari uno di quelli che disprezzava, potesse possederla, toccarla, prenderla, lo faceva paccijàre. L’avrebbe pagata Taliana, nel modo più crudele che conosceva, colpendo quel figlio il cui ciuffo bianco presagiva al mondo la sua malignità. E se pensava che con la vetrina era tutto finito, si sbagliava di grosso.
“E perché, non può trasìra in chiesa?”.
“Se Angeliaddu si muove è solo per fare guai! Vieni”.
“Dove?”.
“A vedere quello che combina”.
“Fammi finire di bere”, rispose l’assessore.
Davanti alle reliquie c’era Rituzza Catarisanu. Angeliaddu si mise vicino l’acquasantiera e aspettò che si allontanasse. Ma poi Rituzza s’assettò, che evidentemente ne aveva miracoli da chiedere a Sanruaccu, e allora Angeliaddu il andò ad assettàrsi sulla parte della panca che restava nell’ombra. La chiesa era tutta illuminata, e il ragazzo la guardava nei suoi particolari: le scene della Passione, la statua di san Rocco che mostra la ferita sul ginocchio, gli affreschi Gesù guarisce il cieco di Gerico di mastru Defilippu, e a fianco della balconata quello più piccolo che riproduceva L’arcangelo Michele schiaccia Satana di Guido Reni: non lo aveva mai guardato così attentamente, ma c’era nelle figure una forza che lo attraeva. E gli sarebbe piaciuto che al posto di quel Satana con le ali, schiacciato con la faccia a terra, ci fosse il geometra, qualcuno che lo calpestasse, e mentre guardava il volto dell’arcangelo, ecco che sentì un brivido perché gli sembrò di scorgere, nel suo volto, alcuni tratti di Batral. Lo guardò meglio, stupito, e più lo osservava più gli sembrava di essere nel vero, e per un attimo quella pala divenne la proiezione di un desiderio, l’arcangelo Batral che calpesta Filippu Discianzu come un verme.
Rituzza si alzò dalla panca, si segnò e uscì. Angeliaddu, solo, andò verso le reliquie. Le guardò da vicino: la cartapesta consunta che altre volte lo aveva schifato adesso gli sembrava bella, e quelle parti di corpo umano affiancate alla rinfusa come nella vetrina di una macelleria emanavano un ordine e un rispetto nuovi. I capelli erano colorati di rosso e avevano la forma di un piccolo elmo su cui c’era un accenno di fronte, troppo piccolo per infilarci la testa dentro. Li prese in mano: la cartapesta era intatta rispetto alle altre reliquie, che chi si metteva ad accarezzare capelli, Archidemu Crisippu forse, o Enzu Cascatu, che non riusciva mai a debellare l’infinita piantagione di pidocchi. O lui, l’unico ciuffo bianco del paese. Accarezzò con la mano la parte della parrucca corrispondente alla sua macchia, e poi cercò di avvicinarla dietro la nuca per appoggiarla sul ciuffo albino.
“Fermati, delinquente!”.
Angeliaddu si spaventò e la reliquia cadde a terra. Guardò verso l’entrata, una delle due sagome nere lo indicava con un braccio, e anche in controluce riconobbe quel fetùsu del geometra. Lasciò stare la reliquia a terra e corse via, spaventato, e non sapeva perché fuggiva tra i banconi come un ladro, perché saltava sul marmo come un delinquente, ma voleva solo correre via di là, uscire dalla porta secondaria e scomparire, che per lui non ci sarebbe mai stato un angelo a schiacciare le teste dei nemici. Si fermò solo sotto gli archi del Vuttandiere.
Quando la processione terminò, insieme all’assessore il geometra chiamò da parte don Guari e gli raccontò, con la testimonianza giurata dell’amico, che Angeliaddu aveva cercato di rubare una delle reliquie sacre, che solo il loro intervento aveva impedito quel funesto reato, e che insomma bisognava fare qualcosa per quel piccolo delinquente, che màmmasa non era capace più di guardarlo, e se la famiglia non riesce, o ci pensa la Chiesa o ci pensa la legge. A proposito, disse prima di lasciarlo, vedete che la reliquia che stava tentando di rubare è caduta a terra e si è un po’ crepata. Vedete voi se farla acconzàre. Del geometra il prete non si fidava, ma dell’assessore sì, e se lui confermava allora il povero ragazzo aveva oltrepassato il limite. Forse era il caso di parlare con la madre prima che potesse accadere qualcosa d’irreparabile.
Una formica schiacciata
A Caracantulu quella storia del miracolo proprio non li calàva, di più, lo squassava e sbatacchiava. Solo di quello si parlava nel bar e tutti i paesani, ignari fedeli del principio causaeffetto, erano persuasi che a Giobbe la vista gli era ritornata perché aveva accarezzato e baciato le reliquie di cartapesta del santo di Montpellier.
“Cazzàti”, commentò mentre calava bilioso le carte.
“Cazzàti? E allora perché proprio vigilia di san Rocco gli tornò la vista? Perché proprio ieri, dopo che ogni anno Giobbe s’appòia le reliquie sugli occhi?”.
“Provaci pure tu, Caracantulu”, gli apostrofò con arroganza Bertuca, “prova pure tu a strofinarti la mano su quelle reliquie, non sia mai che san Rocco fa la grazia anche a un bestemmiatore come te”.
“La grazia di romperti una gamba deve farmi”, concluse.
Finita la partita, Caracantulu andò a prendersi da bere e s’assettò ai tavolini sul marciapiede. Guardò ciò che gli accadeva davanti come un sistema chiuso in cui si sperimentavano le leggi del mondo: alla bambina del fiore le càtta in terra il gelato perché non lo strinse abbastanza, il cane di Caliò abbaiò perché u Testona gli diede un calcio, Archidemu Crisippu stava scivolando dal marciapiede perché camminava guardando verso il cielo. Tutto tornava, pensò Caracantulu. Tutto sembrava rispondere a un ordine: io bestemmio da vent’anni e u Signùra non mi càca, Giobbe prega per tutta la vita e viene miracolato. Tutto troppo semplice per essere vero. Dal momento in cui lasciò centododici grammi di carne unghie e tendini sotto una fredda pressa germanica, dal momento in cui l’artefice, il vasaio, insomma quello che cazzo è, gli modellò come creta la mano trasformandola in vessillo d’ignominia e maledizione, il mondo per Caracantulu cessò d’essere ordinato e divenne il luogo dell’insensatezza e dell’inspiegabile: nulla aveva senso: era inutile fare, agire, amare, che l’universo se ne fotteva, che il destino dell’uomo dipendeva dalle stesse circostanze marginali che per esempio determinano la sopravvivenza di una formica, il numero di suola della scarpa che la sfiora. Un universo governato dalla semplice legge della casualità lo consolava perché così non c’erano motivi per la sua punizione: era stato solo un attimo di distrazione per colpa del rumore di una forbice caduta a qualcuno, un solo attimo che Dio non poteva punire con tanta malvagità. E adesso il miracolo di Giobbe ristabiliva un’altra verità, e cioè che il cielo e la Divina Provvidenza ripartiscono per meriti. Tutto tornava, pensò Caracantulu quando uscì dal bar per andare a mangiare dalla sorella.
Sulle turbolenze del sangue
Alla festa di san Rocco preferiva quella della Madonna, che era una fìmmina come lei, che gli uomini non possono comprendere in fondo il dramma della sterilità. Che tante volte s’immaginò l’arcangelo Gabriele bussare alla sua finestra e annunciarle la maternità futura. Anche quella mattina avrebbe reso omaggio alla Madonna anche se non ne aveva voglia perché il suo corpo s’era seccato e il marito spargeva semenze nelle ventri delle paesane, ma non aveva altri con cui parlare. E così andò dopo le undici, quando la gente era assiepata alla Matrice per la messa e alla chiesa di San Rocco c’erano poche genti. Mentre attraversava l’androne per andare verso la statua, fu distratta dalle reliquie. Pensò a Giobbe e le ritornò il pensiero che aveva fatto quella sera. Cu u sàpa si pùru a mìa, che forse per una rara combinazione stellare le reliquie funzionano ancora. E così scartò dal tragitto e si avvicinò all’altare secondario. Si guardò intorno e c’era solo Lulù, qualche panca più in là. A Cuncettina facevano senso quelle parti di corpo così realistiche, come un uomo esploso su un campo di battaglia. E quella testa di bambino, di un bambino che lei non avrebbe mai avuto. Adesso che Lulù le aveva ordinate, era facile contarle, e Cuncettina lo fece: cinque piedi, un ginocchio, un ventre, due cuori, due seni femminili, due braccia, due mani, due occhi e tre teste. C’era un ventre, uno solo. Che Cuncettina pensò a chi gli venne in mente di scegliere il numero delle parti da riprodurre, che certo il prete non lo aveva ordinato quel ventre all’artigiano, e invece lui l’aveva messo lo stesso perché s’era preso una femmina secca come una zolla ad agosto, e sperava così di aiutarla, che forse u Signùra l’avrebbe ricompensato per quel lavoro che faceva per sola devozione. Li aveva ordinati bene Lulù, che davvero sembravano due e più corpi messi sul lettino metallico d’una camera mortuaria. Quella sensazione la commosse ancora di più, gli occhi le si inumidirono perché anche lei le mancava poco per ridursi a brandelli, che la sua vita le sembrava finita, e allora lentamente avvicinò la mano sinistra e quando la posò sul ventre freddo di cartapesta Cuncettina cominciò a piangere. Ti prego Signore mio, fallo anche a me un piccolo miracolo, fammi tornare il sangue, fammi diventare di nuovo buona a fare figli, ti prego Signore mio, non può essere questa la mia vita, non può fare questo la tua misericordia, ti supplico di prenderti in cambio quello che vuoi, anche a Cosimo puoi portarlo da un’altra fìmmina ma fammi questo piccolo miracolo, un poco di sangue, che la speranza in fondo in fondo ce l’ho sempre avuta, ora l’ho capito, ora che non sono più buona. Dimmi che è un brutto sogno, santo Rocco mio, risvìgghiami.
A Lulù gli venne da tossire e Cuncettina si stuiò gli occhi. Lisciò il ventre un’ultima volta e prima di andare dalla Madonna, indifferente a Lulù e al mondo, si chinò e lo baciò con delicatezza, come si bacia la pancia gravida di una sorella.
Chi cazzu fàzzu ccà?
Dopo il pranzo dalla sorella si ritrovò, senza sapere nemmeno lui perché, alla fontana di San Rocco. Aveva bevuto e adesso, mentre si asciugava il muso con il guanto, stava immobile di fronte alla chiesa. Tutti erano dietro la processione e non c’era nessuno. Avanzò fino al portone continuando a farsi la stessa domanda. Era dagli anni lontani della tragedia che non vi metteva più piede, che una delle prime notti dopo il suo ritorno al paese, con la mano monca, in un accesso d’ira era andato di fronte a quel portone chiuso e ci aveva sputato per segnare i confini del suo territorio, come una pisciata di cane. Finora. Aveva dimenticato quanto fosse alta una chiesa, come una volta celeste che addomestica le ambizioni umane: il freddo improvviso gli causò un brivido. Si sentì al centro dell’attenzione e sgattaiolò nella navata a destra, dove c’era la vecchia statua di san Rocco. A una decina di metri, l’esposizione delle reliquie di cartapesta. Non c’era nùddu. Si avvicinò piano, come se i gesti rallentati gli offrissero un manto d’invisibilità. Quante mani avevano sfiorato negli anni quei pezzi di cartapesta? Quante migliaia di pensieri e desideri avevano accompagnato quel gesto? Gli sembrò di vedere tutte assieme le impronte una sull’altra, tutte le gocce di sudore e le minuscole particelle di pelle che vi si erano sedimentate, silenziose testimonianze delle segrete tragedie umane. E chissà quanti miracoli erano accaduti nel segreto di quelle vite, figli guariti, amori ritrovati, malattie scomparse. Chissà su quali di quelle due maschere con gli occhi si era poggiata la mano fedele di Giobbe, e se l’altra avrebbe sortito lo stesso effetto. E le fissava e pensava a come potevano quegli oggetti regalare miracoli, o che forse era proprio la prima lezione che Dio voleva dare, che proprio nell’assurdità dei gesti e nella loro irrazionalità si nasconde la fede che porta alla grazia. Provò un’inattesa sensazione di tranquillità, quasi di pace: il prurito era scomparso. A metà dell’altare c’erano due mani, una destra e una sinistra. Era stato più fortunato di Giobbe, che lui non doveva scegliere. Cominciò a fissare la mano sinistra: sembrava una di quelle protesi che gli avevano offerto nella clinica tedesca e che lui rifiutò bestemmiando. Era aperta, come nell’atto di afferrare qualcosa, che chissà a chi gli era venuto in mente di fare una mano, che forse nel dopoguerra i paesani tornavano dal fronte mutilati per le mine. O forse la fecero proprio per lui, perché ripensò alla legge della giusta ricompensa e ogni cosa tornava, tutto sembrava essere stato ordinato. Era venuto il momento di sfiorare col guanto la reliquia guaritrice, ma proprio quando stava per togliere la mano dalla tasca entrò in chiesa Micu Paparone, suo abituale sfidante alle carte, preceduto dalle grida festose del figlio. Caracantulu si nascose dietro la colonna. Se l’avessero visto lì, già immaginava le pigliate per il culo al bar, i sorrisini, le battute, gli sfottò. Rimase dietro la colonna, e quando vide Paparone che di fronte alla statua di san Rocco prendeva in braccio il figlio per fargli baciare la ferita sul ginocchio, uscì.
Gedankenexperiment
Nei giorni di festa paesana Malarosa non doveva trovare scuse per andare alla potìga di Sarvatùra visto che era l’unico negozio che apriva in paese. Aspettò che finisse la puntata centoquarantasei di Amori nella steppa e uscì. Nel negozio assettàtu alla sedia c’era il padre di Rorò: era affranto, col volto triste, lo sguardo abbassato. Per un attimo Malarosa temette che appena l’avrebbe vista le sarebbe saltato addosso e presa per un braccio e cacciata a malomodo, ma si sbagliò perché quando il vecchio le posò gli occhi addosso fu come se non la vedesse. E in quell’attimo in cui Malarosa scorse nell’indifferenza d’un uomo l’indifferenza dell’universo alla sua piccola vita, ebbe la consapevolezza che quell’esistenza di odio e malauguri apparteneva solo a sé e alla sua testa, che tutte le giornate e gli anni trascorsi a fomentare quella ferocia, a costruire la propria vita sulla maledizione di un’altra vita erano solo suoi, e che nessuno al mondo, da Sarvatùra al padre di Rorò, sospettava quell’universo di disprezzo e malevolenza. E quando lo pensò, Malarosa, che quella esistenza d’odio era solo la sua, ci restò male, come l’atleta che batte il record in un allenamento in cui non c’è nessuno. Era solo la sua, altrimenti Sarvatùra non l’avrebbe salutata con un sorriso quando nescì. Sepolta dalle macerie di quella strana sensazione di una vita inesistente, quando fu di fronte alla chiesa di San Rocco, da dove vide uscire Micu Paparone con il figlio in braccio, decise d’entrarci, che aveva bisogno di sedersi in un posto fresco.
Santificazione delle feste
Ogni festa dell’Assunta, Assuntinuzza Stranedda andava a bussare nel primo pomeriggio alla porta secondaria di don Venanziu per farsi un regalo come si deve. Ma poiché il giorno precedente fu impegnata col matrimonio di una nipote, andò il giorno dopo. Fu un regalo che durò poco, che Venanziu non vedeva l’ora che finisse, non perché Assuntinuzza non fosse fìmmana attraente, tutt’altro, un vulcano cinquantenne nel pieno della sua eruzione, ma perché, in verità, non gli nda calàva, che anzi, verso la fine avvertì un quasi impercettibile afflosciamento micciarico che lo costrinse ad accelerare le spinte ultime. Quando Assuntinuzza nescì per andare a farsi la ricetta dal medico, appagata come dopo una mangiata di melangiàni chìni, don Venanziu girò la figura della madonnina perché per quel giorno, stranamente, poteva bastare, e non si rese conto della bizzarria, che in verità non era proprio contento di quella visita, e chissà perché per un attimo sperò che in qualche modo Mikaela avesse saputo di quel sistema e fosse stata lei a bussare. Quando ritornò al suo posto vicino la vetrina, non fece in tempo ad assettàrsi che sentì confusione in strada. Si affacciò e vide Girolamu Catalanu e Franciscu Baruna portare in braccio Bertuca al dottore Vonella. Catalanu gli anticipò la domanda: “Bertuca è caduto dal marciapiede e si ruppìu una gamba!”.